Leós Janàček – Sonata per violino e pianoforte

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La Sonata per violino e pianoforte di Janàček

           

Della Sonata per violino e pianoforte di Janàček, la terza da lui composta ma l’unica a essersi conservata, esistono almeno due differenti versioni, che abbracciano un periodo di diversi anni e passano attraverso ulteriori fasi intermedie, mutandone il disegno. La prima versione, iniziata nel 1913 e terminata nel maggio 1914, prevedeva attorno al nucleo originario della Ballada, in origine concepita come lavoro indipendente e poi collocata nella Sonata al terzo posto, un Con moto iniziale, un Adagio e una Marcia finale. Successivamente Janàček, per stadi progressivi tra il 1915 e il 1919, oltre a rielaborare il movimento iniziale, spostò la Ballada al secondo posto ed eliminò la marcia; in un primo tempo sostituendola con un altro Finale, poi rimpiazzandola definitivamente con l’Adagio e componendo ex novo il terzo movimento. Questa versione, ultimata nel 1921, venne

presentata per la prima volta a Brno nel 1922 ed è quella oggi eseguita.

L’itinerario compositivo della Sonata risente in modo evidente dei contraccolpi, emotivi e psicologici, degli anni della Prima guerra mondiale, dallo scoppio – 26 luglio 1914 – alla disgregazione dell’Impero austro-ungarico, seguita dalla liberazione dei popoli cèco e slovacco. Partito da un’idea patriottica e da intenti nazionalistici («La Sonata per violino fu scritta all’inizio della guerra, quando attendevamo i russi in Moravia», ricordava l’autore ancora nel 1922: e i russi

erano i fratelli liberatori), Janàček col tempo mitigò l’alta temperatura dell’esaltazione bellica, di quando alla sua mente eccitata sembrava di “”percepire i clangori dell’acciaio affilato», e rese più contrastante l’insieme di sensazioni che la guerra gli aveva suggerito. Il travaglio della Sonata, la cui versione definitiva contempla alla fine un Adagio nient’affatto liberatorio, non è soltanto formale, per una forma affrancata e originale, ma si rispecchia anche nella oscillazione tra differenti stati d’animo, tra aggressività e introversione, ansia e speranza: quasi come in un caleidoscopio nel quale tutti questi elementi fossero agitati alla rinfusa, ma non da ultimo senza precise intenzioni.

L’aspetto più caratteristico della Sonata è costituito da una continua nervosità, da sbalzi d’umore improvvisi e laceranti, di cui l’estrosa spigliatezza, evidentemente ricalcata sui modi tipici dell’esecuzione della musica popolare, tanto del canto quanto del parlato, è il corrispettivo sul piano prettamente compositivo. Così il Con moto iniziale può richiamare alla mente gli stilemi del violinismo tzigano, ma è allo stesso tempo espressione di un’isteria senza freni, tesa e bruciante, resa ancor più stridente dalla contrapposizione degli stili: velocità affrettata degli accompagnamenti e flemma sinistra del canto. Siamo davvero vicini a quelle zone della psiche di cui ci parlano Kafka e Kundera nei loro romanzi.

La Ballada. Con moto che segue è una parentesi lirica tutta giocata sulla grazia della melodia e la decisa emancipazione del pensiero armonico; eppure anche qui si avverte un che di paradossale, di non completamente svelato: una piacevolezza per così dire inquieta, negata. E indole ossimorica ha decisamente l’Allegretto, con le sue movenze di danza gaia e vivace; ma come disturbata da una latente tendenza all’accelerazione ritmica e alla sfasatura metrica, e minacciata da un’instabilità timbrica secca e intermittente: tra luci e ombre, o meglio tra colori sgargianti e improvvisi, crudi bianco-neri.

Da questo punto di vista l’Adagio finale, ambiguo anticlimax in un’opera senza climax, è la chiave di lettura più appropriata per intendere la Sonata come una confessione di forza vitale e di mortale debolezza. La polifonia di stili incontrata nel corso dell’opera non si risolve in un contrappunto dialettico: e l’identità del tutto, tanto del piano complessivo così laborioso quanto dei particolari così lucidamente personalizzati, si frantuma in una follia afasica, senza neppure più i connotati di una parvenza che non sia schizofrenica. Sussurri e grida si confondono, velocità e lentezza si sovrappongono, violino e pianoforte si scambiano le funzioni, fino a non sapere più come interagire, se non con apprensive interiezioni. Il violino balbetta ancora qualcosa, poi tace. La disgregazione è compiuta. Anche la Cecoslovacchia libera intanto era nata, ma questa musica non sembra il suo inno di battesimo.

Yuuko Shiokawa, Andràs Schiff
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione di musica da camera 1998-99

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