Franz Schubert – Quintetto in do maggiore per due violini, viola e due violoncelli op. 163 (D. 956)

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Fin dagli anni giovanili di studio all’imperial-regio convitto di Vienna Schubert coltivò con passione speciale la musica da camera per archi, prolungamento naturale di quella pratica esecutiva domestica che rimase nei suoi ricordi come una delle esperienze più emozionanti e profonde del fare e vivere la musica. Nella formazione quartettistica familiare il piccolo Franz suonava la viola, accanto al padre e ai fratelli: certamente non si limitava solo a curare la precisione di quelle improvvisate esecuzioni, senza rinunciare affatto – lui, il più “”inesperto”” – a rimproverare aspramente i cari colleghi per le loro approssimazioni di lettura, ma si soffermava anche sulle caratteristiche peculiari dei pezzi che venivano eseguiti – i classici del quartetto –, valutandone e imparandone la composizione.

I primi Quartetti per archi schubertiani che ci sono rimasti, e che risalgono agli anni tra il 1812 e il 1815, sono una prova tangibile di questo processo di assimilazione governato da un talento formidabile: tanto che in essi possiamo distinguere con precisione quasi assoluta dove finisca l’imitazione e cominci l’invenzione. Quel che però manca in questi lavori è lo stile individuale, la realizzazione di un organico sistema di valori entro il quale muoversi e agire: conquista che viene

avviata in modo addirittura sbalorditivo nel Quartettsatz in do minore del 1820 e compiuta definitivamente, legando mondo del Lied e genere cameristico, nel tardo capolavoro che chiude l’intera evoluzione, il Quartetto in re minore “”La morte e la fanciulla”” (1824-1826).

Di fronte al numero abbastanza cospicuo di Quartetti, il Quintetto in do maggiore op. 163 per archi spicca non tanto per la sua unicità quanto per il carattere di testimonianza estrema, quasi di estrema dichiarazione di volontà artistica: tratto che esso deve non solo al fatto di essere l’ultima opera importante composta da Schubert (probabilmente nel settembre del 1828) ma anche una delle sue più ampie, personali e complesse. In effetti è difficile resistere alla tentazione di collocare il Quintetto in do maggiore tra quei lavori che possiedono “”emblematicamente”” qualcosa di riassuntivo, di ultimo e definitivo. La poetica di Schubert vi è come distillata, meravigliosamente decantata nei suoi proverbiali, caratteristici aspetti. L’aspetto confidenziale dell’espressione melodica, quando emerge, appare velato di tristezza, interiorizzato; l’armonia si colora di riflessi sinuosi, mutevoli, davvero caleidoscopici fino alla vertigine della visione; il ritmo preme verso mete infinite incalzando, o trattiene dall’abisso sospendendosi; la scrittura offre una varietà inesauribile di soluzioni tecniche nella tessitura dell’insieme: insomma, tutto in quest’opera appare come fondamentale, frutto di una riflessione matura e coerente. E nello stesso tempo permane a ogni nota, letteralmente, l’impressione di una semplicità ingenua e familiare, di una verità immediata e profonda al di là degli accenti straordinari del periodare schubertiano: una semplicità espressa sottovoce, una immediatezza resa sensibile e partecipata da un cuore gonfio di emozione, che par voler solo ricordare, raccontare, sognare.

Il colore speciale di questa partitura deriva in primo luogo dalla scelta e dall’uso dell’organico, il quintetto d’archi con due violini, una viola e due violoncelli. Dal punto di vista della storia della musica il quintetto d’archi nasce come estensione del quartetto ed è quindi successivo ad esso. Nel

corso del Settecento si sviluppano parallelamente due tipi di quintetto, quello con due viole e quello con due violoncelli: il primo legato soprattutto al nome di Michael Haydn (1737-1806) e all’ambiente austriaco, il secondo stabilizzato invece universalmente da Luigi Boccherini (1743-1805).

Boccherini compose all’incirca 110 di questi quintetti, e la sua influenza fu decisiva per il successo anche commerciale del genere, che si protrasse fino a Schubert e oltre. Può essere curioso osservare che mentre Schubert si rifece a questo tipo, preferendolo proprio per quel tanto di virtuosismo

italianizzante che Boccherini vi aveva trasfuso, Mozart rimase invece legato all’altra forma, quella con due viole, nella quale peraltro lasciò altissimi esempi della sua arte (basti pensare alla coppia dei Quintetti K. 515 e 516; ma non solo). Anche Bruckner, nel suo unico lavoro importante di musica da camera, optò per la forma con due viole, ispirandosi però nella sostanza a Schubert.

Da Schubert si diparte anche un filo che conduce fino a Brahms, forse l’erede più pieno della tradizione romantica nella musica da camera. Ma benché più di uno spunto nella generale austerità e concentrazione del pezzo possa far pensare a una possibile influenza su Brahms, occorre precisare che proprio nella cerchia brahmsiana, per esempio del suo intimo amico e grande violinista Joseph Joachim, il Quintetto di Schubert fu accolto con molta freddezza e severità: «Senza misura e senza sentimento per la bellezza nei contrasti», fu il giudizio alquanto negativo di Joachim.

Anche su quest’opera, del resto, si era abbattuta quella malasorte che sembrava colpire indistintamente i maggiori frutti della maturità schubertiana. Offerto insieme ad alcuni Lieder su testi di Heine, alle tre ultime Sonate per pianoforte e alla Sinfonia in do maggiore “”Grande”” all’editore Probst di Lipsia il 2 ottobre 1828, venne da questi prima accettato, poi definitivamente rifiutato al pari degli altri, Lieder esclusi; e con la morte di Schubert, avvenuta di lí a poche settimane, calò definitivamente il sipario anche sulla possibilità di una pubblicazione, sia per il Quintetto che per gli altri lavori strumentali. Per quanto possa apparire incredibile per un’opera diventata per noi oggetto di un vero e proprio culto, il Quintetto in do maggiore venne eseguito per la prima volta solo ventidue anni dopo la morte del suo autore, il 17 novembre 1850 al Musikverein di Vienna da parte del famoso Quartetto Hellmesberger arricchito dal violoncellista Josef Stransky, e pubblicato in prima edizione dall’editore Spina nel 1853.

Fin dall’introduzione al primo movimento, Allegro ma non troppo, si rivela la straordinaria complessità e insieme la sottigliezza di questa pagina enigmatica, seria e al tempo stesso spensierata, estremamente raffinata eppure intrisa di spirito popolare come poche. In essa il ritmo gioca un ruolo fondamentale come unità di misura del movimento; ma sarebbe difficile dissociarlo dagli altri elementi – melodico, armonico e timbrico – che rappresentano un materiale in continua espansione, brulicante di idee e di trovate, quasi in una sfida continuamente rilanciata verso l’impossibile. Certe invenzioni, come il “”pizzicato”” che accompagna il canto immateriale e struggente dell’Adagio, o la modulazione da do maggiore a re bemolle maggiore audacemente sbalzata tra lo Scherzo e il Trio, costituiscono anche per un creatore celestiale come Schubert veri e propri momenti di grazia. Croce e delizia degli analisti, che vi hanno trovato abbondanza di riferimenti e di ipotesi musicologiche, il Quintetto è anzitutto opera da ascoltare con devozione e

abbandono, lasciandosi pervadere dalla gioia della liberazione e dal sentimento dell’infinito, senza pretese di scavalcare con le parole il mistero ineffabile della sua musica.

E niente meglio della sintesi di un saggio esperto come Bernhard Paumgartner vale a preparare questo ascolto: «Come la “”Grande”” in do maggiore chiude la serie delle Sinfonie in un clima di ottimistico tripudio, un simile termine pone, alla serie dei Quartetti per archi, il Quintetto

in do maggiore op. 163 (1828) per due violini, viola e due violoncelli. Il raddoppio del violoncello conferisce all’opera un rilievo e un timbro particolari, di grande pienezza e forza melodica. L’opera è semplicemente perfetta: perfetta in bellezza, ma anche nel senso formale e organico, frutto divino di una comunione mistica del principio formale classico e romantico, inesplicabile nella sua unicità e incomparabile. Come i veri grandi sentimenti in noi, il Quintetto appartiene a due sfere: la terra e il cielo. Esso ci fa perdere ogni conoscenza. Rimaniamo come sospesi nel vuoto. Eppure, sentiamo la forza immediata della terra.

Così ci congeda, dopo la sublime cantilena del primo movimento, dopo la bruckneriana tenerezza dell’Adagio, dopo l’ardore dello Scherzo e la calma del paesaggio del suo Trio, il vorticoso finale: Zelész o Grinzing, Dionisio o l’Elisio?».

Hagen Quartett, Boris Pergamenschikov
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1994-95

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