Incanti e disincanti di un matrimonio
Prokofiev fu operista istintivo, appassionato, dotato e precoce come pochi, almeno nella sua epoca. Ma fu.anche operista sfortunato, fin dagli inizi e per la massima parte della sua vita; sì che la sua fama in questo genere, fatte salve poche eccezioni (anzitutto L’amore delle tre melarance, che pure non è l’unico capolavoro), è in forte misura una fama postuma, e neppure oggi del tutto consolidata. Le molteplici peripezie attraverso cui passò la sua produzione teatrale stanno a testimoniare questa verità, alla quale tuttavia si oppone, immediatamente, la realtà di una vocazione per l’opera senza dubbio eccezionale, e sorretta da solide fondamenta sia sul piano della poetica che delle scelte drammatico-musicali: in pari tempo, e fin dall’inizio, non conformiste e tenacemente legate alla tradizione.
Prokofiev compose la sua prima opera teatrale – Il gigante – a nove anni: un’opera in tutti i sensi infantile, che ebbe però la possibilità, grazie all’affettuosa compiacenza della madre, di venir subito allestita in una rappresentazione privata, familiare. Ma già nel 1904, allorché il ragazzo tredicenne sostenne l’esame di ammissione al Conservatorio di Pietroburgo, le opere erano diventate quattro, e almeno una di esse – L’ondina, tratta dalla novella di La Motte-Fouqué – in grado di destare l’interesse di esaminatori severi quali Rimski-Korsakov e Glazunov. Agli anni di studio in Conservatorio risale la prima prova di più maturo impegno, quella Maddalena, scabra e aggressiva, alla quale fu rifiutata l’esecuzione nel saggio annuale degli allievi (ed era la prima volta che il compositore si scontrava con la dura realtà dei superiori: «sognavo di comporre delle opere con marce, tempeste, scene terrificanti, e invece mi volevano insegnare delle regole», scriverà rammentando quel tempo; e di scene terrificanti, nel soggetto della Maddalena, non ne mancavano certo). Come non mancano, ma su un piano compositivamente più alto e omogeneo, non di rado illuminato da lampi di genio, nel primo notevole, compiuto lavoro teatrale di Prokofiev, Il giocatore da Dostoievski, che ciononostante dovette attendere oltre dodici anni prima di venire rappresentato (Bruxelles, 1929; iniziato nel ’15, finito nel ’16, annunciato dal Teatro Marinski per il febbraio-marzo 1917, scomparve dal cartellone a causa dello scoppio della Rivoluzione di febbraio, ma in realtà era già stato affossato da una furiosa rivolta delle masse artistiche e della stampa, unanimemente contrarie alla rappresentazione).
Forse furono anche questi eventi che spinsero Prokofiev a scegliere la strada dell’Occidente, ufficialmente solo per «prendere una boccata d’aria fresca». E proprio in America, dove era emigrato e dove si tratterrà per un lustro, trascorrendo poi altri dieci anni in Europa, egli colse la prima affermazione come operista con L’amore delle tre melarance, scritto di getto nel ’19 e rappresentato con grande successo a Chicago alla fine del 1921 (giunto in Russia nel ’26, fu la prima apparizione ufficiale di Prokofiev operista in patria); nel contempo però, inconsapevolmente e certo incolpevolmente, preparandosi la via per una nuova delusione, assai più amara di tutte le precedenti: L’angelo di fuoco, una delle creazioni più impressionanti del Novecento, alla quale il musicista attese fra il ’19 e il ’23 rimaneggiandola di continuo nei quattro anni seguenti, non trovò teatro disposto ad accoglierla (solo nel ’28 se ne dette a Parigi un’esecuzione del secondo atto in forma di concerto) e rimase, vivente l’autore, irrappresentata; per essere riscoperta in tutta la sua visionaria grandezza solo due anni dopo la morte di lui, in una storica serata del settembre 1955 alla Fenice di Venezia (e di passaggio notiamo quanto si debba all’Italia nella rivalutazione postuma del teatro prokofieviano: soprattutto, accanto a Venezia e a Firenze, al San Carlo di Napoli, il primo al mondo che osasse ripresentare Il giocatore e, da noi, rappresentare Matrimonio al convento, nel 1959).
Dopo L’angelo di fuoco, opera che in forma complementare alla «favola» dell’Amore delle tre melarance costituisce la quintessenza di una visione innovatrice e originale del teatro musicale, Prokofiev si tenne lontano per molti anni dal cimento operistico, vuoi per le delusioni patite nel vano tentativo di affermarsi in modo definitivo, vuoi perché queste due opere avevano complessivamente esaurito un primo stadio della sua ricerca e di quanto propriamente avesse da dire. Vi si riaccostò soltanto nel ’39, sei anni dopo il ritorno in patria, con un lavoro sotto molti aspetti nuovo, strettamente legato alle circostanze in cui maturò: l’epopea popolare del Semion Kotko, attraverso la quale Prokofiev cercò di conciliare le richieste del regime sovietico con le proprie, individuali esigenze artistiche, rimanendo, suo malgrado, penosamente invischiato nella difficile quadratura del circolo. È a questo punto che si colloca la composizione dell’opera comico-lirica in quattro atti Matrimonio al convento. Essa, rispetto al Semion Kotko che immediatamente la precede, è la conseguenza di una brusca sterzata, un ritorno, unitariamente perseguito da Prokofiev nella molteplicità dei mezzi usati, alla vena più caratteristica della sua arte, sia pure con una colorazione tutta speciale. Iniziato nel 1940 e completato già alla fine dell’estate di quell’anno, Matrimonio al convento avrebbe dovuto andare in scena nel ’41, ma una circostanza ancora una volta drammatica – lo scoppio della guerra – ne impedì l’esecuzione. Fallito anche il progetto di presentarla al Bolscioi nell’autunno 1943 (e fu in quest’occasione che Prokofiev rivide la partitura al fine di renderne lo stile più omogeneo), l’opera venne rappresentata soltanto a guerra finita, il 3 novembre 1946 al Teatro Kirov (ex Marinski) di Leningrado, con accoglienze assai positive e quasi trionfali, come prima in patria mai era accaduto a Prokofiev. Ma fu solo un’eccezione. Le peripezie ripresero, ancor più accresciute, con le due ultime fatiche teatrali del compositore: l’ambizioso, smisurato e per molti versi irrisolto progetto di musicare Guerra e pace di Tolstoi, lavoro che lo tenne impegnato quasi fino alla morte (ancora nel ’52 era intento a rivedere e rifare la partitura), non ebbe il conforto di una verifica in teatro (vi apparve soltanto nel ’55 a Leningrado, dopo la famosa, benché incompleta, «prima» al Maggio Musicale Fiorentino del 1953); mentre l’ultima opera, La storia di un vero uomo, composta nel 1947-48, non andò oltre una tumultuosa anteprima. E ciò nonostante l’autorità raggiunta da un artista considerato ormai, e non da breve tempo, fra i massimi del secolo.
Non però evidentemente in patria. Ritornato in Unione Sovietica nell’aprile 1933, accolto con entusiasmo dagli amici di un tempo, con circospezione dai nuovi padroni, Prokofiev trovò una situazione politica e artistica molto complessa. Da un lato si consumavano, in modo confuso e contraddittorio, i residui di un magnifico impulso di rinnovamento, bruciato sulle ceneri della disfatta delle avanguardie; dall’altro dilagava un apparato burocratico soffocante e sempre meno disposto, anche in arte, a scendere a patti con i trasgressori. Le composizioni che seguono immediatamente questo ritorno (le musiche per il film Il luogotenente Kize, le musiche di scena per Le notti egiziane di Tairov, il Secondo Concerto per violino, i Dodici pezzi facili per pianoforte, i Sei canti popolari op. 66) sono il frutto del tentativo da parte di Prokofiev di comprendere la nuova situazione e di adattarcisi, mirando anzitutto a rivitalizzare in modo personale i dettami del cosiddetto realismo socialista. Un articolo apparso sulle «Izvéstia» il 16 novembre 1934 è a questo proposito illuminante, anche come dichiarazione di principi artistici: «Il compositore deve tener conto che nell’Unione Sovietica la musica si rivolge a milioni di persone che in passato se ne curavano poco o nulla. È questo pubblico di massa che il nuovo compositore deve sforzarsi di raggiungere. Io credo che il tipo di musica necessario sia quello che definirei leggero-serio e serio-leggero. Non è facile scoprire il linguaggio adatto: in primo luogo dev’essere melodioso, e la melodia dev’essere chiara e semplice, ma non comune e triviale. Molti trovano abbastanza difficile inventare una melodia, per non parlare di una melodia con un preciso significato. Il medesimo ragionamento si applica alla tecnica: anche la forma dev’essere chiara e semplice, ma non stereotipata. Non ci serve la vecchia semplicità, ma un nuovo tipo di semplicità. E questa si può raggiungere soltanto quando il musicista padroneggia l’arte di comporre musica seria e significativa, conquistando così la tecnica per esprimersi in termini semplici e tuttavia originali».
Solo pochi mesi dopo, nel gennaio 1936, un durissimo fondo della «Pravda», organo ufficiale del partito, significativamente intitolato Caos anziché musica, tagliava in modo drastico i nodi di una possibile discussione, prendendo esplicitamente posizione contro i musicisti «formalisti» e «modernisti», «innovatori piccolo-borghesi e antipopolari». La condanna, originata come è noto dalla Lady Macbeth del distretto di Mszensk di Sciostakovic, non coinvolgeva per adesso Prokofiev; ma egli dovette rendersi conto che un compromesso intelligente, come quello da lui tentato in termini non conformisti, sarebbe stato assai difficile. Pur non disposto a tradire se stesso, Prokofiev decise di fare ulteriori concessioni, per dimostrare almeno la sua buona volontà e il suo autentico amor patrio; non comprendendo, o fingendo di non comprendere, che queste concessioni mai si sarebbero sintonizzate sulla medesima lunghezza d’onda dei censori. Si situa appunto all’apice di questa svolta, che vide la nascita di capolavori diversi come la favola sinfonica per bambini Pierino e il lupo (1936), il balletto Romeo e Giulietta (1935-36) e la colonna sonora per 1′Alexander Nevski di Eisenstein, la composizione del Semion Kotko, ricavata da un romanzo di Valentin Kataev emblematicamente intitolato Io, figlio del popolo lavoratore: programmaticamente, un’opera «sovietica», eroica e popolare. Al di là dei contenuti intrinseci e del valore specifico, assai disuguale, di questa partitura, quel che contò fu che essa non ebbe accoglienze favorevoli, prima ancora che per le scelte musicali — troppo moderniste e «carenti in fatto di melodia e di varietà espressiva» — per il modo in cui Prokofiev aveva trattato il tema patriottico: cercando cioé di non cadere nella retorica della celebrazione e mirando invece a comporre un’opera piena di vita, attuale nel soggetto e accessibile nel linguaggio, ma non piatta e volgare. Invano ne aveva spiegato le ragioni, in pari tempo ribadendo i cardini della sua poetica anche alla luce delle nuove condizioni: «Per quanto sarebbe stato più vantaggioso sotto l’angolo del successo immediato imbottire l’opera con melodie dal profilo familiare, ho preferito usare materiale nuovo e scrivere nuove melodie dal nuovo disegno nel maggior numero possibile. Una nuova vita, nuovi soggetti richiedono nuove forme d’espressione e l’ascoltatore non si lamenterà se ha dovuto compiere un piccolo sforzo per afferrarle».
Il fallimento di questo estremo tentativo provocò, come detto, una brusca sterzata, il cui risultato fu un nuovo lavoro per il teatro scaturito da tutt’altre aspirazioni e intenzioni. Già altra volta, in un momento delicato della sua esistenza, Prokofiev si era rivolto a un soggetto non russo e lontano dall’attualità, a metà strada tra favola e realtà. Se allora si era trattato di sfondare al più presto in un territorio straniero (ma la scelta e il riadattamento dell’Amore delle tre melarance di Gozzi gli erano stati suggeriti prima della partenza dalla Russia dall’amico Mejerhold), ora si trattava di recuperare il terreno perduto sospendendo i termini di una polemica fastidiosa: in un certo senso aggirando l’ostacolo e affrontandolo da tutt’altra prospettiva.
Fosse che la scelta, in sé curiosa, di una commedia del tardo Settecento inglese – The Dueña (La governante) del drammaturgo irlandese Richard Brinsley Sheridan (1751-1816), per l’occasione ribattezzata Matrimonio al convento (ma occorre aggiungere che il titolo originale russo è Fidanzamento al convento) – venisse ispirata a Prokofiev dalla sua compagna (e di lì a poco sua seconda moglie) Mira Mendelssohn, come ella ci assicura; fosse che invece nascesse dal compositore stesso, anglista appassionato, nelle cui mani il testo inglese era capitato per caso nel 1940, affascinandolo per «il sottile humour, il delizioso lirismo, l’acuta precisione dei caratteri dei personaggi, la dinamica dell’azione, così avvincente e ben costruita che in nessun momento l’interesse viene meno e il suo procedere è atteso con impazienza», come egli dichiarò in una nota del ’43, certo è che il soggetto si prestava meravigliosamente a essere sviluppato in forma operistica, e ancor più in una forma operistica composita, a Prokofiev intimamente congeniale. E ciò per diversi motivi. La commedia di Sheridan è infatti «un perfetto esemplare di teatro di costume, garbatamente ironico nei confronti di un mondo ormai mitico» (Rubens Tedeschi); mitico, aggiungeremo noi, anche nei riguardi degli stilemi e delle convenzioni dell’opera settecentesca, del cui spirito e delle cui forme la commedia è pervasa pur tendendo, ironicamente appunto, al distacco, al non coinvolgimento emotivo. Ora, questi spunti, accortamente ripresi ed elaborati, si innestavano alla perfezione sui cardini dell’estetica teatrale di Prokofiev, fornendogli il pretesto per esaltare, rispetto al forte impegno («aristocratico» o «popolare») delle opere di ispirazione russa, caratteri in lui innati: il gusto del giuoco disincantato, in equilibrio fra serietà e parodia, il rigore di un ordine formale chiaro e prestabilito, la tendenza all’invenzione melodica pura, all’idea musicale sorgiva e autosufficiente, in una mescolanza tipicissima di vena lirica, sarcastica e grottesca; e ancora: vi era la possibilità, che il testo di Sheridan offriva in abbondanza, di creare ed esaurire musicalmente (nell’unità di componenti musicali assolute) situazioni sceniche già di per sé destinate alla musica, come canzoni, danze, pantomime, mascherate, travestimenti, serenate e cori. Nel settecentesco, classico girotondo delle coppie smaniose d’amore, farcito di equivoci e intrighi, costellato di inganni fittizi e di gioiosi disinganni, sapientemente guidato dalla mano esterna di un provocatore (una matura governante desiderosa di accasarsi, la duena del titolo originale), fino al tradizionale, immancabile lieto fine, Prokofiev aveva modo di ripensare modernamente tutto un mondo passato, irreale, teatralmente simulato e deformato, e di far rivivere, per così dire dall’interno, la storia dell’opera, prendendo a modello gli esempi della sua età dell’oro, accettandone, ma non passivamente, regole e schemi: quelle regole e quegli schemi a cui egli, musicista del Novecento, aveva sempre guardato con disincanto, ma non senza subire il possente richiamo dei piaceri «puri» dati da una fantasia musicale liberata, lanciata a briglia sciolta nei meccanismi «impuri» dell’invenzione teatrale. «È frizzante come champagne; si potrebbe farne un’opera nello stile di Mozart o di Rossini», narra la Mendelssohn ch’egli esclamasse dopo aver letto la commedia di Sheridan.
Nella quale particolarmente accattivante dovette sembrargli anche l’ambientazione spagnola: la Siviglia poetica e letteraria, anch’essa mitica, cara all’immagine operistica. Non la Siviglia assolata e rovente della Carmen, ma quella notturna e inquieta del Don Giovanni, fusa con quella animata e vivace, giocondamente seria, di Beaumarchais, Da Ponte, e naturalmente Mozart e Rossini; la Spagna, insomma, esotica e’teatralissima del Settecento, che tanto aveva fatto innamorare di sé gli artisti e i musicisti europei, anche nell’Ottocento: dai compositori delle scuole nazionali, massime di quella russa (i Dargomiski, i Glinka, i Rimski-Korsakov antenati di Prokofiev), fino ai più severi rappresentanti della cultura e della musica tedesca: sì che un musicista come Wolf scrisse la sua unica opera teatrale – Der Corregidor – su un soggetto spagnolo, per molti versi di intonazione simile a quella del Matrimonio al convento. Vi era poi, su tutti, un modello ancor più diretto, sia per l’intreccio, quasi identico, sia per il carattere, lirico e comico nello stesso tempo, nel quale esso era stato svolto: Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, ricavato da una commedia inglese pressoché coeva di quella di Sheridan. E Cimarosa, nel suo pur breve soggiorno a Pietroburgo, aveva lasciato sedimenti profondi nella cultura russa.
Ma, come si è accennato, nella scelta della Duel1a un terzo elemento si era imposto a Prokofiev con attrattiva irresistibile: ossia che quel testo teatrale contenesse in sé spunti, caratteri, situazioni, momenti eminentemente musicali, i quali cioè richiedevano e contenevano già la musica. Rimandando, per quel che concerne i rapporti fra la commedia di Sheridan e l’opera di Prokofiev, all’articolo di Giulio De Angelis pubblicato sul «Numero unico» del Maggio, basterà qui ricordare come quella sia formata di parti dialogate per buona parte integrate da musiche di scena, composte, per la prima londinese del 1775, dal suocero e dal cognato di Sheridan, Thomas Linley senior e Thomas Linley junior: costituite, queste ultime, da brani musicali solistici, da duetti, terzetti, pezzi d’assieme e cori, ora nello stile popolareggiante dei songs, ora in quello più elevato delle arie (o degli insiemi) propriamente detti. Prokofiev, coadiuvato nella stesura del libretto da Mira Mendelssohn (alla quale furono affidate le parti più propriamente poetiche, come i couplets in versi), seguì abbastanza fedelmente la traccia di Sheridan ma ne adattò lo svolgimento ai propri fini: che erano quelli, da lui stesso denunciati, di sfruttare le possibilità offerte da Sheridan per «introdurre tutta una serie di pezzi chiusi, in sé compiuti – serenate, ariette, duetti, quartetti e più grandi pezzi d’assieme – , senza arrestare mai il corso dell’azione». Ne risultò dunque non semplicemente un’opera a pezzi chiusi, come quelle della tradizione, bensì una commedia musicale fatta di scene in sé compiute che si succedono senza interruzione, sostenute e legate da un tessuto orchestrale sempre denso, spesso tendente a emergere per porsi in primo piano in episodi musicali, sinfonici o «da camera», autosufficienti.
Ciò comportò naturalmente una reinvenzione pressoché totale della struttura teatrale. Se i personaggi principali rimasero inalterati in quanto «tipi» convenzionali, funzioni prestabilite di un’azione sagacemente congegnata e articolata (giovandosi però, grazie all’intervento della musica, di più penetranti e individuali caratterizzazioni), altri se ne aggiunsero per definire scene secondarie ma non inessenziali al meccanismo drammatico-musicale: i tre monaci beoni, dai nomi significativi di frate Elixir, frate Chartreuse e frate Bénédectine, che animano la spassosa scena del convento (primo quadro dell’ultimo atto); le due cameriere Lauretta e Rosina, nomi anch’essi pieni di richiami alla tradizione operistica, che danno modo alle protagoniste femminili di risaltare in parti liriche (scene, arie e ariosi) costruite secondo la tecnica tradizionale ma non statiche; le due figure mute dei suonatori di trombetta e grancassa che collaborano con Don Gerolamo nella concertazione di un Minuetto caricaturale (e questo — secondo del terzo atto — è un quadro di grande rilievo nel contesto dell’opera). Così come furono aggiunte alcune fulminee battute ironiche o ammiccanti (ahimé andate perdute nella pur bellissima traduzione italiana di Flavio Testi, usata anche per la presente edizione), senza dubbio frutto della sofisticata eleganza della Mendelssohn, fine letterata; e variate certe connotazioni, anche fondamentali, di alcuni personaggi (la più importante delle quali è la trasformazione di Mendoza – Isacco, in Sheridan – da «schifoso ebreo» a semplice mercante di pesce: ripugnando a Prokofiev, anche nella finzione, ogni forma di antisemitismo). E tutto questo per scopi, prima ancora che drammaturgici, specificamente musicali: tali cioè da consentire alla musica di espandersi seguendo il suo corso e il suo respiro naturale e di guidare dall’interno, unitariamente, il succedersi dell’azione.
A ragioni di economia musicale vanno dunque ascritte le non marginali diversità, così puntualmente analizzate dal De Angelis, del libretto rispetto alla commedia originale. Che nell’opera, per esempio, la dueña figuri non come protagonista dell’intreccio ma come figura di sfondo e quasi deus ex machina della vicenda – per intendersi assai più un Don Alfonso che non un Figaro -, nasce dal fatto che la costruzione drammaturgica tende a privilegiare, sfruttando le simmetrie speculari fra le coppie di innamorati già presenti in Sheridan, i rapporti musicali fra di esse, fino al culmine finale, dove le maschere cadono, della scena del finto matrimonio al convento; e ciò spiegherebbe, assai più dei motivi addotti dall’autore — secondo il quale La Dueña non avrebbe suonato bene in russo — la ragione del cambiamento del titolo: non La Dueña appunto, bensì Matrimonio al convento. (O meglio fidanzamento, per ora; dato che quello fantomaticamente celebrato in convento e che scioglie lietamente la trama non è certo un vero matrimonio con i crismi della legalità: e alla legalità Prokofiev ci credeva, persino nell’intitolare le sue opere). Un’altra figura, per converso, risalta, sia nell’azione che nella musica, assai più che in Sheridan: quella di Don Carlo, nobile decaduto amico del nobile-ricco Don Gerolamo, vero rappresentante della vecchia società e di un mondo tramontato: personaggio al quale Prokofiev conferisce tratti di un’affettuosa, tenera comicità (si veda il duetto con Luisa che apre il terzo atto). Egli è l’unico che non si lasci prendere dalla follia del denaro e dell’amore – i vecchi avidi e libertini da un lato, i giovani ardenti e spensierati dall’altro – e che stia quasi a sé, su uno sfondo crepuscolare un po’ patetico e un po’ nostalgico, ridicolo e serio nello stesso tempo. Anche in questo caso è riaffermata quella priorità definitiva del ruolo della musica, mezzo non soltanto di ininterrotto svolgimento drammatico ma anche di introspezione psicologica, che è attributo essenziale dell’opera.
A una maggiore evidenziazione drammatica concorrono in primo luogo la condensazione della trama e la concentrazione del libretto in situazioni sceniche musicalmente determinate. L’opera, suddivisa in quattro atti e nove quadri, rispetta rigorosamente le unità di tempo, luogo e azione: la vicenda si svolge a Siviglia, fra interni ed esterni, e scorre veloce da una sera all’altra, ravvivata da un carnevale notturno, dal giuoco delle mascherate e degli equivoci, per concludersi con un grandioso banchetto in casa di Don Gerolamo che sancisce, fra brindisi e balli, il lieto fine: passando prima, per la svolta decisiva, entro le mura di un convento abbandonato dove fratelli e monaci dissoluti celebrano rumorosamente gioie tutt’altro che spirituali. La scorrevolezza e il brio dell’intreccio sono assicurati in secondo luogo dal rivestimento musicale: fin dall’inizio, dopo la rapida Introduzione che annuncia alcuni dei temi principali dell’opera, Prokofiev, a differenza di Sheridan, ci trasporta in medias res, con un duetto nel quale Don Gerolamo, padre di Ferdinando e Luisa, e Mendoza, avido mercante di pesce interessato alla ragazza, suggellano il patto d’amicizia e d’affari con una promessa di matrimonio. Sul prolungamento del duetto si ha la prima presentazione di questi due personaggi (una canzonetta nella quale Don Gerolamo espone le sue apprensioni di padre diverrà nel corso dell’opera il suo Leitmotiv), e indirettamente anche di Luisa, le cui virtù, comicamente enumerate dal padre fra le esclamazioni di stupore del maturo pretendente, sono buffamente paragonate a quelle taumaturgiche del pesce. Ecco poi entrare Ferdinando e Lopez (il padrone con il suo servo, stilema tipico della tradizione operistica); costui ama, riamato, Clara, amica di Luisa, ma l’ha offesa con la sua audacia intemerata, penetrando nottetempo nella sua camera. Quasi senza che ci se ne accorga, il quadro è dipinto, l’atmosfera creata, i personaggi delineati e caratterizzati dalla musica. Nella seconda parte dell’atto la temperatura espressiva sale notevolmente, dapprima con la serenata di Antonio (innamorato di Luisa, ma inviso al padre di lei), poi con il breve, tenero duetto dei due amanti, infine con la già ricordata scena del carnevale notturno: un balletto di maschere che dà vita a un vasto intermezzo orchestrale di sapore orientaleggiante, il quale, inserito nello svolgimento dell’azione, la risolve e conclude in una specie di pantomima accompagnata dalla musica, di spessore prima sinfonico, poi tenuemente cameristico (l’attonito canto di tre violoncelli soli sulla scena). Dopo essersi connessa con l’azione e con il canto, dunque, è alla musica che alla fine dell’atto spetta di riassumere ed esaurire, sospendendola ma non interrompendola, la trama.
L’ampio secondo atto, che consta di tre quadri, innesca e aggroviglia l’intreccio dei travestimenti. In breve: la governante Margherita, che mira con l’inganno ad accasarsi con il ricco e ridicolo Mendoza, prenderà il posto di Luisa, mentre Luisa, fuggita di casa per raggiungere Antonio, si fingerà Clara. L’azione, come è ovvio, si fa più serrata, ricca di colpi di scena, ora indulgendo a sottolineature comiche suggerite dalla situazione (come nel battibecco grottesco-caricaturale fra Don Gerolamo e la dueña), ora effondendosi in espansioni liriche, trepida eco degli intimi turbamenti degli innamorati. Ma non mancano gli inserti nei quali la musica torni a svolgere un ruolo preminente: il variopinto coro delle pescivendole che apre e chiude il terzo quadro (è questa una invenzione di Prokofiev, che manca in Sheridan), il canto arioso e sognante («Andantino») di Clara, amante assai più ingenua e sentimentale di Luisa, il canto nostalgico e commosso del vecchio nobile Don Carlo, il quale da vero gentiluomo sposa, senza saperlo, la causa dei giovani, inconsciamente della giovinezza da lui perduta sentendo acuto il richiamo e il ricordo. Culmine dell’atto è la scena esilarante degli equivoci fra Mendoza, venuto in casa dell’amico per conoscere la futura moglie, e la governante, che si è sostituita a Luisa. Per conquistare Mendoza, che immaginandosi tutt’altra merce non sa nascondere le sue perplessità, la governante intona in suo onore una faceta canzone piena di doppi sensi, parodia di un song di Sheridan (ed è un altro inserto chiuso efficacissimo, in tono con l’ambigua situazione). In questa scena la caricatura del melodramma tradizionale si fa più evidente allorché i due decidono di fuggire romanticamente insieme, per coronare con qualche brivido il loro sogno d’amore; ma è niente di più che un fugace accenno, un sottinteso tanto mite quanto sorridente.
Atto terzo. Tre quadri, anche qui. L’arco drammatico, senza tuttavia interrompersi, per così dire indugia in preziosi, virtuosistici arabeschi, presentando una successione di scene nelle quali il peso specifico della musica, ora più che mai mezzo di costruzione formale, è considerevolmente accentuato. E non è un caso che proprio qui Prokofiev raggiunga il massimo quanto a originalità e individualità compositiva. Il primo quadro, suddiviso in cinque scene, è un modello di proporzione e di perfezione: simmetricamente aperto e chiuso dalle forme in sé compiute di un Duetto e di un Quartetto, esso culmina in una scena in tutto degna del più fantastico, geniale Prokofiev. Mendoza ha condotto nel suo appartamento Antonio per fargli incontrare la bella Clara d’Almanza che si dichiara di lui innamorata; costei altri non è se non Luisa, travestita, come sappiamo. da Clara. I1 giovane, che non sa del travestimento e non vorrebbe tradire l’amico, seppur riluttante accetta di appartarsi con lei. Ed è a questo punto che inizia la scena centrale: Mendoza e Don Carlo spiano dal buco della serratura gli approcci amorosi dei due, commentandoli a mezza voce con stupefatte interiezioni, magistralmente contrappuntate dalla musica, che par quasi voler rappresentare ciò che accade dietro la scena. È questo senza dubbio un momento di grande teatro, visionario e quasi surreale, sia per la situazione davvero bizzarra, sia per il modo in cui essa viene descritta: con una lucidità, una oggettività e una ricchezza di sfumature straordinaria, tale da velare ineffabilmente di mistero la innegabile comicità del momento. Mendoza, evidentemente eccitato, accoglie il felice ritorno dei due innamorati dalla stanza manifestando a sua volta con risolutezza i propri propositi amorosi: anch’egli saprà farsi valere, conquistando la sua bella grazie a un rapimento pronubo di in-dicibili delizie. È il tramonto. Il lirismo un po’ affettato del maturo sognatore si depura a poco a poco nel Quartetto, che ricapitola i sentimenti in giuoco come in un concertato classico.
I1 quadro seguente, sesto dell’opera, è racchiuso omogeneamente nella forma musicale di un Minuetto, alla cui concertazione stanno attendendo Don Gerolamo con un amico e un servo. È un Minuetto assai strano, pomposo e sfigurato, scritto per un organico insolito: clarinetto (strumento del quale Don Gerolamo si vanta gran virtuoso), cornetta e grancassa. La stranita comicità della scena sta tutta nel contrasto fra la gioconda serietà della prova diretta da Don Gerolamo e le importune interruzioni provocate dall’arrivo delle patetiche lettere di Mendoza e di Luisa, entrambi pentiti e in ansia per i possibili effetti dei loro atti; Don Gerolamo, il quale impaziente com’è di terminare la concertazione del pezzo da lui scelto per le nozze imminenti non si rende conto dell’equivoco, risponde accordando salomonicamente a tutti il suo perdono. Il settimo quadro, integralmente soppresso in questa edizione, ricalca invece moduli più convenzionali: da un lato la disperazione di Clara, giunta al convento per farsi monaca, dall’altro l’ira di Ferdinando, che si crede tradito dall’amico e dall’amata. Anche qui predominano le forme chiuse e in modo particolare le effusioni liriche (il fluente duetto fra Antonio e Luisa, musicalmente ripreso da quello del primo atto; il grande Arioso di Clara, innalzata suo malgrado al rango di eroina tragica, da melodramma), inframezzate da momenti più discorsivi e movimentati (l’impetuosa gelosia di Ferdinando, deciso a farsi giustizia in duello).
Il quarto e ultimo atto scioglie i nodi della vicenda, rimettendo tutte le cose al loro giusto posto: i giovani si uniranno secondo i loro desideri, mentre Mendoza finirà per scoprire troppo tardi la beffa e ritrovarsi scornato e maritato con la vecchia governante. Lo stesso Don Gerolamo, facendo buon viso a cattivo giuoco, accetterà il fatto compiuto, più che altro preoccupato di far bella figura con la sua festa e il suo Minuetto. Un’ombra di bonaria ironia fa capolino in questo disincantato abbandono al giocoso meccanismo a incastri della favola, dove «tutto ha lieto fine», come cantano in coro, fra il sonante tintinnare dei bicchieri, i partecipanti alla splendida festa finale. E ironia, assai più che vera e propria caricatura, si ritrova anche nella sfarzosa messinscena del quadro al convento, pagina intrisa di echi mussorgskiani, di melodie e ritmi della più autentica tradizione russa: nell’allegro brindisi dei monaci, nello strascicato salmo penitenziale da questi recitato controvoglia (colitrappunto vigoroso nel quadro d’insieme), nel comico prestarsi all’inganno, essi stessi ingannati più che ingannatori, nelle rituali, ridicole chiose moraleggianti che gravemente essi aggiungono a sancire le «fortunate unioni». In queste scene conclusive la piena della musica scorre inarrestabile, come in un pirotecnico carosello finale che raggiunge l’acme durante il banchetto, allorché si ripresentano, a mo’ di ricapitolazione, tutti i motivi musicali più importanti dell’opera, con il Minuetto, ora sorpreso mentre risuona fuori scena, in testa. La capacità inventiva e le formidabili doti di orchestratore di Prokofiev, qui profuse a piene mani, ci abbagliano, lasciandoci storditi; senza però farci dimenticare l’equilibrio di un magistero compositivo in grado di spaziare all’interno del linguaggio musicale più eterogeneo con proprio, inconfondibile stile.
In una nota scritta per il «Sovinform bureau» il 26 marzo 1943, Prokofiev dichiarò: «Quando decisi di comporre un’opera sul soggetto della Dueña avevo dinanzi a me due possibili strade: sottolineare il lato comico dell’opera oppure quello lirico. Ho scelto la seconda soluzione». In realtà già nella elaborazione del libretto i due caratteri coesistono: Matrimonio al convento è infatti un’opera lirico-comica. E ciò vale anche per la musica. Nessun dubbio che l’aspetto lirico sia preminente, per quanto il lirismo di Prokofiev, fatta eccezione per alcuni momenti di aperta sospensione, è piuttosto un ininterrotto susseguirsi di brevi idee melodiche che sorreggono il corso dinamico dell’azione (e vedemmo già come il proposito di non arrestare mai l’azione fosse il primo postulato dell’opera, insieme con quello, altrettanto fondamentale, di fare della melodia il motore primo della composizione); ma il lato comico è anch’esso presente in modo massiccio nella partitura, e non soltanto come sviluppo della comicità intrinseca al soggetto. Essa abbonda infatti di sottolineature comiche, di spunti musicali grotteschi e caricaturali, tanto più efficaci in quanto presi di sfuggita, con distacco e ironia appena accennata, mai insistita. Il secondo quadro del terzo atto (la movimentata scena del Minuetto in casa di Don Gerolamo), ne offre mirabile esempio, con il suo scintillante intrecciarsi di effetti contrastanti di comicità e lirismo. I quali termini, nei momenti migliori dell’opera, sono brillantemente fusi in uno stile di conversazione musicale scorrevole e brioso, composito ed elegante, che si giova in forte misura del continuo alternarsi di recitativi, declamati e brevi parti parlate a sezioni chiuse melodicamente espanse, per lo più caratterizzate da ampi, tensivi intervalli.
La vivacità ritmica, che scandisce il dipanarsi dell’azione, è un altro degli elementi basilari della costruzione musicale. Senza indulgere a quegli eccessi «motorii», «urbanistici», ferreamente implacabili, che talvolta appesantiscono le sue creazioni pianistiche e sinfoniche, Prokofiev costruisce qui un ritmo interno alla musica, un sostegno vitale per la sua impalcatura, elastico e intimamente aderente alle figure melodiche — cellule, incisi o intere frasi — che si ergono a definire una scena, un personaggio, una situazione; e così facendo riduce a unità la stessa multiforme varietà degli elementi compositivi. Armonicamente, siamo nei limiti di una moderata modernità. Spesso intere scene ruotano intorno a un’unica sfera tonale, esaurendone l’ambito senza rinunciare ad affermare con chiare cadenze la tonalità d’impianto; per poi passare, nel modo più naturale richiesto dalle esigenze sceniche, ad altre regioni tonali. Gli stessi bruschi scarti armonici, ove si verifichino, come pure la maggiore incidenza del cromatismo o la complessità delle stratificazioni tonali e politonali, sono giustificati dalla situazione teatrale, ma non da essa predeterminati: giacché la realizzazione sonora, e ciò vale anche per la scelta strumentale e per l’insieme vocale-orchestrale che ne deriva, è sempre il prodotto di una trovata musicale, al fine di illustrare e precisare quel dato momento dell’azione o quello stato d’animo del personaggio.
In altri termini, Prokofiev mostra di credere ancora nelle possibilità espressive di un linguaggio che, pur ampliato e liberamente ricreato, mantiene solide basi nella tradizione: e di questa cerca di recuperare, rinnovandoli, gli elementi fondamentali. Non è forse un caso che questa operazione, il cui risultato non è l’eterogeneità stilistica ma la personale reinvenzione di strutture significanti, abbia trovato lo spazio vitale per esplicarsi pienamente proprio nell’opera lirica; non nelle sue convenzioni, argutamente, all’occorrenza, prese in giro; non nelle sue forme statiche, stereotipate o melodrammatiche; bensì nella fedeltà all’essenza del teatro musicale, alle sue leggi eterne, al delicato equilibrio dei suoi fattori, in funzione dell’unità e dell’economia dell’organismo vivente creato con tutti i mezzi che l’esperienza – quella coscienza della contemporaneità che l’artista moderno deve avere di fronte al proprio linguaggio e alla propria epoca – metteva a disposizione del musicista. In questo senso Matrimonio al convento è una vetta nella produzione di Prokofiev, superiore per compattezza persino alla favola dell’Amore delle tre melarance, dove pure l’invenzione puramente musicale, la prepotenza delle idee musicali sorgive e icasticamente scolpite erano maggiori; e ben rappresenta, all’ultimo e più maturo stadio, un aspetto caratteristico della sua personalità creativa, quel Iato tendente a ricomporre fantasticamente in bella, superiore unità le tremende lacerazioni esistenziali e artistiche che per esempio un’opera come L’angelo di fuoco aveva, con acuta, tragica coscienza, manifestato. Ogni musicista del Novecento storico, a ben pensarci, sembra avere due anime: una potenzialmente costruttiva – «comica» – , l’altra potenzialmente distruttiva – tragica – . Sono, questi, tratti ricorrenti nell’arte del nostro secolo; e vien da credere che soltanto rinunciando all’una delle due in favore dell’altra fosse possibile giungere a qualcosa di definitivo, di veramente compiuto. Impossibile appare, anzitutto sul piano linguistico, la riconciliazione finale, la riconquista dell’identità, l’utopia della totalità, umana e artistica. Quei musicisti che ci si provarono, non possedendo la cinica spregiudicatezza di uno Stravinsky, furono destinati al fallimento: così Puccini, Busoni, Hindemith, Schönberg, Berg e tanti altri minori. Anche Prokofiev volle provarsi, con l’opera che, nelle circostanze in cui egli si trovava ad agire, di tutta la sua carriera avrebbe dovuto rappresentare la summa, già nel titolo eloquente: Guerra e pace. Inutile esorcismo, nella realtà se non di fatto incompiuto, di sogni angosciosi, vissuti esistenzialmente in prima persona e dunque, nella condizione dell’artista novecentesco, inattuali e inattuabili.
Giuseppe Montanari / Orchestra Coro e Corpo di Ballo del Maggio Musicale Fiorentino
45° Maggio Musicale Fiorentino