Fu durante il suo soggiorno in cerca di fortuna a Parigi – iniziato il 19 settembre 1839 e protrattosi con scarsi risultati pratici fino alla fine dell’anno successivo – che Richard Wagner, oltre ad accettare per vivere arrangiamenti di opere francesi e italiane, compose una serie di romanze su testi francesi all’evidente scopo di ingraziarsi i celebri cantanti e le cantatrici del luogo. Per quanto nella sua autobiografia Wagner ricordasse con una certa ironia quel periodo, aggiungendo di non vergognarsi affatto di quelle composizioni d’occasione (che coesistettero fra l’altro col completamento del Rienzi e furono pubblicate nel 1841 come supplementi musicali sulla rivista letteraria “”Europa””), i risultati furono assai più magri e umilianti di quanto avesse sperato. La cantante Pauline Garcia Viardot, famosa interprete di Rossini, Bellini e Meyerbeer, a cui prima di tutto egli si era rivolto, lesse molto gentilmente i suoi lavori né lesinò le espressioni del suo compiacimento, ma assicurò nel contempo di non vedere alcuna possibilità per la loro esecuzione. Dello stesso tono furono le reazioni di altri cantanti più o meno in auge, formalmente educate ma del tutto negative: anzi, in alcuni casi i giudizi furono drastici nel sottolineare che il linguaggio “”antiquato”” di quei lavori non avrebbe mai incontrato il gusto del pubblico parigino. In un certo senso avevano ragione. E il caso finì lì, senza ulteriori sviluppi. L’unico seguito nel campo della lirica vocale con pianoforte si sarebbe avuto molti anni dopo con i Wesendonck Lieder, che appartengono però a tutt’altra sfera, artistica e biografica.
Le romanze francesi di Wagner – mezza dozzina in tutto – non spostano di una virgola la nostra conoscenza del grande musicista e sono tutt’al più una curiosità. Ciò non toglie che la loro dignità artigianale mostri più di un motivo di interesse se messa in relazione con un conflitto in esse latente fin dall’origine: quello tra la volontà di compiacere, senza peraltro riuscirci, il gusto di un pubblico particolare (di cui, va aggiunto, Wagner aveva un’idea vagamente preconcetta) e la necessità di non tradire del tutto le proprie ambizioni. Ambizioni che non partivano affatto dal desiderio di seguire le tracce del Lied romantico tedesco – a Parigi, fra l’altro, non proprio disprezzato – ma semmai di uniformarsi allo stile medio della romanza da salotto, ricalcato sui moduli espressivi dell’opera francese.
Attente, su testo tratto dalle Orientales di Victor Hugo, adombra nella prima parte una concezione strumentale che ricorda le tempeste non lontane dell’ Olandese volante, ma si irrigidisce poi nello stereotipo degli accordi ribattuti in tempo misurato, unico sostegno per larghi tratti di una linea vocale che sale e scende a ondate, con piglio drammatico. Nella seconda parte la scrittura si fa più discreta e avvolgente, con passaggi cromatici più insistiti, mentre la voce tende dal declamato arioso a un recitativo più continuo, che solo alla fine non sa resistere al gesto eclatante di un salto di settima ascendente per riconquistare il sol acuto in fortissimo (sol maggiore è la tonalità del brano, Très vive l’indicazione del tempo).
Tout n’est qu ‘images fugitives… (soupir), su testo di Jean Reboul (1796-1964), potrebbe essere, non solo nel titolo, un pezzo pianistico di Liszt provvisto di un commento esplicativo. È il pianoforte, infatti, a creare il clima agitato del brano nelle quatto battute introduttive e ad accompagnare con i suoi arpeggi la scettica meditazione del canto, che anela alle altezze del cielo e ricade in una plumbea rassegnazione terrena. Resta semmai da notare, in aggiunta all’incalzante scrittura pianistica, il tratto plastico con cui la linea del canto plasma l’ampollosità sospirosa del testo, stemperandone il turgore in un disegno di levigata compostezza, reso appena più solenne nella chiusa, prima scolpita, poi evanescente.
Adieux de Marie Stuart, su testo di Pierre Jean de Béranger (1780-1857), è una vera e propria scena teatrale di ampie dimensioni, preceduta da una pensosa introduzione del pianoforte che sembra alludere all’affollarsi e al raécogliersi dei pensieri. Scena lirica e drammatica insieme, di quelle che Wagner doveva credere potessero piacere al gusto francese. Squisitamente convenzionale è l’entrata della voce su quell’””Adieu”” in solitaria arsi tra dominante e tonica, ripreso da una lenta ascesa e da una repentina caduta: non era forse quello l’emblema del tragico? La teoria degli “”adieu”” che si rincorrono suggerisce un tono elevato, nobile e compreso di sé; ma a parlare secondo la maniera eroica è più la regina che la donna. Brevi stacchi di recitativo interrompono la sequenza dei lamenti, ora scanditi con forza perentoria, ora ripiegati su se stessi con struggente nostalgia; al solenne mi bemolle d’impianto si sostituisce nella parte centrale un più lieve sol maggiore, nel momento dei rimpianti e delle dolci memorie. E all’abbandono subentra da ultimo l’agitazione e la fierezza, che non disdegna cadenze e volatine quasi virtuosistiche per dire che il dolore non deve essere solo vissuto, ma anche adeguatamente rappresentato. È su quell’””adeguatamente”” che Wagner avrebbe in seguito cambiato idea, ammesso che prima non fingesse una parte non sua.
Karita Mattila, Tuija Hakkila
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica da camera 1999-2000