Goffredo Petrassi – Orationes Christi

G

Goffredo Petrassi

Orationes Christi

per coro misto, ottoni, viole e violoncelli

 

Nella produzione petrassiana degli anni Settanta, anni nei quali il musicista oltrepassando a sua volta la soglia dei settant’anni tende a incrementare con estrema parsimonia la mole già imponente delle sue creazioni, Orationes Christi è la composizione non soltanto di più vasto impegno dal punto di vista della tecnica compositiva, ma anche di più scoperta, franca, elementare immediatezza espressiva: quasi la confessione in prima persona di chi abbia finalmente raggiunto la certezza di verità inoppugnabili e intenda, senza infingimenti né prevaricazioni, testimoniarla e comunicarla agli altri.

Scritte fra il dicembre 1974 e il settembre 1975, le Orationes Christi furono accolte alla prima esecuzione avvenuta il 6 dicembre 1975 nella stagione pubblica romana della Rai con stupore prima ancora che con ammirazione: tanto l’assunto profondamente religioso dell’opera, dedicata, cristianamente, «ai fedeli di Cristo», e di conseguenza le scelte espressive, nel senso che s’è detto, sembravano contrastare con l’immagine ufficiale di Petrassi musicista puro, oggettivo e astratto, estroso sperimentatore di materiali capricciosamente scelti ed esauriti secondo fini e mezzi di per sé significanti, di volta in volta reinventati e sottratti a qualsivoglia tipo di messaggio. Immagine dalla quale era nata la falsa, strumentale dicotomia fra un Dallapiccola incline a ripiegamenti umanistici e trascendenti e un Petrassi «immanente» ed empirico, solidamente attestato sulle posizioni moderniste della cosiddetta «nuova musica».

A rimettere le cose a posto, già a caldo, pensò Fedele D’Amico, in un articolo apparso sull’«Espresso» poche settimane dopo la prima romana. Ricordando come l’ispirazione religiosa avesse sempre esercitato in Petrassi un peso fortissimo, non soltanto nelle sue opere ispirate a testi biblici e liturgici ma anche, più globalmente, nella costante di una tensione continua verso i temi della trascendenza e perfino dell’utopia (e dunque portatori di un messaggio), D’Amico ribadiva che l’ansia comunque espressiva costituiva uno dei princìpi fondamentali dell’arte di Petrassi: quell’ansia sovente mascherata e talvolta repressa che tuttavia lo porta alla creazione di «un discorso – complicato quanto si voglia ma discorso», nel cui linguaggio, per quanto squarciato, cruento, spericolatamente sperimentale, agisce in casi estremi il richiamo di una «ardente riconversione all’uso della favella», sentito con infinite sfumature che vanno dalla negazione più disperata alla più ottimistica fiducia nella possibilità, oltre che di costruire qualcosa di veramente significante, di comunicarlo nella sua interezza. Ora, le Orationes Christi sono appunto il più estremo e insieme risolto di questi casi, cui ben si addice la definizione, sempre coniata da D’Amico, di «strenuo capolavoro».

Tematicamente, le Orationes Christi sono la messa in musica sotto forma di preghiera delle ultime parole di Cristo. Affidandole al coro misto, Petrassi da un lato le oggettiva in una voce universale, corale, dall’altro le sostanzia di attributi soggettivi, umani (in duplice senso: Cristo parla per bocca degli uomini, gli uomini si esprimono attraverso la mediazione di Cristo, ma con diversa coscienza del valore delle parole). Al coro si oppone l’orchestra, trattata come sfondo d’ambiente cupo e drammatico (ciò non toglie naturalmente che talvolta l’ambiente prevalga sui personaggi agenti, o divenga esso stesso personaggio in primo piano). Questo sfondo è essenzialmente monocromo, di tinta scura, benché sia costituito da due colori fondamentali (con la possibilità dunque di variare, per contrasto o sintesi, gamme e sfumature timbriche): abbiamo infatti quattordici ottoni (6 corni, 4 trombe, 4 tromboni tenor-basso) da una parte, otto viole e otto violoncelli dall’altra. La composizione, basata su testi tratti dai Vangeli ma da fonti diverse, è divisa in due parti. La prima («Pater venit hora») si riferisce a un passo del discorso della Cena secondo Giovanni. Gesù, riconoscendo che l’ora è venuta, accetta la sua opera di mediazione nel mondo e si rimette alla decisione del Padre: «lo ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da fare; e ora glorificami tu, Padre, presso di te».

«La trovata fondamentale di Petrassi», spiega D’Amico, «consiste nel leggere già la parte prima come un capitolo della Passione sovrapponendo musicalmente al suo testo – in sé passibile di suggerire magari un mottetto di gloria – l’immagine dei tormenti e della morte. Diversamente infatti dai discepoli della Cena, egli sa che la mediazione del Figlio dell’uomo è contraddizione perpetua, la sua gloria crocifissione in eterno; e questo esprime coinvolgendo tutto in tutto. Così la voce di Cristo non solo è, fin da principio, il grido ‘voce magna’ di cui Matteo e Marco riferiranno per l’istante della morte, ma è anche, nell’intrico della sua ulcerata polifonia, la folla dei suoi seguaci e martiri, e dei suoi stessi crocifissori d’ogni tempo, che non sanno quello che fanno».

La seconda parte («Pater, si vis» — «Pater mi»), più breve, si serve di due epigrafiche frasi tolte da Luca e da Matteo. È la famosa preghiera del Gethsemani, colta nei suoi due momenti culminanti: nel primo Gesù, trepidamente intuendo il peso immane del suo sacrificio, sembra quasi suggerire indirettamente di essere risparmiato («Padre, se vuoi, allontana da me questo calice; però sia fatta non la mia volontà, ma la tua»); nel secondo, rimettendosi senza più condizioni alla volontà del Padre (il padre di tutti gli uomini, ma anche suo padre), accetta di bere il calice amaro («Padre mio, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà»).

Alla rappresentazione vivida, sbalzata, apocalittica della prima parte, succede qui, sia nel testo sia nella musica, una concentrazione attonita, quasi contemplativa. Ed è questa la seconda, geniale intuizione di Petrassi: le parole di Cristo, dapprima amplificate dal coro che quasi sembrerebbe ancora una volta volersi immedesimare umanamente nella portata del sacrificio (ed ecco le sottolineature musicali di certe parole simboliche – calix, transire, bibam -, quasi estremi atti di coscienza e di pietà), a poco a poco assumono un colore neutro, immateriale, spogliato di ogni dramma, immobile sino alla fissità. Con stupefacente effetto di anticlimax (stupefacente perché risolto in termini autenticamente espressivi nonostante l’ovvio calcolo compositivo), il momento più drammatico della rappresentazione coincide con il superamento del dramma e infine con l’assenza di ogni residuo di dubbio; al dolore sbigottito e ancora potenzialmente attivo della prima parte, si sostituisce la resa senza condizioni, la rassegnazione di fronte all’ineluttabile, l’accettazione del dolore come suo riscatto più vero e profondo: «un’accettazione dimessa, quasi interrogativa, appunto come di un mistero, di una fede» (D’Amico). Ed è così che alla fine il «fiat voluntas tua», punto d’arrivo di un tormento ormai conscio di sé, intonato dal coro di soli uomini come un mormorio confuso e senza timbro, si disgrega nel nulla fino a diventare esitante scansione di «uno solo», sospiro che brilla come fuoco fatuo consumandosi in lontananze eteree oltre le quali non è altro che il silenzio.

 

 

Orationes Christi

                                                 I

«Pater, venit hora, clarifica filium tuum, ut filius tuus

clarificet te; sicut dedisti ei potestatem omnis

carnis, ut omne, quod dedisti ei, det eis vitam

 aeternam. Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant

te, solum Deum verum, et quem misisti, Jesum Christum.

Ego te clarificavi super terram; opus consummavi,

 quod dedisti mihi ut faciam. Et nunc clarifica me

 tu, Pater, apud temetipsum».

 

                                                             (Giovanni, XVII)

 

 

                                              II

«Pater, si vis, transfer calicem istum a me;

verumtamen non mea voluntas, sed tua fiat».

                                                              (Luca, XXII)

 

«Pater mi, si non potest hic calix transire

nisi bibam illum, fiat voluntas tua».

                                                            (Matteo, XXVI)

 

 

                                               I

Padre, è giunta l’ora: glorifica il Figlio tuo, affinché

il Figlio glorifichi te, poiché gli hai dato potere su

ogni uomo affinché egli dia la vita eterna a tutti

 coloro che gli hai affidato. Ora questa è la vita eterna,

che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che hai mandato,

Gesù Cristo. Io t’ho glorificato sulla terra, avendo

compiuto l’opera che mi hai dato da fare; e ora

glorificami tu, Padre, presso di te.

 

 

                                               II

Padre, se vuoi, allontana da me questo calice;

però sia fatta non la mia volontà, ma la tua.

 

Padre mio, se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà.

Roberto Gabbiani / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti 1982-83

Articoli