Il Quartetto n. 2 di Janaček
Il Secondo Quartetto per archi è l’ultima creazione importante di Janàček, che lo compose tra il 29 gennaio e il 19 febbraio 1928, subito dopo aver messo fine alla sua ultima opera Da una casa di morti. Non fece in tempo ad ascoltare né l’uno né l’altra: neanche sei mesi dopo, il 12 agosto, si spense improvvisamente per un attacco di bronco-polmonite, in una clinica di Ostrava. Aveva da poco compiuto settantaquattro anni.
Nel sottotitolo del Quartetto, “”Lettere intime””, Janàček compendia il soggetto che l’aveva ispirato: l’amore per Kamila Stösslovà, una giovane donna sposata, più giovane di lui di trentotto anni. Da quando l’aveva conosciuta, nel 1917, Janàček aveva preso ad inviarle lettere d’amore sempre più appassionate; da semplice musa ispiratrice quale era stata all’inizio, ella era divenuta l’oggetto quasi morboso di un amore tormentato, incompiuto e impossibile: e tale rimase per il resto della sua vita. In un primo momento Janàček aveva pensato di intitolare il Quartetto appunto “”Lettere d’amore””, ma lo aveva poi modificato in “”Lettere intime”” per una sorta di pudore, onde non esporre troppo i suoi sentimenti ai pettegolezzi della gente. Nella versione originale esso comprendeva simbolicamente una “”viola d’amour””‘ per la parte della viola, come si trova scritto nel frontespizio dell’autografo. Ma anche questa idea venne poi abbandonata.
All’interno della fitta corrispondenza con Kamila, che a lungo costituì l’unico mezzo per comunicare con lei, che viveva lontano, il Quartetto si pone come una sorta di conclusiva, definitiva confessione affidata alla musica: una musica infuocata, addirittura rovente, che ripercorre le stazioni di un delirio amoroso portato all’estremo, quasi assoluto. Da quanto si ricava dalle lettere, che registrano come nel diario di un sonnambulo le varie tappe della composizione, ognuno dei quattro movimenti era stato acceso da desideri e speranze, pensieri e sensazioni, emozioni e ricordi del suo incontro con Kamila. Così il primo rappresenterebbe la straordinaria impressione ricevuta nel vederla la prima volta e l’eruzione incontrollabile della passione; le sonorità acute, improvvise e lancinanti, degli archi “”sul ponticello””, seguite dal languore di mesti assoli, ne riproducono eloquentemente lo slancio e l’abbandono. Alludendo poi al secondo movimento Janàček scriveva all’amica la notte dell’8 febbraio: «Oggi ho messo in musica la mia più dolce nostalgia. Lotto con lei. Ma lei vince. Tu metti al mondo un figlio. Che destino avrebbe questo figlio? E quale tu stessa? La musica suona così come tu sei, sorridente e in lacrime». Questo Adagio ha toni gravi e maestosi, quasi solenni, di tenera delicatezza, inframezzati da enigmatici “”flautati”” e da brucianti pulsioni fisiche.
Janàček chiamò “”Terza lettera d’amore”” il terzo movimento, annunciando a Kamila di avervi voluto trasfigurare la sua immagine: vi si ritrova un tema stranamente schubertiano, che continuamente si ripete, dilatato e ristretto dall’aumentazione e dalla diminuzione ritmica. Il 18 febbraio Janàček lo battezzava quasi con orgoglio: «Oggi mi è venuto, come se la terra tremasse. Sarà il migliore. Mi riuscisse così bene anche l’ultimo. Esprimerà il timore per te». E invece: «in quest’ultimo non risuona il timore per la bella donnola [vezzeggiativo di un gioco di parole intraducibile], ma una grande nostalgia e nello stesso tempo il suo appagamento». Di fatto, quest’ultimo movimento sembra prima lanciarsi in una danza sfrenata dei sensi, poi pacificarsi in un lungo, estenuante addio, per sobbalzare da ultimo in un estremo, doloroso sussulto.
Ogniqualvolta ci si trovi di fronte alle fantasie più intime di un artista, si prova un certo imbarazzo a commentarle e a interpretarle in rapporto all’opera che le racchiude. Non pare dubbio che l’amore per la Stösslovà, un amore chiaramente senile, vissuto con esaltazione e angoscia, probabilmente neppure del tutto compreso e corrisposto, abbia ridato vigore, fisicamente e spiritualmente, alla creatività di Janàček, permettendogli di rispecchiare in chiave personale quelle passioni e quelle situazioni al limite del reale che il suo teatro, centrato su figure femminili, aveva tante volte affrontato. Ma per quanto “”Lettere intime”” possa essere considerato un “”diagramma psichico”” delle fantasie erotiche di un vecchio innamorato in ogni senso della gioventù, ciò di cui essenzialmente esso tratta è la metafisica dello struggimento e della passione, la lacerazione dell’ebbrezza amorosa in quanto tale, perfino oltre ogni immaginazione e coinvolgimento personale. Il sismografo servirebbe semmai a definire meglio i contrasti umorali del Quartetto per risalire da lì all’indole dell’autore: lo sdoppiamento tra una ragionevole chiarezza e un istinto cieco e oscuro, l’oscillazione tra furia depressiva e virile rinuncia, la fantasmagorica esaltazione dell’espressione, in ogni suo aspetto, l’estremizzazione dei confini, l’impossibilità di trovare un equilibrio stabile e non critico. Ed è di questo insieme di reazioni ciclotimiche che il Secondo Quartetto è l’esplicitazione massima sul piano compositivo. Nel suo parossismo isterico, esso raggiunge una temperatura incandescente, ma allo stesso tempo si depura e si sublima, elevandosi a un grado di astrattezza, di verità e di idealizzazione così straordinarie da non aver quasi l’uguale nella produzione di Janàček. Così da farcelo considerare sì uno splendido studio della nevrosi e della follia, ma anche un modello di come perfino gli eccessi più incontrollati e incontrollabili possano trovare espressione compiuta e significante nelle rigorose misure dell’arte.
Panocha Quartet
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione di musica da camera 1998-99