Antonín Dvořàk – Quintetto in la maggiore per pianoforte e archi op. 81

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Il Quintetto in la maggiore di Dvořàk

 

L’ascolto del Quintetto con pianoforte in la maggiore di Dvořàk dopo il Quartetto “”Lettere intime”” di Janàček renderà immediatamente palesi le sostanziali differenze che passano tra i due principali rappresentanti, dopo il boemo Smetana, della corrente nazionalistica cèca. Queste differenze, costitutive di un modo di sentire e di comporre ben al di là dello scarto generazionale, risultano oltremodo evidenti già nell’ambito del rapporto con il folclore: lo stile essenziale, lapidario e disadorno di Janàček, permeato negli strati più profondi di cellule originarie modellate sull’inflessione della melodia parlata, si stempera in Dvořàk nell’eloquenza della celebrazione romantica di uno spirito popolare tanto innato e genuino quanto idealizzato e stilizzato: rivelandone la tendenza a sprigionare dal patrimonio autoctono forze vitali e ritmi travolgenti di natura eminentemente musicale.

Scritto nell’arco di meno di due mesi, tra il 18 agosto e il 3 ottobre del 1887, il Quintetto op. 81 è di gran lunga il più noto dei due Quintetti con pianoforte composti da Dvořàk nella stessa tonalità di la maggiore; ma se il primo op. 5, datato 1872, si inscriveva ancora nell’orbita classicheggiante di Mozart, questo se ne allontana in direzione di una più pregnante integrazione tra elementi romantici, soprattutto brahmsiani, e folclorici. Come prima di lui Smetana, anche Dvořàk, a differenza dei russi, riteneva che lo spirito del canto popolare dovesse essere ricreato non copiando il popolo, bensì reinventando con la fantasia nuove melodie sul modello della musica popolare: non rifacimenti o ripensamenti basati sull’elaborazione del vero, dunque, ma stilizzazioni formali artisticamente originali. Cresciuto sotto l’influsso delle teorie di Herder, Goethe e dei fratelli Grimm, che furono così decisive per lo sviluppo del nazionalismo cèco, egli ravvisò il suo ideale artistico in una tradizione che, partendo dal classicismo e operando nel solco del grande romanticismo tedesco, immettesse nelle strutture formali di quella tradizione e nei suoi schemi compositivi la comunicativa diretta del canto popolare, giungendo a vagheggiare l’utopia totalizzante di un folclore senza distinzioni slavo, anzi panslavo.

Questi due atteggiamenti coesistono in modo quasi programmatico nella concezione formale delle sue opere maggiori, alle quali appartiene anche il Quintetto op. 81. L’ambizione strutturale alla grande forma si manifesta soprattutto nei movimenti estremi, dominati da un’elaborazione tematica salda e concentrata negli sviluppi; mentre in quelli centrali risaltano i due aspetti peculiari dell’idioma ispirato al folclore: effusione melodica e senso immaginativo negli Adagi, vivacità ritmica e rustica robustezza negli Scherzi. Nel primo movimento del nostro Quintetto, Allegro ma non tanto, la netta plasticità dei temi, dalla prima esposizione del violoncello alle successive entrate degli archi fino alla ripresa affermativa del pianoforte, mostra un’espressività appassionata, ora energica, ora lirica, oscillando tra indugi contemplativi e vigorose impennate. Quest’inventiva insieme spontanea e controllata, di immediata forza comunicativa, si ripropone con una serrata unitarietà di effetti potenziati nell’Allegro finale, raggiungendo una perfetta simbiosi di vitalità gagliarda e di gioiosa brillantezza.

I due tempi centrali, come si è detto, danno ampio spazio al carattere popolare. La Dumka, canto popolare russo-slavo, sorta di méditation narrativa di carattere elegiaco, è il fulcro dell’Andante con moto, pagina sospesa tra pensosità e malinconia e contrassegnata dal contrasto tra la sezione lenta iniziale, poi ripresa alla fine, e l’irruzione centrale di un Vivace effervescente e aggressivo. Lo stesso procedimento, ma a parti invertite, si ripresenta nello Scherzo (Molto vivace), un baldanzoso Furiant in 3/4 festosamente danzante e a tratti sincopato, interrotto dalla pacata staticità del Trio (Poco tranquillo).

Anche queste asimmetrie e questi contrasti, che non giungono mai a contemplare insidie alla compattezza o sfoghi drammatici, sono del tutto compatibili con un piano compositivo nel quale l’estrosa sorpresa, apparentemente improvvisata ma mai sconfinante nei territori di un atteggiamento problematico, è funzionale non solo a una visione di spontaneo ottimismo ma anche a una integrazione con il pensiero costruttivo generale. Tutto suona piacevole e gradevole, sano ed equilibrato, pienamente bello: siamo ancora lontani dal sapore acre dell’ardente realismo psicologico di Janàček, e dalla durezza aspra dei suoi scatti imprevedibili.

Andràs Schiff, Panocha Quartet
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione di musica da camera 1998-99

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