La Sonata in si bemolle maggiore è la più ampia e sviluppata delle tre che chiudono l’opera pianistica di Schubert, quasi che in essa si saldasse la progressiva espansione delle precedenti in un unico, grande arco formale e sonoro. Proprio l’amplificazione sinfonica della scrittura, unita a una sospensione del tempo in una dimensione onirica, ne è il tratto più caratteristico: sia nella costante propensione a una certa solennità di accenti, di natura lirica più che drammatica, sia nell’estensione dell’indagine timbrica ed espressiva ai registri estremi della tastiera, acuti e gravi. Il legame con le Sonate precedenti si palesa in modo evidente anche sotto il profilo tematico: la citazione che appare nel terzo episodio tematico dell’Allegro ma non troppo proviene quasi alla lettera dal vorticoso Finale della Sonata in do minore, acquistando nella sua nuova veste significati ancor più simbolici di un fatalistico congedo.
La maestosità architettonica del primo movimento, che da solo occupa quasi la metà della Sonata, è paragonabile soltanto con l’ampio respiro del Quintetto della grande Sinfonia in do maggiore. Un tema cantabile in tempo Molto moderato viene interrotto da un sinistro trillo nella regione più grave della tastiera (sul sol bemolle, che crea una sfasatura tonale) e seguito da una sospensione sulla dominante che aumenta il senso di mistero e di attesa: come se il canto stentasse a riconoscere la sua identità e cercasse angosciosamente la forza necessaria per proseguire il suo corso. Quando finalmente il tema si afferma nella pienezza della sonorità iniziale, subito Schubert lo abbandona per introdurre un secondo tema dai caratteri ritmici e melodici simili, con funzioni simmetricamente esplicative: esso è in fa diesis minore, che enarmonicamente vale sol bemolle. Il canto è ora come risucchiato da un’instabilità modulante che si estende progressivamente allo sviluppo, basato sulla continua fusione ed elaborazione delle due melodie, in un processo di dissoluzione che dapprima le frammenta in cellule e poi le porta a estinguersi. La ripresa scaturisce ancora una volta dalle profondità angosciose del trillo e in esse si annulla, come se tutto, una volta finito, dovesse ricominciare da capo in un ciclico viaggio all’infinito, scandito dall’isolato, periodico segnale del trillo.
L’atmosfera dell’Andante sostenuto, in forma di Lied tripartito, è quella di un’immota, desolata rassegnazione ad agire: quasi una stagnazione della volontà nella rinuncia. Si contemplano qui i tetri paesaggi della Winterreise, ormai dissolti anch’essi in un’ombra neppur più sconsolata, ma di distacco oggettivo. Solo nell’episodio centrale la modulazione da do diesis minore a la maggiore sembra apportare un barlume di luce e di reazione. Per contrasto, lo Scherzo intende esorcizzare questa profonda notte dell’anima con una leggerezza irreale, ancorata al ritmo ternario del Valzer e del Ländler come al ricordo di un mondo perduto e alla tonalità di si bemolle, enigmaticamente oscillante tra maggiore e minore. Infine il Finale, un Rondò basato su tre temi (di marcia saltellante il primo, teneramente lirico il secondo, concitatamente drammatico il terzo) e segnato da profonde assonanze con il primo movimento: fin dal gesto iniziale, un semplice sol in ottava sforzato che tornerà poi più volte a infrangerne l’incedere con arresti inattesi. Forse si riferiva proprio a questo movimento, e al suo continuo ricominciare da capo, Robert Schumann quando scriveva dell’estrema
composizione di Schubert: «Come se ciò potesse non avere mai fine, mai preoccupato di ciò che verrà dopo, egli continua a correre, pagina dopo pagina, in modo sempre musicale e ricco di cantabilità, interrotto solo qua e là da isolate, violente convulsioni seguite da un rapido ritorno alla calma». Una corsa che nel suo arco temporale e spaziale, chiuso e infinito insieme, ha qualcosa di liberatorio e di tragico, di individuale e di universale.
Mitsuko Uchida
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1996-97