Béla Bartók – Concerto per orchestra
Ai primi di aprile del 1940 Béla Bartók s’imbarcò a Napoli sul Rex, diretto alla volta di New York. Sotto il pretesto di un giro di concerti con il violinista Szigeti, il viaggio aveva un essenziale scopo esplorativo: sondare le possibilità di residenza e di lavoro negli Stati Uniti, in vista di un eventuale trasferimento. Nella vecchia, cara Europa, divampavano le fiamme della guerra; da due anni, dalla annessione che aveva segnato la fine dell’Austria, Bartók viveva in una tormentosa angoscia, sempre più acuta, per la tragica sequenza delle vicende d’Europa: anche se, per il momento, l’Ungheria, patria del musicista (era nato a Nagyszentmiklós nel 1881), non appariva minacciata.
Assunto dalla Columbia University di New York per il biennio 1941/42, con l’incarico di riordinare e studiare le musiche balcaniche in possesso dell’istituto (un compito fatto su misura per un musicista da sempre appassionato del canto popolare e del folclore nazionale della sua terra), Bartók abbandonò definitivamente l’Europa a fine ottobre del 1940, con la moglie Ditta de Paszthóry, dopo aver trascorso la sua ultima estate in patria. A Budapest, invano Zoltàn Kodàly aveva tentato di persuaderlo che il suo posto, in tempi sì oscuri, era la natia Ungheria. Ma era allora l’Ungheria ancora quella di un tempo?
In un testamento, vergato prima di partire, Bartók vietava fra l’altro che al suo nome venissero intestate vie o piazze ungheresi, finché sulle targhe della città di Budapest fossero rimasti impressi i nomi, da poco innalzati a effimera, funesta gloria, di Hitler e Mussolini.
Non che Bartók si illudesse troppo sulla sua nuova vita nord-americana: «Dall’incertezza – aveva confidato agli amici di Budapest – compio il salto verso una insopportabile sicurezza». I cinque ultimi anni trascorsi in America furono i più difficili, amari e tristi, della sua vita. Anzi esacerbati da gravi difficoltà economiche, soprattutto dopo la scadenza, senza rinnovo, dell’incarico all’università, e dal progressivo acuirsi del male, una forma di leucemia, che lo avrebbe condotto alla tomba. A differenza del suo grande contemporaneo europeo legato da un medesimo destino, Arnold Schönberg, Bartók respinse fermamente ogni concreta offerta di aiuto finanziario, e altrettanto fermamente ricusò di impartire redditizie lezioni di composizione, per cui gli americani, addosso ai quali la guerra aveva fatto piovere una vera manna di esuli della musica europea, andavano letteralmente pazzi. Ma la composizione, asseriva Bartók, non si può insegnare. Che poi egli fosse, in assoluto, un mostro di didatta, è altro discorso: perché in ventisette anni di permanenza come docente al Conservatorio di Budapest, aveva voluto insegnare sempre solo il pianoforte.
Restava, unica via di uscita, la composizione come attività creativa, se qualcuno l’avesse patrocinata. Fu così che, su interessamento di due noti musicisti ungheresi, il direttore d’orchestra Fritz Reiner e il violinista e amico Joseph Szigeti, nel luglio del 1943 l’allora direttore dell’Orchestra Sinfonica di Boston, Serge Kussewitzky, chiese a Bartók di scrivere un lavoro orche-strale, da dedicare alla memoria della consorte Natalie. E, tra agosto e ottobre, nella quiete di un soggiorno di cura e di riposo a Saranac Lake, Bartók compose il Concerto per orchestra, primo di quei sommi capolavori in cui si compendia la produzione americana di Bartók fino alla morte, sopravvenuta, a sessantaquattro anni, il 26 settembre 1945; gli altri essendo la Sonata per violino solo (scritta per il violinista Yehudi Menuhin), l’incompiuto Concerto per viola (commissionato da Walter Primrose) e il Terzo Concerto per pianoforte, composto quale lascito e ricordo alla moglie Ditta, valente pianista.
Il Concerto per orchestra venne eseguito per la prima vola a New York il 1 ° dicembre 1944, con esito trionfale, sotto la direzione di Kussewitzky. L’architettura del lavoro corrisponde a quella di un’ampia Sinfonia in cinque tempi, ma il titolo di Concerto è giustificato dall’autore stesso, nelle note redatte per la prima esecuzione: «Il titolo di questo lavoro orchestrale simile a una sinfonia è dato dalla tendenza a trattare i singoli strumenti dell’orchestra in stile concertante o solistico. L’elemento virtuosistico si palesa, ad esempio, nelle sezioni fugate dello sviluppo del primo tempo (ottoni) o nei passaggi a guisa di moto perpetuo del tema principale dell’ultimo tempo (archi), e specialménte nel secondo tempo, ove coppie di strumenti entrano successivamente con passaggi brillanti… L’aspetto generale del lavoro rappresenta, a parte il danzante secondo tempo, un graduale passaggio dalla severità del primo tempo e dal cupo canto di morte del terzo all’affermazione di vita dell’ultimo tempo».
Nel Concerto per orchestra, pagina di rasserenata e meditata riflessione, quasi un’oasi di pace dopo tanti tumulti spirituali, rimane in apparenza ben poco dell’aggressiva tensione ritmica e delle taglienti immagini timbriche di altre opere orchestrali bartokiane (basti pensare alla Musica per strumenti a corda, celesta e percussione del 1936), senza che per questo si renda credibile la tesi secondo cui Bartók sarebbe stato condizionato da «esigenze di mercato» nei confronti del pubblico americano. Altri, invece, appaiono i valori di cui è intessuta la preziosa partitura: come se, in sostanza, si trattasse di un ritorno alle esperienze compiute in gioventù dal maestro, rivisitate ora con la saggezza dolorosa della vecchiaia, riunendo le espressioni di un patrimonio culturale e musicale che da Liszt, Brahms, Strauss e financo Debussy arriva al tocco leggero di quell’autentico filone ètnico magiaro, tanto amato e indagato da Bartók nel corso di tutta la vita.
Una rievocazione ora attonita (la stupenda «musica notturna» del terzo tempo, intitolato Elegia), ora sferzante di ironia e di malizioso humour (la citazione fantasiosa, nel quarto tempo, denominato in italiano «Intermezzo interrotto», del tema del trionfale crescendo della Settima Sinfonia, detta «di Leningrado», di Sciostakovic, congegnata a bella posta per sottolineare la parentela del tema «eroico» di Sciostakovic con una frivola canzonetta, di sapore viennese, dalla Vedova allegra di Lehar). Giustamente ha scritto Massimo Mila: «Il sacro e il profano, il carattere e il caratteristico, l’essenzialità della melodia contadina magiara e il pittoresco si conciliano nel Concerto per orchestra, unificati dalla Stimmung fondamentale che è la nostalgia dell’esule, lo spasimo intenerito della rievocazione».
Zubin Mehta
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica 1985