Pëtr Il’ič Čaikovskij – Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 35

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Il Concerto per violino e orchestra op. 35 nacque alla fine di uno dei periodi più fecondi della creatività di Čajkovskij, quello che aveva visto il compositore non ancora quarantenne concludere, nell’arco di un triennio, il Concerto per pianoforte in si bemolle minore, il balletto Il lago dei cigni, la Quarta Sinfonia e l’opera Evgenij Onegin. La prima stesura avvenne a Clarens sul lago di Ginevra nel marzo 1878, a stretto contatto con il giovane violinista Josif I. Kotek, amico e allievo di Čajkovskij, che oltre a fornire qualche consiglio di ordine tecnico (a parte un paio di trascrizioni e un brano d’occasione, l’esperienza di Čajkovskij col violino era limitata alla composizione del Valse-Scherzo op. 34) ne fu il primo interprete in una esecuzione privata col compositore al pianoforte. Non soddisfatto del movimento centrale Čajkovskij decise di sostituirlo con un nuovo pezzo: la Canzonetta fu composta tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, insieme con gli ultim ritocchi alla strumentazione.

L’idea era di dedicare il Concerto al violinista Leopold Auer affinché lo tenesse a battesimo a Pietroburgo; costui non si mostrò però affatto convinto del lavoro e tergiversò, chiedendo qualche revisione. Nelle more si fece avanti un giovane violinista già devoto a Čajkovskij, Adolf Brodskij, il quale si assunse l’impegno di studiarlo e di eseguirlo per la prima volta in pubblico: la scelta cadde alla fine su Vienna, dove il Concerto fu presentato il 4 dicembre 1881 con la Filarmonica diretta da Hans Richter. Non fu una decisione saggia. Se il pubblico viennese, che appena due anni prima aveva accolto con entusiasmo il Concerto per violino di Brahms, reagì freddamente, la critica si mostrò unanimemente ostile, a rimorchio di una stroncatura al vetriolo del brahmsiano Eduard Hanslick, che parlò apertamente di brutale rozzezza e antimusicalità, sentendo nel Finale addirittura «il puzzo di acquavite scadente di un’orgia russa». Questa accoglienza non poteva sorprendere più di tanto, data la disinvoltura mostrata dal compositore nei confronti della tradizione classica: nonostante l’impianto nella tonalità di re maggiore, comune non solo al capolavoro di Brahms ma anche al capostipite di tutti i Concerti moderni, quello di Beethoven, Čajkovskij si era allontanato dai canonici schemi formali, innervando una accesa fantasia melodica (quella stessa che tanto piacerà a Stravinsky, estranea ai tedeschi) di un marcato accento slavo. Non per caso le cose andarono assai meglio quando il Concerto approdò finalmente in Russia, nell’agosto 1882 a Mosca, auspice ancora Brodskij che così si conquistò meritatamente sul campo anche il diritto a sostituire nella dedica il sempre riluttante Auer: per strana ironia della sorte, divenuto in seguito uno degli interpreti più famosi e congeniali del Concerto op. 35.

Tutto ciò appare assai lontano alle nostre orecchie, se rapportato alla universale celebrità, seconda forse soltanto al Primo Concerto per pianoforte, di cui gode il Concerto per violino di Čajkovskij. Dire che non esiste violinista di qualunque specie e rango che non abbia in repertorio questo monumento della letteratura concertistica significa constatare l’ovvio: e non c’è pubblico al mondo che non ne riconosca di colpo commosso le melodie. Ciò non toglie che, accanto a tratti tipici dello stile languido e magniloquente che siamo soliti abbinare a Čajkovskij (anche a torto minimizzandolo), il Concerto presenti una struttura insolitamente libera e tuttavia sicura di sé, forse più profondamente sperimentale di quanto non appaia. Per accorgersene basta riflettere, subito dopo essere stati immediatamente conquistati dall’inizio (omaggio assai più serio di quanto non si creda al gigante Beethoven), sulla strada intrapresa nel primo movimento Allegro moderato dalle evoluzioni del violino, che entrando con una breve cadenza propone un tema dall’intrepida, entusiasmante freschezza; per poi esporre con naturalezza un nuovo soggetto breve, ardente, quasi operistico, ritmicamente concitato, adattissimo a fornire la base per l’elaborazione.

Avviata dall’orchestra, essa ha un andamento volutamente tortuoso e quasi rapsodico, di fatto senza sviluppo; sicché la ripresa dei temi principali suona come un ritorno all’origine, insieme lieto e nostalgico. Come bene ha scritto Giorgio Pestelli, «il fatto è che Čajkovskij ha portato il salotto, il

femmineo fantasticare dell’Onegin nell’augusta cornice del Concerto, lasciando ai capricciosi disegni ritmici, alle incalzanti terzine, alle virtuosistiche scale, il compito di sostituire lo sviluppo sonatistico e il chiaroscuro di una base contrastante».

La mediana Canzonetta ha un inizio assorto, del più puro e concentrato intimismo, nel quale il solista si inserisce con un tema “”molto espressivo””, di inflessione quasi belliniana, un po’ malinconico, un po’ lucente, soprattutto quando più avanti viene recuperato dal flauto: e basta una nota ribattuta del corno per evocare un rintocco di campane in lontananza. Il secondo tema è invece drammatico ed energico, un fermo lamento sull’accompagnamento sincopato degli archi: divagare sembra il suo destino. Alla ricapitolazione della prima parte segue simmetricamente la conclusione con elementi ripresi dall’introduzione. Senza interruzione attacca subito il Finale, Allegro vivacissimo. Esso segue la forma circolare del rondò, alternando all’affermazione della prima idea due temi di aggressivo stampo popolare: il primo su robuste quinte dei violoncelli e straripante circolazione fra tutti gli strumenti, il secondo affidato all’acre malinconia dell’oboe. Ma è il solista ora a prendere in mano il gioco da incontrastato protagonista: suo è l’esordio con una cadenza di straordinario virtuosismo, suo lo slancio della danza vitale e travolgente, sua l’appassionata risposta alle girandole più infuocate dell’orchestra. Niente gli viene negato affinché si riconosca: dalle profonde cavate sulla quarta corda alle funamboliche ascese sulle vette dell’ebbrezza non si compie solo un tragitto, si materializza un’anima.


Yuri Temirkanov / Vladimir Spivakov, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1996-97

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