La versione delle Metamorfosi di Richard Strauss che ascolteremo stasera non è quella consueta per 23 archi (dieci violini, cinque viole, cinque violoncelli, tre contrabbassi) della partitura stampata da Boosey & Hawkes a Londra nel 1946 (stesso anno della prima esecuzione, avvenuta a Zurigo il 25 gennaio sotto la direzione di Paul Sacher, suo committente e dedicatario), bensì quella di una prima stesura, rinvenuta in Svizzera nel 1990 e acquistata dalla Biblioteca di Stato Bavarese di Monaco, per un organico di soli sette archi: due violini, due viole, due violoncelli e contrabbasso. Ciò permette, al di là dell’interesse musicale della proposta, di gettare nuova luce sulla genesi di quest’opera densa di inquieti interrogativi e di significati dolorosi.
Strauss compose le Metamorfosi a Garmisch fra il 13 marzo e il 12 aprile 1945, dietro richiesta di Paul Sacher e del suo Collegium Musicum zurighese, quando era ancora forte in lui lo sgomento per il bombardamento, avvenuto nel febbraio di quell’anno, di Dresda, sua città d’elezione. L’idea del pezzo risaliva però a qualche tempo prima, precisamente alla fine del 1943: Monaco, l’altra città tedesca a cui Strauss era strettamente legato da tutta una vita, era stata distrutta il 2 ottobre 1943 e sulla spinta di questa emozione il compositore aveva abbozzato allora un tema con l’appunto «Trauer um München», ossia “”lutto per Monaco””. Questo spunto iniziale si sarebbe trasformato in uno dei temi principali delle Metamorfosi, evidenziando, con una citazione a poche battute dalla fine accompagnata dalla nota «In memoriam!», affidata ai violoncelli nella tonalità di do minore, la sua coincidenza con il tema della Marcia funebre dell’Eroica di Beethoven: coincidenza che Strauss riconobbe solo in un secondo momento ma che giudicò altamente simbolica. Nella sua visione tragica filtrano i riflessi della catastrofe della guerra e del destino tedesco votato all’annientamento. Ma, come aggiunge Quirino Principe, essa «non è tanto una tragedia “”nella”” musica quanto una tragedia “”della”” musica, e il lugubre messaggio dell’ottantunenne Strauss non ha altri referenti se non la tradizione musicale tedesca».
Tra lo spunto iniziale e la fase realizzativa completa Strauss continuò a lavorare al progetto, che per lui rivestiva dunque speciale, significativa importanza. Agli schizzi fin qui noti si aggiunge ora la scoperta di questa prima versione che, accanto al titolo Metamorphosen e all’indicazione di tempo Andante, impiegava sette archi soltanto. E possibile che l’intenzione del compositore fosse di attenersi a questo organico cameristico, del tutto consono al carattere intimo e riservato del pezzo, e che solo dietro pressione di Sacher, che desiderava una formazione più grande di archi, si risolvesse ad ampliare l’organico, mantenendo tuttavia i rapporti e gli equilibri della distribuzione originale. L’indicazione Andante fu sostituita da una articolazione più complessa, comprendente una vasta sezione centrale in tempo agitato posta fra due lamentosi adagi, il secondo dei quali si spegne in una coda molto lenta, con la citazione beethoveniana. Senza dare origine a una serie di variazioni in senso stretto, i due incisi tematici iniziali, di otto misure ciascuno, generano una fittissima rete di relazioni e di varianti, in una ininterrotta elaborazione che al principio dello sviluppo sostituisce una tecnica di trasformazione continua (le metamorfosi del titolo), particolarmente mutevole sotto l’aspetto armonico.
Eseguita per la prima volta 1’8 giugno 1994 in occasione del Festival Strauss di Garmisch – Partenkirchen proprio dal Wiener Streichsextett e dal contrabbassista Alois Posch, la versione per sestetto d’archi e contrabbasso si basa sul confronto tra la prima stesura e la partitura definitiva,
mantenendo di quella i passi originali (alcuni dei quali si discostano sotto il profilo delle modulazioni) e integrandone l’elaborazione con una realizzazione cameristica di questa. Va sottolineato che non esistono nella partitura passi a ventitré parti reali e sono invece largamente presenti raddoppi e raggruppamenti, a convalidare l’ipotesi che la versione definitiva possa in effetti essere la realizzazione ampliata e più elaborata di una prima stesura per un gruppo ristretto da camera. Ciò non toglie che sia difficile rinunciare alla sontuosa compattezza dell’organico pieno, dove il nutrito dialogo a più voci dei ventitré archi solisti scava nel materiale tematico in fusioni timbricamente sempre mutevoli, ottenendo la massima ricchezza di sfumature dall’intreccio contrappuntistico e frantumandosi nell’ossessione di una fine incombente, nella realtà già compiuta. Nella grave meditazione di questo requiem senza illusioni, reso ancor più straziante da un severo distacco, tra le tante metamorfosi del titolo è già contenuta anche quella di una ricerca della verità sfuggente alle soglie dell’oscurità.
Wiener Streichsextett, Brita Bürgschwendtner
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1996-97