Franz Schubert – Messa n. 6 in mi bemolle maggiore D. 950 per soli, coro e orchestra

F

Nel 1828, 1’anno della sua morte, Schubert lavorò nei generi più diversi a una serie impressionante di composizioni. Queste opere – come il Quintetto per archi in do maggiore, i Lieder dello Schwanengsang, le ultime tre Sonate per pianoforte, la Sinfonia “”Grande”” – vengono considerate a ragione la prova più certa di una definitiva, consapevole affermazione misconosciuta dalla sua epoca, il risultato dell’emancipazione completa dal condizionamento di Beethoven, morto appena 1’anno prima, e insieme solo l’inizio, brutalmente interrotto, di un nuovo percorso compositivo che sarà proseguito in ambito romantico da Schumann e da Brahms. In quell’ultimo anno Schubert sembra raggiungere anche esteriormente il rango che gli competeva nella storia delle grandi forme, non solo nel Lied.

Sia che fosse avvenuto per così dire uno “”sblocco”” dopo il congedo dal mondo del titano, sia invece che in quel breve ma fantastico tratto si cogliessero semplicemente i frutti di una lunga, solitaria preparazione già costellata di capolavori, rimane il fatto che il 1828 fu un anno nel quale Schubert gettò le basi di un nuovo stile in ogni campo della sua produzione. E questo stile fu dettato da una necessità interiore, non meno che da una raggiunta maturità e chiarezza di intenzioni. Schubert ora può perfino disinteressarsi, con un orgoglio e una coscienza di sè quali mai prima aveva dimostrato, dell’immediato riconoscimento, perche la meta a cui aspira è di ben altro momento. Di cui la grandezza – prima di tutto grandezza nelle proporzioni della forma e nelle dimensioni dei mezzi espressivi – e un presupposto fondamentale.

Ecco lo sfondo da cui nacque la “”grande”” Messa in bemolle maggiore, tra il giugno e il luglio del 1828. Schubert la compose dietro richiesta di un amico di cui poco ci è noto. Si chiamava Michael Leitermeyer ed era direttore del coro della chiesa parrocchiale di Alsergrund, località alla periferia di Vienna. Non si trattò dunque di una vera e propria commissione (Schubert non ricevette infatti alcun onorario) ma di un omaggio fatto a un amico che voleva disporre di un pezzo nuovo per il suo coro. Nulla sappiamo degli accordi che intercorsero fra i due: ma è probabile che Leitermeyer volesse non tanto una Messa da destinare a una esecuzione liturgica quanto un grande pezzo da presentare con il suo coro per un’occasione speciale, forse 1’anniversario della consacrazione della chiesa. Almeno cosi l’intese Schubert, che non solo dette al coro una parte preponderante ma si orientò anche, decisamente, verso una Messa da concerto in aperto contrasto con le disposizioni liturgiche: già nel testo, che si scosta in alcuni dettagli, ma ancor più nel tono di fondo della musica che 1’accompagna, da quello ufficiale della Chiesa cattolica. Le irregolarità piu evidenti riguardano il Gloria e il Credo: oltre alle brevi , ma ricorrenti omissioni e agli spostamenti di parole (per esempio nel Gloria “”Filius Patris”” collocato dopo “”Agnus Dei”” anziche dopo “”Jesu Christe””), colpiscono nel Credo le abolizioni di frasi intere, come “”Et Unam Sanctam Catholicam et Apostolicam Ecclesiam””, dogma assente in tutte le Messe di Schubert, e “”Et expecto resurrectionem mortuorum””, immagine estranea all’intenso senso della vita dell’uomo. Sembra quasi che Schubert abbia adattato il testo alla sua visione di una religiosità profonda, ma tutta umana e tragica, poco convenzionale e ancor meno confessionale. Sicuramente colse quell’occasione per trasferire nel cameo della musica sacra alcune conquiste del suo tardo stile, non riuscendo tuttavia a coglierne gli effetti pratici: la prima esecuzione della sua ultima Messa avvenne infatti nella chiesa di Alsergrund il 4 ottobre 1829, quasi un anno dopo la sua scomparsa, per iniziativa del fratello Ferdinand (il 15 novembre 1’esecuzione fu replicata nella chiesa parrocchiale di Maria Confortatrice, sempre sotto la direzione di Ferdinand).

Ciò rende la Messa in mi bemolle maggiore lontana non solo dalle quattro Messe giovanili degli anni 1814-16, chiaramente destinate a un’immediata utilizzazione liturgica, ma anche in parte da quella in la bemolle maggiore, composta tra il novembre 1819 e il settembre 1822, che sta all’ultima come tra le Sinfonie 1′Incompiuta (del 1822) sta alla “”Grande“” (alle sei Messe latine vanno aggiunte la Deutsche Trauermesse – “”Deutsches Requiem“”, per quattro voci con accompagnamento d’organo dell’agosto 1818, ritenuta a lungo opera di Ferdinand Schubert, e soprattutto la singolare Deutsche Messe – più propriamente Canti per celebrare il Santo sacrificio della Messa su inni sacri tedeschi di Johann Philipp Neumann – per coro, strumenti a fiato e organo del 1826-27, indubbia premessa dell’ultimo capolavoro). A renderla tale non sono state solo le proporzioni grandiose, tutt’altro che compatibili con una normale funzione religiosa, e le già dette particolarità degli interventi sul testo, ma anche il trattamento del coro e dell’orchestra. Se il coro, usato per lo più a quattro voci su un impianto di robusta tessitura contrappuntistica, è il vero protagonista – la presenza dei solisti limitandosi all'””Et incarnatus est”” del Credo, al Benedictus e al “”Dona nobis pacem”” dell’Agnus Dei –, per quanto riguarda l’organico strumentale Schubert rinunciò ai flauti e all’organo di accompagnamento, che pure era di solito impiegato in questo genere di composizione. La stessa densità compatta dell’orchestra – gli altri legni a due, due corni e due trombe, tre tromboni, timpani e archi – e chiaramente improntata allo stile delle Messe dell’epoca classica, di Haydn o Beethoven per esempio, ma il colore e impregnato di sensibilità armonica romantica, negli abbandoni lirici come nelle forti campiture drammatiche. E se il coro misto è usato come voce d’insieme, collettiva, l’orchestra si distingue talvolta per contrapposizioni nette, quasi a voler ricreare in alcuni punti i registri dell’organo e definire in altri uno stile sacro di policoralita non solo vocale ma anche strumentale (1’aggancio con Bruckner è qui evidente).

Già il Kyrie è un esempio significativo di questa tecnica compositiva basata sulla contrapposizione di singoli gruppi strumentali, a poco a poco riuniti. I tre blocchi timbrici (archi, legni, ottoni) s’avvicendano armonizzandosi sulla tonalità fondamentale di mi bemolle maggiore, come per esprimere simbolicamente il mistero della Trinità. La solenne invocazione al Padre (“”Kyrie eleison”” I) si scioglie in tenera preghiera al Figlio nel “”Christe eleison””, per poi riunirsi in una supplica allo Spirito Santo (“”Kyrie eleison”” II) che musicalmente e la sintesi delle due parti precedenti: nella disposizione formale e ritmica di tipo ternario Schubert collega le immagini del testo con la logica compositiva di un movimento sinfonico, in un’unita anche figurativa rappresentata dall’ostinato lento e tranquillo del pizzicato di violoncelli e contrabbassi.

Il Gloria si articola in tre parti, di cui la terza e la ripresa della prima ampliata poi in una grande fuga (“”Cum sancto spiritu””). La tonalità fondamentale è si bemolle maggiore, il tempo “”Allegro moderato e maestoso””: ma al centro campeggia una vasta sezione in sol minore e in tempo “”Andante con moto”” (“”Domine Deus””, “”Qui tollis””). E’ un contrasto che Schubert aveva sviluppato nella musica da camera e nel Lied e che ora viene trasferito nelle dimensioni austere della Messa: esso coincide col passaggio da una festosa esultanza del coro e da una strumentazione particolarmente florida (“”Gloria in excelsis Deo””, con l’inizio a voci sole, e “”Laudamus Te””, con la ricomposizione in stile omofono e la distensione nel lirismo del “”Gratias agimus””) a episodi di ripiegamento interiore e riflessivo. Schubert sembra voler dare uno slancio incalzante e quasi angoscioso alla sequenza delle invocazioni in minore del “”Domine Deus”” (Rex coelestis, Deus Pater omnipotens, Domine Fill unigenite, Jesu Christe Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris); accrescendo la cupezza e la tensione con it rilievo di un tema dominato dal timbro scuro dei tromboni: questo tema ritornerà a conclusione della Messa, nell’Agnus Dei, a confermare una disposizione generale di carattere non soltanto sinfonico ma anche ciclico. La tensione si allenta in cantabile dolcissimo nel “”Qui tollis””, interiorizzandosi al massimo nel “”Miserere nobis””. Poi, col ritorno del Tempo I nel “”Quoniam””, si prepara rapidamente il passaggio alla monumentale architettura della fuga, sintesi poderosa di modelli preclassici, barocchi, e di elaborazioni polifoniche integrate nel pensiero sinfonico.

Al Credo Schubert sembra dare minore rilievo che alle altre parti della Messa: e ciò puo aiutare a spiegare, oltre alla sua idea compositiva, il senso di una religiosità intrisa di conflitti. Tutta la prima parte “”Credo in unum Deum”” è sbrigata con una certa secchezza, non dal punto di vista compositivo, ma espressivo. Tanto più straordinario è perciò il cambiamento di atmosfera con l'””Et incarnatus est””, un Andante “”pastorale”” in 12/8 in la bemolle maggiore nel quale per la prima volta il coro tace ed entrano i solisti (il soprano e due tenori lo introducono con un mirabile canone a tre voci). La rievocazione della morte in croce e della deposizione ha accenti di elegia funebre accresciuti dall’ostinato del rullo di timpani, sfondo di tutto il Credo, e trascolora con improvvise svolte armoniche ed escursioni dinamiche da una rarefazione al limite del silenzio all’urlo di terrore. La terza parte, “”Et resurrexit””, e una ripresa variata del “”Credo”” iniziale, coronata da una fuga complessa e sempre pin serrata nella condotta cromatica delle voci (“”Et vitam venturi saeculi””).

E solo col Sanctus che l’interpretazione del testo da parte di Schubert si innalza alle più alte sfere dell’espressione personale, quasi condensando Lied, musica da camera e sinfonia. Notevole è già 1’inizio, la triplice intonazione della lode del Signore, che si espande in un moto contrario di violoncelli e contrabbassi (verso il grave) e dei violini (verso 1’acuto), giungendo alla piena espansione sonora dell’orchestra sul “”Pleni sunt coeli et terra gloria Ejus””: come se davvero la musica realizzasse quella pienezza in una visione insieme profetica e apocalittica. Segue un raccoglimento interiore che perlustra ambiti sonori tonalmente vaganti e sospesi, fino a sciogliersi nel Benedictus, affidato al dialogo tra Coro e solisti. E’ un momento di serena trasfigurazione, che tuttavia non attenua il peso del contrasto. I1 quale anzi prorompe con aria violenza inattesa nella ripresa dell””Osanna in excelsis””, dove Schubert sembra opporre alla gloria di Dio nell’alto dei cieli la pieta per il destino dell’uomo sulla terra.

Ed è nell’Agnus Dei conclusivo che questo destino si manifesta con una evidenza sconvolgente. Schubert elabora la materia di un tema costituito da un duplice riferimento: da una lato citando il soggetto della Fuga in do diesis minore del primo volume della Tastiera ben temperata di Bach, dall’altro prefigurando it motivo che ritornera nel Lied Der Doppelganger (I1 sosia) sulle parole: “”la sta anche un uomo e ha lo sguardo fisso in alto e si torce le mani in preda al dolore””. Il breve testo è suddiviso in una duplice ripetizione che contrappone la prima sezione (“”Agnus Dei qui tollis peccata mundi””, in do minore) al “”Dona nobis pacem”” in mi bemolle maggiore (qui al coro si aggiungono ai solisti). Poi la prima sezione è ripetuta in mi bemolle minore e in un tempo leggermente più mosso, in una brusca irruzione di toni drammatici originati dal pensiero del peccato, forse con una tragica immedesimazione. E il momento di massima concentrazione espressiva di tutta l’opera, da cui lentamente si origina l’””Andantino”” per coro e orchestra che, in do minore e poi mi bemolle maggiore, porta alla definitiva affermazione del “”dona nobis pacem””: un’invocazione che sembra gravata da un dolore ora non più solo individuale e volerlo trascendere in un’estrema ricerca di solidarietà di fronte all’enigma della morte, per trovare il senso dell’esistenza di Dio nell’amore per la vita e nella pietà per la condizione umana.

Hermann Prey e Helmut Deutsch
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1991-92

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