Luigi Dallapiccola
Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane
I e II serie
Su testi di Michelangelo Buonarroti il Giovane (Firenze 1568-1642, nipote «ex fratre» del grande Michelangelo) Dallapiccola compose fra il 1933 e il 1936 un’opera corale concepita organicamente ma suddivisa in tre parti indipendenti e distinte per carattere e forma, ciascuna delle quali comprende due cori in netto contrasto fra di loro. La prima serie – a) II coro delle Malmaritate b) Il coro dei Malammogliati, del 1933 – è per voci miste senza accompagnamento ed è tratta dagli «Intermedi» per una commedia di Nicolò Arrighetti. La seconda serie – a) I balconi della rosa (Invenzione) b) Il papavero (Capriccio), del 1934-35 – associa a un piccolo coro da camera di sei soprani e sei contralti (eventualmente riducibili a due soprani e due contralti soli) un complesso strumentale formato da diciassette esecutori (legni, ottoni, pianoforte e archi: in pratica solisti, dato che solo corni e trombe sono raddoppiati) e intona testi brevissimi, due quartine scelte fra i molti Enimmi (o Indovinelli) lasciati dal poeta. La terza serie – a) Il coro degli Zitti (Ciaccona) b) Il coro dei Lanzi briachi (Gagliarda), del 1935-36 – mescola il coro a voci miste alla grande orchestra, su testi tolti rispettivamente dalla Veglia Le Mascherate «da rappresentarsi nell’ultima sera di Carnevale» e di nuovo dagli «Intermedi» per una commedia di Nicolò Arrighetti.
Già da questa sommaria esposizione è possibile intuire fino a che punto il piano generale dell’opera, per la scelta stessa degli elementi costitutivi, fosse chiaro nella mente di Dallapiccola e come egli intendesse dare ai Sei Cori un vasto respiro unitario, fondandosi da un lato sulla massima varietà di accenti (il vivido contrasto fra le tre parti e, al loro interno, fra ogni coppia di cori), dall’altro su una minuziosa organizzazione formale, intessuta di precise relazioni musicali e retta da ben equilibrate proporzioni architettoniche: necessità, quest’ultima, sentita con particolare urgenza dal giovane Dallapiccola e destinata a divenire, col maturarsi della sua personalità, vera e propria cifra stilistica. Non appare quindi fuori luogo ravvisare nell’opera, e quasi nel senso di una moderna attualizzazione di principi classicamente tradizionali, i connotati di una grande forma tripartita, che dall’esordio quasi preludiante affidato alle sole voci sfocia nel culmine sinfonico-corale dell’ultima serie, passando attraverso l’intermezzo di carattere tenuemente cameristico della seconda, enigmatica coppia: dove l’unione delle voci agli strumenti, preparata da un’ampia Introduzione puramente strumentale, si colora immediatamente, ossia senza bruschi trapassi, del riferimento a forme tipicamente strumentali (Invenzione, Capriccio), in una simbiosi tanto ingegnosa quanto fertile, a sua volta poi ripresa e ribadita nelle possenti travature contrappuntistiche e nella massiccia opulenza sonora dei due ultimi blocchi.
A tenere insieme, dall’interno, questo edificio intrecciato di elementi così molteplici ed apparentemente eterogenei è il filo delle poesie di Michelangelo Buonarroti il Giovane: filo a prima vista tenue e gracile, fatta eccezione per l’improvviso, robusto spessore della livida, spettrale visione del Coro degli Zitti, che Dallapiccola giudicava «la più bella tra le poesie di Michelangelo Buonarroti il Giovane e certo uno dei momenti degni di nota della poesia italiana». In esso, punto culminante dell’intera opera e suo momento più alto, non si trova più nulla della «popolana scherzevole bonarietà delle Malmaritate e dei Malammogliati, nulla più del puro gioco degli Enimmi. Né posso escludere», conclude l’autore, «che l’idea dei Sei Cori abbia avuto la prima origine appunto dallo studio di questa poesia». Se si accetta questa ipotesi, del tutto coerente con la nota affermazione dallapiccoliana secondo la quale, nel suo modo di comporre, «la prima idea che mi balenava nella mente, anziché essere una cellula germinale, era il punto culminante dell’intera composizione», il filo poetico di cui dicevamo non apparirà più né tenue né fragile, ma anzi per così dire il supporto drammaturgico di un teatro immaginario – alla maniera dell’antico madrigale rappresentativo – mascherato nel giustapporsi di stazioni o situazioni drammatiche rese in forma di canzoni, a quadri staccati senza relazioni apparenti ma in realtà tese su rapporti compositivi intrinseci. Non è certo un caso che, nel dedicargli la Seconda serie dei Michelangelo, Dallapiccola riconoscesse un modello nel teatro di Gian Francesco Malipiero, il «Maestro cioè che insegnò alla mia generazione che cosa fosse lo spirito della musica italiana», e intendesse così facendo «esprimergli gratitudine per il molto che mi aveva dato nella ricerca di me stesso».
Ma possiamo aggiungere dell’altro. Una volta fissati l’origine e il vertice nel Coro degli Zitti, alla cui rappresentazione si addiceva necessariamente una veste sinfonico-corale, era logica conseguenza che gli altri cori dovessero ruotare intorno a questa vetta al fine di contrastare con essa (contrasti che, da contrasti fra le serie, divennero contrasti fra i cori di ogni serie, simmetricamente) e che perciò essi richiedessero non soltanto caratterizzazioni e intonazioni espressive diverse, ma anche mezzi diversi, specifici per ognuno di questi caratteri: il coro a voci miste senza accompagnamento per la burlesca, gaia e colorita ouverture della prima serie, tenuta tutta a mezza strada fra ironia e serietà; poche voci femminili e pochi strumenti solisti per la assottigliata, lirica astrattezza della seconda, rarefatta serie.
Che d’altro canto in questo caso il testo interessasse Dallapiccola non tanto per i suoi contenuti ideologici o spirituali quanto per la freschezza sorgiva delle situazioni poetiche, per l’originalità di una lingua insieme raffinata e bizzarra e per la naturale ricchezza di interna musicalità, insomma per quella straordinaria capacità evocativa e descrittiva che, già notevole sul piano poetico, la musica avrebbe potuto rendere con la massima evidenza ma senza obblighi precostituiti, appare lampante, e già a prima vista. Giacché se il verso ha in sé una scansione metrica tanto precisa quanto chiara, accentuata dalle rime e dal gioco delle allitterazioni, la poesia nell’insieme segue itinerari associativi assai sciolti e liberi, nei quali è la parola (ora morfologicamente, ora semanticamente) a dettare nessi e a proporre collegamenti, talvolta anche lontanissimi fra loro. In altri termini, essa appare intimamente prossima a quei criteri associativi immateriali e fantastici che la musica è in grado di intensificare in virtù del suo linguaggio peculiare: talvolta proprio sulla parola o sul giro di frase indugiando per colorare, evidenziare, commentare, contraddire e via dicendo. Non stupisce dunque che Dallapiccola, compositore allo stesso tempo espressivo e «formale» fin dagli inizi, affascinato dalle rappresentazioni della Tancia michelangelesca cui aveva assistito al Teatro Romano di Fiesole fra il 1930 e il ’32, si volgesse a compulsare l’artista poco noto con una curiosità e un interesse che non tardarono a rivelarsi creativi.
Il Coro delle Malmaritate, che apre la prima serie, è una canzone a schema libero (ossia non strofica) nella quale sei endecasillabi – tre posti all’inizio, tre alla fine – inquadrano simmetricamente una catena di venti settenari (soltanto il novo verso è un ottonario) sgranati in un irresistibile, sempre più incalzante crescendo. Al fine di conferire unità architettonica al brano, Dallapiccola approfitta della presenza ricorrente di un verso («Quant’era me’ per noi») per farne il perno che ordina la forma musicale, concepita secondo lo spirito del rondò: è questo stesso verso che, ripetuto alla fine in figurazione concentrata, introduce il ritorno degli endecasillabi e la «morale» conclusiva, con la conclusiva coda che, fatto abbastanza eccezionale in Dallapiccola, offre il ritorno del verso e del tema iniziali (in tal maniera la struttura del pezzo si propone come una forma non soltanto chiusa, ma ciclica). La breve prima sezione («Moderatamente mosso»), dopo aver introdotto il tema principale che dai contralti secondi si estende rapidamente a tutta la compagine corale, è di carattere sospensivo; quella centrale, che si può suddividere in due parti ognuna aperta e chiusa dal ritornello (rispettivamente versi 5-12 e 13-25), è di carattere affermativo e si snoda con senso dinamico-ritmico fortemente rilevato; la terza e ultima sezione, che si incastra nella precedente facendo leva sul ritornello, è di nuovo sospensiva ma, come si è detto, ambigua, riallacciando la chiusa vera e propria («lima, lima», quasi a mo’ di corale) con l’inizio. Il trattamento corale, che nella prima e nell’ultima sezione è essenzialmente omofonico, in quella centrale diviene più vario e misto, alternando passi omofonici a episodi polifonico-contrappuntistici e avvalendosi di imitazioni (canoniche e libere), di vocalizzi onomatopeici (quando il testo dice «Prima che canti ‘1 gallo!» la musica rifà il verso del gallo), di allusioni descrittive o illustrative evocate dal testo e condotte secondo la più aulica tecnica madrigalistica.
Il Coro dei Malammogliati presenta invece una struttura strofica, ancor più chiusa e definita: esso consta infatti di quattro sestine di ottonari a rima fissa (a b a b c c), nelle quali i due ultimi versi ritornano identici al termine di ogni strofa. È sottinteso che questo ritornello poetico («’N una diavola infernale, ‘n una zucca senza sale»), con la sua caratteristica figurazione musicale — una delle invenzioni melodico-ritmiche più folgoranti, davvero memorabili, di tutto Dallapiccola — rappresenta il pilastro che regge la forma del pezzo, la quale si apparenta così a quella della ballata popolare. E popolaresco, vigoroso e gagliardo, quasi un poco ciarlatanesco, è il tono di questo coro, assai più acceso e plastico del precedente, e insieme più ricco di invenzioni colorite e scherzose (alle parole «eccoci qui», e poi, nella ripresa, «a inzipillar», Dallapiccola cita gustosamente il motivo iniziale della Quinta di Beethoven, che davvero qui sembra la parodia del luogo comune — «Destino che bussa alla porta»). Consapevole del delicato equilibrio posto da passi come questi, nell’avvertenza stampata prima della partitura egli esortava gli esecutori «a non cedere alla tentazione di accentuare il carattere burlesco dei testi. Quanto di burlesco o buffonesco ho creduto di dover esprimere l’ho espresso in termini musicali; cioè per mezzo di simboli sul pentagramma, di annotazioni dinamiche, di indicazioni metronomiche».
Di questi segni, espressione di un rigore compositivo che sempre più si sarebbe precisato nell’arte dallapiccoliana, il Coro dei Malammogliati abbonda come e forse più del suo compagno di serie. Ricorrono, qui come là, ma in veste se possibile ancor più raffinata e doviziosa, tutti gli artifici del linguaggio contrappuntistico antico e moderno, e in particolare quella tecnica madrigalistica che, trovando vasta eco nell’eredità del barocco a Dallapiccola quanto mai cara, si appropria attraverso altre e più recenti esperienze non soltanto della onomatopea illustrativa o imitativa ma anche delle possibilità offerte dalla cosiddetta «musica visiva»: dove, al fine di creare il più stretto parallelismo fra poesia e musica, la stessa notazione mira alla descrizione e alla trasposizione musicale di singole parole o frasi, con effetti ora esattamente definiti ora appena suggeriti e accennati. «Credo», scriveva a questo proposito Dallapiccola, «si possa parlare di veri e propri ideogrammi nel Coro delle Malmaritate, per esempio nel passo ‘Levarci a’ mattutini’, che discretamente evoca col suo movimento ondulante quello di una campana; di indubbia provenienza barocca certe sottolineature di vocaboli, destinate a potenziare il significato della parola o di qualche suo particolare. In questo senso citerò il verso “”Un buon uom mi disse `Fa! “”, nel Coro dei Malammogliati: l’esclamazione ‘Fa!’ è affidata alla nota fa in tutte le voci».
Terminata la Prima serie dei Michelangelo, Dallapiccola chiuse il manoscritto in un cassetto. Gli sembrava inutile proporre a un editore la pubblicazione di una partitura che, per la sua originalità e difficoltà, non sarebbe stata eseguita (lo fu difatti soltanto alla fine del 1937, grazie al maestro triestino Antonio Illersberg, ma per udirne personalmente la realtà sonora Dallapiccola dovette attendere ben diciannove anni dalla sua composizione). Si volse così al proseguimento del ciclo e alla Seconda serie. Questa, come si è detto, consta di due testi brevissimi tolti dagli Enimmi: I balconi della rosa e Il papavero. «I due componimenti», nota Dallapiccola, «non vogliono esser altro se non parole scelte con proprietà e versi armoniosamente allineati. Come già nello scegliere i testi della Prima serie, così anche qui ho badato a che ci fosse una possibilità di contrasto piuttosto vivo: l’Invenzione ha carattere contemplativo e mattinale; il Capriccio è colorito e aggressivo».
Formalmente, la Seconda serie è divisa in tre parti: Introduzione – Invenzione – Capriccio. La prima parte puramente strumentale, necessaria per introdurre nel clima affatto diverso rispetto ai due cori precedenti, è un episodio in sé compiuto, lungo quanto ciascuno dei due Cori che seguono e costruito su due temi contrastanti: l’uno robusto e molto marcato, con carattere di ostinato ritmico e larghi intervalli di quinta, quarta e sesta, l’altro – presentato dal corno – embrionalmente melodico e statico, circoscritto nell’ambito di una scala pentafonica. Questi due temi, ricorrendo nei due Cori successivi, caratterizzano unitariamente l’intera serie.
L’Invenzione («Lentamente») è introdotta dal primo dei due e, con l’entrata del piccolo coro, delinea morbidi arabeschi vocali in contrappunto imitativo, che a poco a poco si estendono anche agli strumenti con suggestivi effetti d’eco. Al verso «Ch’uscendo fuora all’apparir del giorno» Dallapiccola imbastisce una linea melodica pura avvolta in sonorità smorzate degli strumenti, la quale, con aereo crescendo, conduce alla aperta luminosità diatonica della parola «giorno» (non ci pare dubbio vedere qui un commosso omaggio al wagneriano «Risveglio di Brunnhilde»). Segue poi uno sfarzoso intreccio di canoni e stretti fra voci e strumenti che, senza offuscare il senso di serenità e di pace raggiunto, chiude il coro con adeguata maestria compositiva.
Il Capriccio («Allegro, ma non troppo») ritorna all’ambientazione sonora dell’Introduzione, variandone il disegno iniziale in una ininterrotta catena di quarte discendenti. Il carattere della prima parte è decisamente brillante, per non dire scintillante; la densa e incalzante energia del movimento si blocca sull’entrata fortissimo del coro in ottava, che riprende il secondo tema dell’Introduzione e lo ripete, ampliandolo, più volte, quasi alla stregua di un motto icasticamente scolpito. Dopo il verso «Donne qual è quel re», la riconduzione strumentale al tema principale dell’Introduzione dà vita a una sorta di riesposizione variata di tutte le parti precedenti, accentuando così il rigore formale del brano e la sua logica consequenzialità; questa riesposizione, concentrata in imitazioni, canoni, stretti, inversioni e così via, conduce infine al ritorno, ora in disposizione accordale e con funzioni quasi armoniche, della figura per quarte con la quale il Capriccio si era aperto.
Lo stacco fra la Prima e la Seconda serie dei Cori di Michelangelo appare netto anche a un primo ascolto, sia per il contrastante tono di fondo, sia per la diversità delle scelte espressive, sia per lo spessore specifico del linguaggio e della tecnica propriamente compositivi, i quali nella Seconda serie sono di gran lunga più avanzati e moderni che nella Prima (armonica-mente, per esempio, nell’uso di procedimenti basati su accordi per quarte o su scale pentafoniche ed esatonali variamente combinate ed elaborate). Questo linguaggio, se da un lato può talvolta ricordare Strawinsky per certe scabrosità ritmiche e metriche o per tipiche sovrapposizioni di suoni naturali (diatonici) con suoni alterati (cromatici), oppure Mussorgskij per l’uso di determinate atmosfere timbriche, dall’altro delinea una complessiva fisionomia musicale già tendente a farsi personale, a diventare cioè stile, individuale messa a punto di un linguaggio proprio: fisionomia che nella Terza serie, con scarto ancor più brusco, si chiarisce in modo piuttosto evidente. Dallapiccola, non si dimentichi, aveva giusto trent’anni quando componeva i Michelangelo e non aveva ancora scoperto i Maestri della Scuola di Vienna, né conosciuto le brutalità e i disastri di tragedie incombenti: esperienze concomitanti e assai più che non si creda interdipendenti, giacché, alterando un equilibrio prezioso che era stato alla base della sua salda formazione umanistica, avrebbero finito per indirizzare l’artista verso altri, più impegnativi itinerari espressivi e musicali. Fu così che Dallapiccola divenne Dallapiccola: mutò, rimanendo se stesso. In questo processo i Cori di Michelangelo con la loro gaia spensieratezza, la loro colorita, non ancora turbata serenità, rappresentano non soltanto l’ultima stazione di un’età felice, ma anche un’opera di svolta: la fine di un ciclo. «Si chiudeva per me, e senza possibilità di ritorni, il mondo della colorita gaia aneddotica, della serena spensieratezza; forse anche il periodo della giovinezza e con ciò il primo periodo della mia attività creativa. Bisognava trovare altra legna in altri boschi».
Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane
I serie
Il Coro delle Malmaritate
All’altrui spese, donzelle, imparate,
All’altrui spese imparate, donzelle,
Per non aver a dir piangendo poi:
Triste, mal maritate!
Quant’era me’ per noi
Chiuderci per le celle,
Scavezzarci le chiome,
Mutarci abito e nome,
Vestir nero, bigio o bianco,
Arrandellarci ‘1 fianco
Di còrdigli e di cuoi
Quant’era me’ per noi!
Quant’era me’ per noi
Levarci a’ mattutini,
Dar mano a’ lumicini
Prima che canti ‘1 gallo!
Cacciarci in un Bigallo,
Entrare in un Rosano,
Metterci in un Majano, Al Portico, al Boldrone
Darci, o ‘n Pian di Mugnone
Farci vestir a Lapo,
O ver ficcare ‘1 capo
‘N un Monticel di buoi
Quant’era me’ per noi! Però imparate
E pensateci ben ben ben ben prima,
Ch’e’ non vi s’abbia a dir poi: lima, lima.
Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane
II serie
I balconi della rosa
Cinque fratelli siam, ch’alla sorella
facciam serraglio intorno,
ch’uscendo fuora all’apparir del giorno
non men d’ogn’altra sposa è vaga e bella.
Il papavero
Ditemi, per mia fe’,
donne qual è quel re
che non porta corona in giovinezza
ma la porta in vecchiezza.
Roberto Gabbiani / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti 1982-83