La Sinfonia n. 2 di Sibelius
Nella lunghissima vita di Sibelius le sette Sinfonie coprono un arco di tempo di appena venticinque anni: eccetto la Prima, esse nacquero tutte nel primo quarto del secolo scorso, il Novecento. Ciononostante si continua a considerarle nel loro complesso rappresentative del tardo Ottocento, nell’alveo delle scuole nazionali, come il loro autore: sorta di Cajkovskij finnico. Per quanto Sibelius appartenesse alla generazione di Strauss, Mahler, Debussy e Busoni (tutti nati a cavallo del 1865, l’anno di nascita di Sibelius), risulta storicamente arduo inquadrarlo a pieno titolo in una delle tendenze della crisi o del cambiamento da cui sarebbe nata la musica moderna: nella cui genealogia si stenta infatti a collocarlo. Se da un lato la stessa definizione di lui come esponente del nazionalismo romantico ottocentesco si rivela inadeguata, non foss’altro per motivi cronologici, dall’altro lato l’incidenza della musica popolare finlandese in queste opere, per quanto chiara, non giunse mai a essere determinante nel senso in cui lo fu per esempio per un Bartók quella ungherese, ossia quale spinta alla rifondazione del linguaggio su basi strutturali avanzate: essa rimase vagheggiamento ed evocazione di atmosfere suggerite dall’anima della natura, poeticamente trasfigurate da un sottofondo inconscio, nostalgico o programmaticamente affermativo, assai personale.
Con tutto ciò, viene il sospetto che Sibelius sia ancora vittima di una visione d’insieme ancorata a vecchi pregiudizi, ad associazioni automatiche. Il percorso compiuto nelle Sette Sinfonie non va tanto nel senso di un’evoluzione rettilinea quanto di una risposta sempre nuova a interrogativi formali e linguistici radicati nel presente: solo marginalmente cullati dall’eco di nordiche magie crepuscolari e tutt’altro che disimpegnati. Anche la tendenza a una certa introspezione psicologicamente inquieta, non esibita ma prettamente moderna, si riflette sul piano compositivo per addentrarsi in pieghe sottilmente ambigue: di un’ambiguità latente e risolta problematicamente. La caratteristica proliferazione delle cellule tematiche sviluppata fino a produrre, senza apparenti cesure, l’organismo intero della costruzione sinfonica (un modo di procedere tutt’altro che tradizionale, schematico o epigonale), l’identificazione completa del pensiero sinfonico nell’idea formale che lo regge (e che muta in modo rilevante da una Sinfonia all’altra), la conseguente ricerca cli una espressione orchestrale che non sia rivestimento esteriore ma incarnazione dell’idea e dello stato d’animo in timbri e suoni assoluti: questi elementi configurano una personalissima valorizzazione delle risorse compositive, tutt’altro che riducibile, se non in superficie, a intenti descrittivi, nazionalistici o comunque programmatici.
Proprio l’allontanamento da contenuti extramusicali è ciò che distingue le Sinfonie dai poemi sinfonici, nei quali si compì l’apprendistato compositivo cli Sibelius. Sibelius fu consapevole che il genere della Sinfonia richiedeva affrancamenti in favore di un equilibrio più misurato e razionale di ispirazione e disciplina formale. Se nella Prima Sinfonia in mi minore op. 39, del 1899, il vigore espressivo romanticamente acceso tendeva a travolgere la cornice formale privilegiando per associazioni il libero corso della fantasia, nella Seconda Sinfonia in re maggiore op. 43, iniziata durante un soggiorno in Italia nel febbraio 1901 e completata dove molte revisioni un anno dopo, l’empito delle idee musicali, le tensioni psicologiche e i tratti incandescenti vengono temperati da una struttura più essenziale, quasi classica nella sua economia, e da un procedimento più corso di elaborazione tematica. Il clima generale quasi ossessivo deriva dalle note ripetute dagli archi nelle battute iniziali della Sinfonia; mentre un altro elemento di quell’inizio – il frammento di scala ascendente dei fiati – non solo dà l’avvio al tema principale del movimento lento, ma si ripresenta nei temi sia dello Scherzo sia del Trio, e diviene infine, mutuato dalla transizione che lega insieme i due ultimi movimenti, il motivo di base del Finale. Perfino le violente, ripetute scosse che fanno sussultare in più punti le fondamenta dell’edificio, in una sorta di tragica contemplazione di forze oscure intrise di pathos e di dolore (esemplare da questo punto di vista il lugubre secondo movimento, ispirato da riflessioni sul Don Giovanni e il Convitato di Pietra, ossia la Morte), non annientano la solidità della compagine sinfonica, prestandole piuttosto un corso spiritualmente avventuroso in una forma deliberatamente discontinua. L’andamento per contrasti e sviluppi improvvisi si sostanzia di elementi tematici quasi aforistici, che nel primo movimento si connettono in maniera frammentaria, ma senza eludere chiari riferimenti ai principi dell’esposizione, dello svolgimento e della ripresa. Dopo il drammaticissimo secondo movimento, l’opposizione si radicalizza tra lo Scherzo martellante e il placido Trio.
Solo nell’ultimo movimento un canto solenne e disteso sembra voler prendere possesso dell’intera orchestra per espandersi in una più ampia e via via sempre più rasserenata visione. Questo movimento culminante, emergente da un episodio di transizione chiaramente modellato sugli esempi di Beethoven (Quinta Sinfonia) e Schumann (Quarta Sinfonia), si basa su una insistita uniformità iterativa e su una esibita magniloquenza sonora. Tuttavia, come è stato affermato, quel suo carattere di maestoso canto processionale è una condensazione di tanti episodi della Sinfonia che in precedenza potevano apparire enigmatici e mutevoli: una sorta di arcobaleno teso verso l’apoteosi finale, che anticipa le radiose perorazioni che ritroveremo nel Sibelius più maturo, per esempio nella conclusione della Quinta Sinfonia.
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione sinfonica 2000-2001
Jeffrey Tate / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia