Il Quartetto in mi bemolle maggiore di Mozart
Tra gli organici di musica da camera, quello per pianoforte e archi (violino, viola e violoncello) non è tra i più frequenti neppure nella piena espansione dell’Ottocento, dove si contano pochi pezzi isolati, e ancor meno lo era ai tempi di Mozart, allorché il pianoforte veniva per lo più abbinato all’orchestra (anche da camera) nel genere del Concerto, e gli archi si disponevano in formazioni omogenee, come il Quartetto e il Quintetto, l’una e l’altra variamente ma diffusamente impiegate da Mozart stesso, o tutt’al più al pianoforte si aggiungevano uno (Sonata) o due archi (Trio). Tant’è che nel suo catalogo figurano soltanto due lavori per questa compagine insolita: il primo, in sol minore, reca il numero K. 478 e la data del 16 ottobre 1785; il secondo, il nostro, in mi bemolle maggiore K. 493, è conseguente di poco meno di un anno (Vienna, 3 giugno 1786) e occupa, nel catalogo mozartiano, la posizione successiva alle Nozze di Figaro (K. 492). Alla loro origine vi fu una commissione risalente all’estate del 1785 da parte dell’editore Franz Anton Hoffmeister per la composizione di una serie di tre Quartetti con pianoforte da destinare al pubblico viennese dei più colti amatori e dilettanti: evidentemente, nell’intenzione dell’editore, vi era quella di tentare nuove strade. Ma dopo l’insuccesso commerciale del primo, pubblicato alla fine del 1785, Hoffmeister pregò Mozart di non comporre più gli altri due Quartetti e di considerare annullato il contratto, dichiarandosi però pronto a lasciargli l’acconto versato. In realtà il secondo Quartetto (K. 493) era già in fase di lavorazione e per questo Mozart si rivolse a un altro editore, Artaria, già editore dei Sei Quartetti op. X dedicati a Haydn, offrendoglielo in alternativa. E Artaria, più audace e disponibile del collega, lo acquistò, per pubblicarlo poi nel luglio 1787. Ma evidentemente a questo punto di un terzo Quartetto non si parlò più.
Nella loro monografia mozartiana Giovanni Carli Ballola e Roberto Parenti citano un illuminante articolo apparso nel 1788 sul “”Journal des Luxus und der Moden””, che aiuta a comprendere il contesto in cui simili pezzi (qui il riferimento è in particolare al Quartetto K. 478) vedevano la luce: “”Altri pezzi si reggono anche se mediocremente eseguiti; questa composizione mozartiana invece non si può proprio ascoltare suonata da superficiali dilettanti. Ciò è tuttavia accaduto innumerevoli volte durante lo scorso inverno […] ma non poteva piacere; tutti sbadigliavano di noia per l’incomprensibile chiacchiericcio dei quattro strumenti che non si trovavano insieme nelle solite quattro battute e il cui impossibile concento non rivelava alcuna unità di espressione […]
Quale differenza, quando questa lodatissima composizione viene eseguita con la massima precisione da quattro musicisti professionisti e ben preparati, in un ambiente piccolo, dove neppure le pause tra nota e nota sfuggono all’orecchio attento e davanti a non più di due o tre persone veramente interessate! In questo caso però non c’è davvero da pensare al successo esteriore, al favore della moda o a lodi convenzionali””. Sono ancora Carli Ballola e Parenti a commentare, accomunando i due Quartetti con pianoforte al Quintetto per pianoforte e fiati: “”Nei Quartetti (K. 478 e K. 493) e nel Quintetto (K. 452), a una parte pianistica ancor più impegnativa e concertante di quanto non sarà nei Trii o nelle Sonate con violino, si contrappongono compagini strumentali trattate con un’autonomia, un’articolazione e talora una difficoltà di scrittura che scoraggiarono editori ed esecutori, disorientati dinanzi a tanta audace novità””.
L’impronta innovatrice e la vena sperimentale di Mozart risaltano anzitutto se messe a confronto con le convenzioni dello stile galante. Scrive a questo proposito un altro studioso di Mozart, Alfred Einstein: “”Un brano per pianoforte e archi, nelle mani di Johann Christian Bach e di Philipp Emanuel Bach, diventa automaticamente un Concerto per pianoforte; Mozart invece riesce a trattarlo come pura musica da camera, esigendo dal pianista un virtuosismo da concertista ma intessendo gli archi nello stesso materiale tematico, in una dimensione che non ha più nulla a che vedere con il dilettantismo musicale””. La fusione fra la dimensione cameristica del Quartetto d’archi e il virtuosismo del Concerto per pianoforte si realizza dunque per una terza via, assolutamente inedita e personale. Il pianoforte non si oppone più a violino, viola e violoncello intesi come sostituti di un accompagnamento orchestrale subalterno, ma dialoga con essi su un piano di parità, ora venendo alla ribalta con la sua pronunciata individualità, ora passando sullo sfondo per lasciare ai suoi compagni la possibilità di sviluppare autonomamente, solisticamente, un proprio articolato corso di pensieri: e la scrittura ne riceve una conseguente scioltezza e varietà.
Il Quartetto K. 493 rappresenta perfettamente la sintesi di questi due mondi opposti, quelli del dialogo drammatico e dell’introspezione interiore. Quest’esito non sarebbe stato così naturale senza la vicinanza delle Nozze di Figaro, prima compiuta affermazione del teatro di Mozart, sotto il cui segno, storico e artistico, questo Quartetto si pone. Tutto vi appare però come decantato. Nei tre movimenti si respira un’aria di matura consapevolezza, di fluente discorsività, di grazia ornamentale: anche le tensioni drammatiche, gli spunti appassionati e “”romantici””, sono calati in un’atmosfera di raggiunta armonia espressiva e formale, di equilibrio superiore, in una parola classico. Il primo movimento (Allegro) è il più ricco di sostanza tematica e di espansività, con estese sezioni di calda effusione melodica e cantabile, in un clima di fondo lucido e sereno, senza ombre. Il pianoforte introduce incisivamente i motivi tematici e li elabora con spiccate volate solistiche, incalzato dagli archi, sempre pronti all’imitazione e alla variazione: gli episodi si connettono così in una piena affermazione dello stile concertante. Il Larghetto centrale in la bemolle maggiore è, come avviene spesso in Mozart, il centro di gravità dell’opera, il momento introspettivo nel quale il lirismo più delicato si dispiega in modo gravemente serio, pensoso e profondo, senza perdere però il controllo della disciplina formale: di certo questa non è musica per “”signorine della buona società”” che si possa ascoltare con un sorriso distratto, né seguire con superficiale disattenzione. Vi domina, fin dal tema esposto per quattro battute dal pianoforte solo e poi concluso dagli archi, un senso di trepida attesa, di ansia quasi drammatica, che si manifesta negli scarti dinamici, nelle pause che spezzano il fraseggio, nei giri tortuosi dell’armonia, sospesa tra ampie aperture intervallari e ripiegamenti in scontrosi cromatismi: solo nella seconda parte il discorso si ricompone in un flusso più disteso e continuo. Perfino il luminoso Rondò finale (Allegretto), la cui melodia sostenuta da semplici accordi sembra l’essenza della purezza e dell’ingenuità, riserva all’ascoltatore, sotto la superficie spensierata, idee contrastanti singolarmente esposte e riprese, sortite solistiche ostentatamente marcate, tratti di spirito ammiccanti, perfino risvolti umoristici insistiti e pungenti. Da questa apparente dispersione di un gioco sorprendentemente esatto tutto sfocia non in una cadenza, ma in un segnale del pianoforte che, con
un lungo trillo sospeso sulla dominante, richiama all’ordine i tre strumenti ad arco preparando l’ultima ricomparsa del tema principale e destinandolo alla trionfale conclusione.
Alexander Lonquic, Solisti dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (Carlo Maria Parazzoli, Raffaele Mallozzi, Luigi Piovano)
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica da camera 2001-2002