Composto in un periodo di tempo incredibilmente breve – dal 20 al 30 giugno 1826 – il Quartetto in sol maggiore, l’ultimo dei Quindici Quartetti per archi di Schubert, è non solo il più lungo in assoluto (il calcolo delle battute arriva complessivamente a ben 1577) ma anche il più straordinario e profetico: l’unico in grado di stare accanto al monumento per eccellenza dell’arte quartettistica, l’op. 131 di Beethoven, che non a caso Schubert considerava il vertice della musica del suo tempo. Eppure neanche questo sfuggì al destino comune a tutti i grandi capolavori del tardo stile schubertiano. Vivente l’autore ne fu eseguito in pubblico soltanto il primo movimento, il 26 marzo 1828 al Musikverein di Vienna dal Quartetto Schuppanzigh, in occasione dell’unico concerto interamente dedicato a sue musiche a cui a Schubert fu concesso di assistere in tutta la sua vita. Rifiutato, nonostante la buona accoglienza e dopo trattative sfortunate, dall’editore Schott, venne pubblicato postumo soltanto nel novembre 1851 dalla casa Diabelli di Vienna, un anno dopo la prima esecuzione integrale avvenuta l’8 dicembre 1850 sempre al Musikverein di Vienna ad opera del Quartetto Hellmesberger. Occorre aggiungere che anche in seguito, e fino ai giorni nostri, il Quartetto in sol maggiore non ha avuto nella diffusione concertistica quel posto di rilievo che gli compete di diritto nella storia del genere, e che invece si è conquistato per esempio il Quartetto in re minore “”La Morte e la Fanciulla””. In effetti, a volerne giustificare i motivi al di là del dato esteriore della insolita lunghezza e di quello più intrinseco di una obbiettiva complessità, esso non presenta con la consueta dovizia quei tratti che siamo abituati a considerare tipici di Schubert, in primo luogo il dono appagante della melodia e l’immediata percezione di un tono malinconico, ora drammaticamente introverso ora trasfigurato liricamente, ma comunque attraente: com’è proprio di un’opera che si scuota di dosso i sogni del passato e si volga risolutamente a prefigurare un nuovo inizio, il Quartetto in sol maggiore sembra voler prendere di petto il problema della grande forma e procedere al suo interno con una ferma indagine – si vorrebbe dire quasi sovrapersonale – della natura e dei processi del linguaggio compositivo.
Già l’esordio costituisce a questo proposito un gesto emblematico di concentrazione massima: l’improvviso, scabro passaggio dall’accordo di sol maggiore, che cresce su se stesso dal “”piano”” al “”forte””, all’accordo di sol minore in “”fortissimo”” e quasi gridato a piena voce, segna uno squarcio che va molto oltre la vecchia sospensione, tanto cara a Schubert e per suo tramite a noi così familiare nel suo significato espressivo, di una stessa melodia fra modo maggiore e modo minore. Non si tratta più qui di un alternarsi di stati d’animo diversi ma complementari, bensì di una drastica contrapposizione di entità astratte e paritetiche, dove la melodia è virtualmente assente, quasi contratta nell’epifania armonica dell’accordo nudo e crudo, prima in maggiore, poi in minore: come se Schubert puntasse ora direttamente, senza perifrasi sentimentali, al cuore del problema, la riduzione all’essenza del sistema armonico-tonale e le prospettive del suo sviluppo secondo principi rifondati. Invano aspetteremmo, dopo questa introduzione altamente simbolica, una cantabilità distesa nelle sezioni tematiche, come Schubert ci aveva abituati in precedenza: il primo tema si basa su un inciso ritmico puntato del primo violino sul tremolo degli altri archi, che poi circolerà nei diversi strumenti con divisionistici ricami di contrappunti; il secondo, più compatto, è caratterizzato dalla sincope, che provoca continui spostamenti di accenti tra tempi deboli e tempi forti, trasponendo sul piano ritmico e metrico la contrapposizione immediata di modi degli accordi iniziali. La storia del primo movimento vive tutta sulla elaborazione di questi principi di equivalenza degli opposti. Ciascuno di essi, preso isolatamente, sviluppa un proprio percorso lineare e rettilineo fatto di digressioni e varianti che ne sfruttano le intrinseche implicazioni: tonalmente, la rete di relazioni che parte dalla dicotomia maggiore-minore si orienta verso le dominanti relative, con connessioni ignote alla tradizionale simmetria classica; ritmicamente, l’elemento dinamico del ritmo puntato ha il suo contrappeso statico nella terzina. Ma quando questo percorso parziale si è esaurito con una forza di riduzione in cui ogni singolo elemento per così dire si elabora da se stesso tendendo alla chiusura, ecco che nella Ripresa la prospettiva si capovolge e ciò che nell’Esposizione era semplicemente “”dato”” diviene realizzato: la compresenza di tutti i ritmi finora apparsi, ora sovrapposti insieme, e la riapparizione della scabra opposizione maggiore-minore dell’accordo iniziale proprio alla fine, indicano che la linearità è in realtà anche circolarità e che inizio e fine, specchiandosi, sono due facce della stessa misteriosa identità.
Quanto individuato nel colossale primo movimento si riverbera nei successivi senza tener conto delle consuete distribuzioni formali. L’Andante un poco mosso in mi minore si apre con una cadenza scentrata, sbilanciata sulla dominante, da cui si diparte un’ampia frase cantabile del violoncello, contrappuntata da un ostinato della viola e da frammentari incisi dei due violini. Anche qui convivono principi opposti, lineari e circolari, dinamici e statici, tenuti insieme da un uso della polifonia che assegna a ogni voce funzioni diverse, come se ognuna seguisse un proprio corso di pensieri, ma nello stesso tempo le attira in un campo magnetico di relazioni sotterranee. La variazione è già insita in questa disposizione polifonica a raggi concentrici: per così dire essa è consostanziale al tema. E difatti il movimento lento non si articola secondo lo schema del tema con variazioni, come accadeva ancora nei Quartetti “”Rosamunde”” e “”La Morte e la Fanciulla””, bensì sulla contrapposizione di due sezioni con caratteri distinti, la seconda delle quali oppone alla sospesa polifonia concentrica della prima un andamento omofonico di forte tensione drammatica, incalzante e quasi stridente nella sua irrequietezza cromatica. Le due sezioni, A e B, sono variate al loro interno fino a svelare nell’elaborazione analitica i varchi che le collegano: esse sono ripetute una volta ciascuna nello stesso ordine, ma in modo che i caratteri contrastanti, e le situazioni espressive di cui sono veicolo, si accorpino riavvicinandosi nel tempo e nello spazio fino da ultimo a coesistere.
Lo Scherzo, in si minore, presenta un modello compositivo ancora diverso. Le sedici misure del tema sono costituite dalla ripetizione di due unità ritmiche, ciascuna di una battuta: sei crome ribattute la prima, tre semiminime arpeggiate alternativamente in senso discendente e ascendente la seconda. Qui il contrasto è reso ancora più essenziale ed è dato semplicemente da uno slancio che si interrompe per poi riprendere la corsa; ma la ricchezza di combinazioni e di associazioni che ne deriva ha dell’incredibile: forse mai come in questo pezzo Schubert si avvicina al modello di sviluppo formale beethoveniano, consistente nel ricavare da un unico elemento fondamentale, in cui il contrasto è latente, tutte le conseguenze possibili. Il Trio, in sol maggiore, rallenta il tempo quasi a voler riprendere fiato e introduce l’unica nota vagamente diversiva del Quartetto: una melodia finalmente ampia e distesa parte dal violoncello per raggiungere il primo violino, sostenuta da un accompagnamento ondeggiante e sonoramente festoso, da danza popolare. È curioso osservare come questo improvviso squarcio sentimentale e nostalgico di uno Schubert più antico faccia qui l’impressione, nel contesto del Quartetto, di un tristissimo congedo dal mondo.
Con le sue 707 misure in 6/8 (Allegro assai in sol maggiore) l’ultimo tempo riprende lo schema della danza macabra che chiudeva il Quartetto in re minore: lo stesso ritmo di tarantella, la stessa febbre, la stessa apocalittica cavalcata. Questa della danza macabra è un’ossessione costante dei tardi Finali di Schubert, ma qui appare anche come la logica conseguenza dei tempi precedenti, integrati in ordine inverso: dallo Scherzo deriva il salto discendente e il gioco sulle note ribattute del primo tema, poi rovesciato nel mormorio prolungato della seconda sezione in re maggiore; dall’Andante trae origine l’episodio centrale in si minore, con un effetto di dilatazione ritmica per aumentazione che rallenta la corsa precipitosa; dal primo movimento proviene il cambiamento maggiore-minore che si estende fino alle unità minime del tessuto strumentale. La fine del movimento con la sua progressione d’intensità dal ppp al fff ha qualcosa di allucinato, di definitivo: un’esplosione materica che azzera ogni forma di costruzione, lasciando dietro di sé i frammenti di elementi simbolici ridotti all’essenza di cellule ritmiche ripetute e annullate nell’indistinto, come la scia di una cometa lanciata verso l’ignoto.
Quartetto Alban Berg
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1996-97