Georg Friedrich Händel – Messiah, oratorio in tre partiper soli, coro e orchestra

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Il Messiah di Handel

Allorché Hndel compose il Messiah, la sua popolarità aveva già raggiunto il vertice di una fama quasi senza confronti. Eppure Händel veniva da un ennesimo momento difficile, dopo la grave paralisi che lo aveva colpito nel 1737 costringendolo a un lungo periodo di riposo forzato. Artisticamente, una svolta altrettanto difficile si era avuta dopo la chiusura della Royal Academy

of Music – il centro della vita teatrale londinese – che lo aveva costretto a tralasciare la strada per lui fortunatissima del melodramma e a rivolgersi verso quella meno spedita dell’oratorio. In questo campo, musicalmente assai più prossimo all’altro di quanto non si creda, Händel inquadrò il nuovo corso rappresentato dall’oratorio in lingua inglese, fondendo le diverse tradizioni in magistrale unità d’intenti: sul piano dei contenuti, tese a spiritualizzare e a elevare l’oratorio oltre le barriere e le divisioni di determinate aree religiose nazionali; su quello delle forme, mirò a ottenere una concentrazione musicale più severa ed equilibrata, con un affinamento dei mezzi espressivi che si riverberò sulla struttura e sulle simmetrie della composizione: articolando un processo costruttivo di luminosa evidenza plastica. Anche nel Messiah – l’opera che segnando il primo ritorno all’attività creativa dopo una lunga malattia suggella da par suo l’epoca più splendida di questo genere – Hndel rinuncia al narratore e a personaggi individuati, ma dispone l’arco architettonico in modo tale che l’impiego delle quattro voci soliste (soprano, contralto, tenore e basso) conferisca alla composizione

un profondo pathos evocativo e una varietà di accenti considerevole in alternanza o in connessione con l’eloquenza vertiginosa dei cori.

Fu nell’agosto 1741 che il librettista Charles Jennens, già collaboratore di Hndel, inviò al compositore un nuovo testo basato sulla figura del Messia e pensato come un proseguimento del fortunato Israel in Egypt (1738), quasi più nel genere tipicamente inglese dello entertainment vocale-strumentale che dell’oratorio vero e proprio. Händel ne fu subito preso, intuendo le virtuosità del testo ben oltre le intenzioni di Jennens, e venne attirato nel fervore di un vero e proprio entusiasmo creativo. Alla nuova composizione, rapidamente ultimata in meno di un mese, dal 22 agosto al 12 settembre 1741, si offrì subito un’occasione esecutiva favorevole; da Dublino gli giunse l’invito del viceré d’Irlanda a essere presente con una serie di lavori nella prossima stagione di concerti del Neal’s Music Hall in Fishamble Street. In novembre Händel partì da Londra portando con sé, come era solito fare, oltre alla partitura del Messiah e di diverse altre composizioni, anche una piccola schiera di esecutori. L’accoglienza dei dublinesi fu subito calorosa, come Händel riferì allo Jennens: «Non posso esprimere adeguatamente la gentilezza con la quale vengo trattato, e del resto la cortesia di questa nazione generosa non può esserti sconosciuta: ti lascio quindi immaginare quale sia la mia soddisfazione nel trascorrere il tempo fra onori, profitto e piacere».

Anche l’organizzazione e la qualità degli esecutori parvero nel complesso eccellenti al compositore, sensibile la risposta del pubblico. Destinando l’opera a istituzioni filantropiche, fu possibile assicurare una buona serie di recite di rodaggio. Dopo una prova effettuata davanti a un foltissimo pubblico 1’8 marzo 1742, il Messiah fu presentato ufficialmente il 13 aprile con un travolgente successo. Il «Faulkner’s Journal» recensì così l’avvenimento: «Martedì è stato eseguito al New Music Hall il Messiah, l’ultimo grande oratorio sacro di Händel. I migliori intenditori sono stati concordi nel giudicarlo il suo più compiuto lavoro musicale. Mancano le parole per esprimere il raffinato piacere che esso ha prodotto nel numerosissimo pubblico. I sentimenti più sublimi, grandi e delicati, adattati alle più elevate, maestose e commoventi parole, hanno concorso a trascinare e ad affascinare il cuore e l’orecchio estasiati…». L’afflusso di pubblico fu per l’epoca imponente (almeno 700 persone) e in previsione di ciò si ritenne opportuno invitare le gentili signore dell’aristocrazia ad astenersi dall’indossare il consueto guardainfante, che avrebbe reso le loro vesti troppo ingombranti. A Dublino il Messiah fu ripetuto ancora il 3 giugno; solo nel marzo 1743 giunse a Londra, dove ebbe però all’inizio fredda accoglienza. E significativo che Händel, forse temendo che gli scrupoli religiosi alimentassero una certa diffidenza verso la tematica del suo lavoro, non osasse presentarlo con il suo titolo e si accontentasse di annunciarlo come «un nuovo oratorio sacro», lasciando poi cadere anche l’aggettivo «nuovo». E difatti l’esecuzione al Covent Garden, con i famosi solisti di quel teatro, parve incompatibile con la sacralità del soggetto, al cui centro si trovava un personaggio, quello di Cristo, mai prima trattato in modo analogo nel genere oratoriale, con una commistione di passi dal Vecchio e dal Nuovo Testamento.

Ma la novità, che si risolse ben presto in popolarità, del Messiah non sta soltanto nell’argomento. Già il testo di Jennens, assai più che una semplice raccolta di passi della Bibbia, è una pregnante rappresentazione delle stazioni dell’annuncio della venuta di Cristo redentore, in una visione unitaria delle verità fondamentali della fede cristiana. Il metodo seguito da Jennens non consiste in una narrazione del tipo delle tradizionali musiche per la Passione o per il Natale ma nella creazione di una cornice meditativa in grado di lasciare spazio sia a episodi drammatici sia anche a magnifici anthems – per uno stile musicale che Händel, come Jennens sapeva molto bene, aveva già sviluppato a massima compiutezza artistica. I cardini del lavoro ruotano attorno all’umanizzazione del personaggio di Cristo nelle sue vicende terrene e all’universalità del suo significato per l’umanità: dall’attesa del Messia nelle profezie del Vecchio Testamento al ritorno trionfante nella gloria celeste dopo avere compiuto la missione di riscatto dall’annientamento della morte. In modo conseguente la composizione si serve di due fondamentali mezzi espressivi: da un lato i recitativi e le arie dei solisti, che conferiscono voce alla meditazione cristiana caratterizzando i diversi affetti con ben differenziata proprietà; dall’altro gli interventi corali, che conferiscono a questa meditazione il tono di una partecipazione incondizionata, vigorosamente intensificata, per toccare il vertice giustamente famoso nell’« Hallelujah» posto a conclusione della seconda parte. Si ha qui, con scatto perentorio e quasi improvviso, un’apoteosi della fede cristiana, dilatata poi a dogma dottrinario nell’immenso «Amen» finale, ma anche una celebrazione della fratellanza umana che fa

quasi    pensare a un antecedente dell’Inno alla gioia beethoveniano.

Nel complesso, la prospettiva dell’opera è riassunta in modo estremamente esatto nelle citazioni poste in epigrafe sul libretto a stampa: un verso di Virgilio, «Maiora canamus», evidente allusione a una verità poetica che sublima la stessa spiritualità biblica, e due passi dalla Prima Lettera a Timoteo (cap. 3) e dalla Lettera ai Colossesi (cap. 2). Essi dicono:

 

            Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà.

            Egli si manifesta nella carne,

            fu giustificato nello Spirito,

            apparve agli angeli,

            fu annunziato ai pagani,

            fu ceduto nel mondo,

            fu assunto nella gloria.

 

            Nel quale [Cristo] son nascosti tutti i tesori della

            sapienza e della conoscenza.

           

All’invito poetico di Virgilio si intreccia così la rivelazione dell’opera del Figlio di Dio, che con le parole del Nuovo Testamento passa a immedesimarsi anche nella musica di Händel.

           

Il Messiah si articola in tre vaste parti che svolgono versetti da Isaia (in larghissima misura), da Aggeo, Malachia e Zaccaria, dal libro dei Salmi, di Giobbe, dalle Lamentazioni, dall’Apocalisse, dalle Epistole di San Paolo (agli Ebrei, ai Romani, ai Corinti: la prima ai Corinti è ampiamente presente nell’ultima parte), e infine dagli evangelisti Matteo, Giovanni e soprattutto Luca. Formalmente l’opera è una successione di pezzi vocali (51 numeri: recitativi, arie e cori, con un duetto alla fine della prima parte e uno alternato al coro nella seconda), cui si aggiungono l’Ouverture e una Pastorale per orchestra (Pifa) situata al centro della prima parte, quasi preparazione della prodigiosa apparizione notturna degli angeli esultanti ai pastori di Betlemme (i temi di questa Sinfonia pastorale sono ispirati al canto dei pifferari abruzzesi, ascoltato e annotato da Händel a Roma molti anni prima durante il Natale. Il trattamento delle voci soliste spazia dalla rotondità del canto espressivo, disteso e sostenuto da ampie campiture melodiche (soprattutto nei tipicissimi andamenti ariosi e larghi), alla più rigogliosa ornamentazione virtuosistica; quello del coro è per lo più in stile fugato, ma riposa su una pienezza armonica di salda compattezza architettonica. Non mancano chiare reminiscenze di tipo madrigalistico o “”visivo”” ispirate da un commento descrittivo-musicale del testo: per citare solo due esempi fra i tanti, la progressione melodica ascendente alle parole «get thee up into the high mountain» (n. 9, aria del contralto) o la squillante aria del basso «The trumpet shall sound» (n. 48) accompagnata appunto dalla fanfara della tromba, in modo «pomposo». Per lo più però la concezione händeliana, senza rinunciare alla concretezza rappresentativa, si volge a una interpretazione del testo di estrosa autonomia, spesso ricavando da esso una idea compositiva caratteristica che viene poi sviluppata musicalmente (ossia con gli elementi più propri del linguaggio musicale) allo scopo di definire l’ambientazione, il paesaggio o un clima sonoro suggerito dalla parola: così per esempio nell’aria del basso «The people that walked in darkness» (n. 11) il movimento scentrato, errante, opprimente e il cromatismo strisciante risucchiano l’immagine delle «genti avvolte in tenebre»; alle parole «gran luce rischiarò» la melodia s’illumina distendendosi sull’accordo maggiore (re maggiore, dove prima era si minore).

 

La prima parte, la più ampia e sostenuta nello stile, è aperta da una Sinfonia bipartita (un solenne Grave, un Allegro moderato fugato) che già nella scelta della tonalità – mi minore – sembra volere introdurre un clima di grande concentrazione, carico di attese. Solo con l’attacco del recitativo del tenore («Comfort ye my people») il passaggio al modo maggiore – mi maggiore – modula una nota di serena letizia, di aspettativa fiduciosa. Questa prima parte può essere suddivisa in tre blocchi. Il primo comprende i due recitativi e le due arie del tenore e del basso inframezzati dal coro, nei quali sulle parole dell’Antico Testamento si dipanano le profezie della prossima venuta del Messia. Il secondo blocco è costituito dal recitativo e aria (con intervento del coro) del contralto, che svolge il tema dell’annunciazione a Maria e dell’attesa del Redentore (e si noti che la prima entrata della voce femminile avviene con sicuro effetto sull’immagine della chiamata della Madre di Dio); indi dal recitativo e aria del basso, che descrive lo stato di smarrimento e di tenebre in cui si trova l’umanità prima della venuta di Cristo: e sul tema della potenza e dello splendore del Signore il coro espande questo mutarsi delle tenebre in tripudio sfolgorante di luce. Il terzo blocco, preceduto dalla Pastorale che per la prima volta introduce la tonalità di do maggiore con evidente simbolismo rappresentativo, è dedicato alla rievocazione della nascita di Cristo. Un esteso passo del Vangelo di Luca si presta alla descrizione dei pastori abbagliati dal fulgore celestiale degli angeli, il canto dei solisti e del coro, ormai quasi una cosa sola, si scioglie in una meditazione soavissima sulla pace ritrovata.

 

La seconda parte ci conduce subito nel mezzo della rappresentazione della Passione con la grande aria «He was despised», forse la pagina più ispirata dell’intero Messiah. Di nuovo vengono utilizzate le parole di Isaia per sottolineare nelle opere di Cristo il compimento di tutte le profezie, mentre una serie di cori commenta solennemente il significato per l’umanità della morte e della resurrezione del Redentore. Finalmente, quando si dispiega la visione del trionfo di Cristo, l’estatico « Hallelujah» attacca di colpo, slanciandosi a celebrare le parole supreme dell’Apocalisse.

 

Inno di lode alla gloria della resurrezione di Cristo, ma soprattutto annuncio della sua seconda venuta nella gloria: questi i temi della terza e ultima parte, la più breve e concisa nell’itinerario del Messiah. L’aria del soprano «I know that my Redeemer liveth» (n. 45) manifesta dolcemente la salda certezza della fede, preparando la visione del giorno del Giudizio in cui, al suono squillante della tromba, ogni morto risorgerà incorrotto. L’aria del basso in re maggiore «The trumpet shall sound», accompagnata dalla tromba solista con passi virtuosistici fra i più difficili che mai siano stati scritti per questo strumento, non dà alla descrizione accenti di terrore, ma semmai di stupore per l’ultima profezia che si compie. Una breve meditazione sul significato della sconfitta dalla morte sfocia nella grandiosa serie di anthems corali della chiusa, prima che l’«Amen» avvolga di robusto tessuto polifonico l’immagine dell’Agnello assiso sul trono di tutte le dominazioni, secondo la lettera dell’Apocalisse.

Christopher Hogwood, Edward Higginbottom / Emma Kirkby, Catherine Robbin, Laurence Dale, David Thomas, The Accademy of Ancient Music, The Choir of New College, Oxford
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1995-96

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