Janàček, quasi una presentazione
Leós Janàček nacque il 3 luglio 1854 a Hukvaldy, presso Pribor (la città natale di Siegmund Freud, 1859), nel nord-est della Moravia, che allora faceva ancora parte dell’impero austro-ungarico. Era il decimo figlio di una famiglia povera ma rispettata (il padre era maestro di scuola e violinista dilettante), che arrivò a contare ben quattordici nati. A undici anni fu mandato a studiare a Brno (Brunn), capoluogo della provincia, presso il monastero degli Agostiniani, dove venne ammesso nel coro della chiesa: cosa che gli permise di essere ospitato e istruito gratuitamente e di frequentare parallela-mente l’Istituto tecnico tedesco””.
Dopo un breve perfezionamento in organo e pianoforte a Praga nel 1874, il giovane Janàček intraprese la carriera dell’insegnante di musica, che per quasi tutta la vita rimase affiancata a quella di compositore. Allo scopo di completare la sua formazione, nel ’79 si recò a Lipsia e poi a Vienna, dove studiò composizione e direzione d’orchestra e approfondì i suoi interessi per la teoria e l’estetica. Questi soggiorni di studio si rivelarono però deludenti: il giovanotto che parlava tedesco con marcato accento cèco, insofferente, impaziente e cocciuto, non piacque agli ambienti accademici austro-tedeschi, né questi garbarono a lui. Fece quindi ritorno a Brno, dove nel 1880 venne nominato professore di musica all’istituto magistrale, si sposò nel 1881 e continuò nella quiete della sua cittadina gli studi e la composizione, intensificando le ricerche sui canti popolari e il linguaggio parlato della sua terra. intanto fondò una scuola per organisti e compositori, a cui rimase legato fino al 1919, quando l’istituto divenne un Conservatorio.
Nel periodo che va fino alla Prima guerra mondiale Janàček compose diversi lavori di vario genere, soprattutto cori e opere teatrali, senza tuttavia superare i confini della Moravia. Solo nel 1916, quando dopo un lungo rifiuto la sua opera Jenufa (1904) venne finalmente rappresentata al Teatro Nazionale di Praga, e di lì spiccò il volo nei più importanti teatri europei e del mondo, il suo nome balzò non soltanto agli onori della cronaca ma anche, di colpo, nella storia. L’improvvisa notorietà e gli eventi che portarono alla liberazione della Cecoslovacchia e alla nascita della repubblica indipendente di Tomàs Masaryk, a cui Janàcek offrì il proprio contributo con adesione convinta alle lotte sociali e nazionali del suo Paese e da cui nel ’19 fu ricompensato con la nomina a professore presso il Conservatorio di Praga, dettero al compositore una spinta creativa eccezionale: tuttavia i lavori composti da questo momento in avanti sono frutto della maturità e abbracciano non soltanto il teatro, che pure rimane il fulcro del suo catalogo, ma anche quasi tutti gli altri generi musicali. In questa tarda fioritura artistica si inserisce l’amore per una giovane donna, Kamila Stösslovà, che divenne la sua musa ispiratrice e alla quale egli dedicò tutti i suoi ultimi lavori.
Nonostante la fama e gli onori, Janàček continuò a vivere appartato tra Praga, Brno e Hukvaldy, dove lo richiamavano il suo amore per la natura e i ricordi dell’infanzia. E dal suo piccolo mondo continuò a immaginare i destini e le tragedie del mondo di quaggiù; di cui seppe toccare temi fondamentali, universali ed eterni, con senti-mento profondo e un disperato bisogno di comunicare. Morì il 12 agosto 1928 in una clinica di Ostrava, dove era stato ricoverato per un attacco di bronco-polmonite, per essere poi sepolto nel cimitero di Brno, vicino alla chiesa nella quale era entrato bambino ed era uscito già artista.
Per i Paesi slavi di lingua cèca Janàček rappresenta, più ancora di Smetana e Dvořàk, il più importante operista nazionale. La sua produzione teatrale, che conta in tutto nove opere, si è da tempo saldamente attestata, nei repertori dei teatri soprattutto austro-tedeschi – certo tradizionalmente più affini – ma anche inglesi e perfino in America, accanto a quella dei massimi operisti non solo del Novecento, come fatto normale. Invece in Italia, come del resto anche in Francia, Janàcek ha stentato a lungo a trovare una collocazione stabile, le esecuzioni delle sue opere restando riservate soprattutto alle occasioni speciali o ai festival, quasi come eccezioni al repertorio. Sicché non si può dire che questa produzione sia a tutt’oggi da noi molto popolare, né che Janàček sia ancora diffuso in misura proporzionale alla sua effettiva grandezza.
Il recupero di Janàček alla nostra coscienza musicale non è una questione secondaria. Il realismo contadino e il fondo “”provinciale”” della sua ideologia rivoluzionaria, per noi quasi indecifrabilmente riflessi nel pozzo culturale della sua musica e uniti in sovrappiù all’ostacolo pressoché insormontabile della lingua – una lingua quanto mai ostica e refrattaria alle nostre orecchie, a cui il compositore rimase ostinatamente fedele per tutta la vita – possono spiegare in parte questa situazione. Lo stile melodico di Janàček, ogniqualvolta sia collegato a un testo, e spesso anche quando ne prescinda, vale a dire tanto nelle opere teatrali quanto in quelle strumentali, è direttamente, quasi idiomaticamente determinato dalle inflessioni della lingua parlata cèca. Ciò che contraddistingue la sua intensa e appassionata dedizione nella ricerca e nello studio della musica popolare, prima morava, poi slovacca e cèca, è proprio la scoperta del nesso strettissimo esistente tra parola da un lato, ritmo, melodia e armonia dall’altro: al punto che la cifra creativa di Janàček sembra identificarsi con la sempre più profonda e completa assimilazione di ciò nella melodia parlata del popolo. Nasce da questa traccia uno dei tratti più peculiari del suo fraseggio musicale: quel procedere ciclico per brevi incisi scolpiti e aguzzi, iterati e continuamente variati fino alla massima evidenza espressiva e drammatica che, mostrandosi estraneo sia all’idea tradizionale di tema sia alla forma classica dello sviluppo, elude e frantuma gli schemi precostituiti.
Si potrebbe credere che il caso di Janàček sia anzitutto un capitolo a sé nella vicenda delle culture nazionali, ma non è così. Quanto più il suo stile si personalizza e si chiarifica nel contatto con il patrimonio culturale della sua terra, tanto più la sua opera estende il suo respiro, allarga i suoi orizzonti, universalizza i suoi contenuti, reinventa le sue forme. Ed emerge di slancio il profilo del musicista disomogeneo perché moderno, febbrile nella sua ricerca espressiva e segnato da una profonda, bruciante inquietudine di tipo novecentesco. Se dalla sua provincia senza storia Janàček creò una tradizione, questa tradizione la gettò di colpo, senza perdere la propria origine, nel vivo della musica europea del suo tempo: divenendo “”internazionale”” nell’essere fino in fondo “”moravo””. E scoprì se stesso, fino in fondo, assimilando compositivamente il linguaggio della natura eternamente giovane, che ha un’anima oltre che suoni, e dando voce critica agli umili, agli oppressi, alle vittime senza passato né futuro, né forse speranza; esseri che vivono, amano, lottano e muoiono senza però perdere la coscienza della pietà e della dignità umana.
Tutto ciò salta agli occhi nel modo più chiaro dal teatro, sia nelle opere a sfondo tragico, come Jenufa, Kàt’a Kabanovà, Il caso Makropulos, Da una casa di morti, sia in quelle dominate invece da una vena burlesca o satirica, impertinentemente grottesca come nei Viaggi del Signor Broucek o fiabescamente partecipe di un senso panico, stupefatto della natura come nella Volpe astuta; ma si riflette anche nelle composizioni strumentali, da camera e sinfoniche. Anche in queste, percorse da sotterranei riferimenti autobiografici, Janàček non smette di raccontarsi, ricordare, sognare, soffrire e scherzare, in un impasto di motivi e di suoni particolarissimo, inconfondibilmente suo proprio. È un mondo musicale, quello che ci si spalanca davanti, analizzato e ricomposto, terribile e delicato, complicato ed elementare nel suo linguaggio abnorme, sempre in movimento, sempre sgusciante.
Questo ciclo cameristico fatto di accostamenti tra momenti cronologicamente diversi della sua produzione e confronti con musicisti storicamente – Smetana e Dvořàk – o idealmente Schubert – a lui congiunti, consente di gettare lo sguardo su questo mondo e di ricostruire pezzo dopo pezzo, per stadi progressivi, per fulminei flashback, l’immagine di un creatore senza compromessi: tanto vulnerabile nella sua sensibilità quanto inflessibile nella sua moralità.
Leós Janàček
Capriccio
per pianoforte e strumenti a fiato
Allegro
Adagio
Allegretto
Andante
Capriccio per pianoforte (mano sinistra) e strumenti a fiato
Collocato tra i due più importanti lavori sinfonici e corali di grandi dimensioni della maturità, la Sinfonietta da un lato, la Messa glagolitica dall’altro, il Capriccio per pianoforte (mano sinistra) e insieme di fiati è una pagina d’occasione, scritta tra il giugno e l’ottobre del 1926 su richiesta del pianista Otakar Hollmann, che era rimasto paralizzato alla mano destra da una ferita ricevuta durante la Prima guerra mondiale. Janàček, che in un primo momento aveva rifiutato, si decise ad accettare l’invito dopo una corrispondenza con Hollmann, che gli descriveva lo stato penoso della sua situazione: non per nulla il titolo originariamente previsto era Vzdor (Dispetto), quasi a voler manifestare l’indignazione per l’ingiustizia di uno dei tanti casi di guerra che aveva colpito un artista.
Il titolo definitivo Capriccio non deve far pensare a un pezzo bizzarro e stravagante, per quanto la scelta dell’organico che fa corona al pianoforte – ottavino, flauto, due trombe, tre tromboni e tuba tenore – non sia dei più consueti. Si tratta invece di un pezzo meditato e rifinito, anche se non privo di ascendenti. Vi si riscontra da un lato la parentela con le squillanti sonorità bandistiche della Sinfonietta, dall’altro una certa affinità per contrasto con le atmosfere sbrigliate e capricciose del Concertino, di cui può costituire un corrispettivo ribaltato però sul versante grave. Anche qui il pianoforte – che nella scrittura per la sola mano sinistra presenta ardue difficoltà all’esecutore — funge da tessuto connettivo delle diverse idee tematiche e perfino da equilibratore dei diversi pesi timbrici, ergendosi a tratti a protagonista quasi solitario, con un carattere eroico, di sfida.
Dal punto di vista del genere, siamo di fronte a un vero e proprio Concerto, concentrato nelle dimensioni ma di grande impegno formale. I quattro movimenti, articolati secondo lo schema classico, sembrano privilegiare l’invenzione di sempre nuove combinazioni all’interno dell’organico prescelto, subordinandovi la stessa caratterizzazione individuale dei temi. Passi ostinati, nei quali il ritmo ha un rilievo marcato, si alternano a eloquenti perorazioni e cadenze, armonicamente sospese; confermando, ma in modo meno drastico, quella tendenza a rapidi sbalzi di umore che è una delle caratteristiche più ossessive della musica di Janàček. Ciò si ripercuote anche sul clima generale dell’opera, ora triste e velato, ora aperto e luminoso, ora pesante, ora lieve (a ciò contribuiscono naturalmente le peculiarità degli strumenti solisticamente impiegati e degli insiemi); un clima che finisce per evocare, quasi suo malgrado, non soltanto minacciose fanfare di guerra ma anche festose atmosfere paesane, dove le bande suonino per danze e feste popolari, allegramente, non dispensando morte e ferite, ma spensieratezza e speranza.
Andràs Schiff, Ensemble Janàček
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione di musica da camera 1998-99