A metà tra sinfonia, concerto e grande sonata
“”Quanto al concerto, ti ho già detto che si tratta di un qualcosa a metà tra sinfonia, concerto e grande sonata. Mi rendo conto che non posso scrivere un concerto da ‘virtuoso’ e che devo mirare a qualcos’altro””. Questo brano di una lettera del 1839 a Clara Wieck testimonia quali fossero le intenzioni del compositore nei riguardi di un’idea (un “”grande”” concerto per pianoforte e orchestra) che già da qualche tempo lo attraeva. Pur giunto alla sua piena maturità, dopo prove sensazionali nel trattamento del pianoforte, Schumann esitò a lungo prima di dare corso al suo progetto; tanto che per scrivere quello che sarebbe diventato uno dei più celebri concerti di tutto l’Ottocento gli sarebbero occorsi ben cinque anni: dal 1841, cui risale il primo movimento, al 1845, per il secondo e il terzo.
Il Concerto in la minore è una delle opere più dense di Schumann, il tentativo più ardito di fondere in una singola composizione tutte le suggestioni e le ansie espressive che lo assillavano di fronte a una creazione di vaste proporzioni, costretta a confrontarsi con la tradizione classica. Più che proseguire quella tradizione, però, si avverte la volontà di superarla e di trascenderla, in una immaginazione che non si impone limiti ben definiti. La caratteristica di ‘unicum’ che il Concerto riveste nella letteratura del suo genere è programmatica, e deriva in gran parte proprio da questo accavallarsi di intenzioni che ne permea la struttura e ne esaspera le tensioni, quasi evitando la risoluzione formale. E d’altro canto recensendo nel 1839 il Concerto op. 40 di Mendelssohn sulla “”Neue Zeitschrift für Musik”” Schumann aveva scritto: “”Dobbiamo aspettare di buon grado il genio che ci mostri in modo brillante come si possa unire l’orchestra al pianoforte””, sottintendendo qualcosa di diverso dai modelli della tradizione. Lo avrebbe dimostrato lui stesso. La scrittura pianistica del Concerto, per esempio, che in un virtuosismo ad alta definizione amplifica le possibilità tecniche ed espressive già inventate e utilizzate prima, tende ad accentrare su di sé il peso del dialogo con l’orchestra, e se mai a distenderlo per converso in rarefatti equilibri, nello spirito di una feconda, reciproca libertà. D’altra parte, tutto il Concerto è anche dominato da un calore che ci rimanda allo stile dello Schumann più estroverso, in un impeto appassionato che si dispone, in sbalzi vertiginosi di umori, su una vasta gamma di gradazioni e che non è certo alieno da svagati ripiegamenti e da sospensioni poetiche.
Il primo movimento, Allegro affettuoso, si apre, dopo la strappata di tutta l’orchestra, con una scrosciante cascata di accordi del pianoforte solo, un gesto imperioso che sembra volere concentrare su di sé il carico di una brillante presentazione. Ma non è sulla via del contrappunto tra pianoforte e orchestra che si svilupperà il percorso del Concerto. Anche sul piano formale il secondo tema deriva dal primo e ne è per così dire uno svolgimento governato dalla dialettica fra modo minore e relativo maggiore. Questo monotematismo latente impedisce una vera e propria sezione centrale di sviluppo basata sul contrasto, e tende invece a configurare, in un gioco di mutamenti e di scambi fra solista e orchestra, un processo di elaborazione simile a quello delle variazioni. Nel bel mezzo di questo processo s’inserisce una sorta di ‘intermezzo’ in tempo Andante espressivo e nella tonalità di la bemolle maggiore, nel quale si innesta il dialogo fra pianoforte e orchestra, particolarmente con i due flauti e il clarinetto; generalmente il pianoforte accompagna l’arco melodico con arpeggi, secondo una tecnica che conferisce all’insieme una continua mutevolezza di armonie e di colori. Bruscamente le ottave del solista riportano al tempo e alla tonalità iniziali, cui seguono la ripresa (Più animato, passionato), una estesa cadenza interamente scritta, e una coda (Allegro molto) nuovamente basata sull’idea primaria. L’Intermezzo, Andantino grazioso in fa maggiore, è avvolto in un’atmosfera di delicata intimità, in cui il pianoforte si sprofonda dialogando sommessamente con l’orchestra. Quando dai violoncelli si innalza un canto spiegato che a poco a poco si propaga a tutta l’orchestra, il pianoforte da solo si sottrae a questa nuova idea tematica, quasi proseguendo a parte un suo corso di pensieri. Ed è proprio il pianoforte che conduce, attraverso un passaggio di straordinaria successione armonica e timbrica, all’ultimo tempo, Allegro vivace, che presenta un materiale tematico affine a quello del primo. Qui viene però presentato un secondo soggetto distinto, e una grande varietà ritmica lo contraddistingue nei suoi sviluppi. Ancora audaci figure del pianoforte concludono il Concerto, che nella coda finale può ora slanciarsi liberamente a toccare traguardi schiettamente virtuosistici, assecondato dall’orchestra.
Il Concerto fu eseguito per la prima volta da Clara Wieck a Dresda il 4 dicembre 1845 sotto la direzione di Ferdinand Hiller.
Zubin Mehta / Maurizio Pollini
63° Maggio Musicale Fiorentino