Leoš Janàček – V mlhàch (“”Nella nebbia””)

L

Paesaggi dell’anima

 

Composto nel 1912 ed eseguito per la prima volta a Brno il 24 gennaio 1914 dalla pianista Marie Dvoràkovà, il ciclo pianistico intitolato  V mlhàch (“”Nella nebbia””) è una delle creazioni più enigmatiche di Janàček. I quattro pezzi che lo compongono non recano titoli esplicativi né contenuti programmatici, come invece accadeva nella precedente raccolta pianistica Sul sentiero erboso, ma sono accomunati, oltre che dalla semplice forma ternaria, da una diffusa atmosfera “”nebbiosa””, sottolineata anche dall’uso pressoché costante di chiavi con cinque e sei bemolli. Essi appartengono al tipo delle “”confessioni intime””, un atteggiamento ricorrente nelle opere di Janàček; senza che tuttavia si possa attibuire ad esso uno stato d’animo preciso o un senso autobiografico. In quest’epoca Janàček attraversava un periodo di depressione, in gran parte dovuto alle difficoltà incontrate dalla sua opera Jenůfa per affermarsi a Praga, e può darsi che abbia inteso proiettare in questi brani un’immagine del proprio mondo interiore, in un ripiegamento analitico fatto di introspezione e di attesa. Nasce di qui l’aspetto enigmatico di queste raffigurazione dense e nervose, la cui fondamentale tetraggine è continuamente scossa da rapidi cambiamenti di umore, da frammentazioni metriche e spezzature armoniche, da volate sospese sul nulla e tuttavia tendenti a far emergere barlumi di canto sotto forma di brevi, insistiti incisi melodici e di contrappunti sghembi, screziati.

Ciò concorre ad allontanare il mondo sonoro di tale raccolta dalle indeterminatezze impressionistiche, a cui pure essa viene sovente accostata. Janàček affermava con forza la sua estraneità all’impressionismo francese, rivendicando di aver proclamato ben prima di Debussy la libertà nel collegamento degli accordi. Ma se sul piano armonico questa differenza riguarda principalmente la logica delle concatenazioni e delle sovrapposizioni, in Janàcek arricchita e sovvertita ma non annullata, e dunque sempre riferita a un centro tonale sottinteso, è sul piano del timbro che le distanze sono più evidenti: il caratteristico stato di mobilità, di inquietudine e di precarietà, reso più acuto da bruschi mutamenti di tempo, ha poco a che fare con le evanescenze, le macchie e le vaporosità dell’impressionismo, e si risolve piuttosto in una sequenza di gesti improvvisi, di aggregati di emozioni, di immagini intermittenti, i cui contorni, sempre limpidi, delineano uno stile secco e stringato, drammatico e perfino realistico, assolutamente non oggettivo. Per quanto sfumati, i profili restano acuminati, sensibili e prominenti, sorretti da un sostrato psicologico da cui filtra il forte richiamo del mondo folclorico, delle voci della natura e del popolo, della volontà contrapposta alla rinuncia, della dolcezza come antidoto all’angoscia: il tutto inframezzato da ombre e luci, in un rapsodico alternarsi di risonanze e vibrazioni che nella nebbia – elemento simbolico più che naturalistico – continuamente si perdono e si riconoscono. E la stessa nebbia, dopo essersi infittita in un espandersi statico di pessimistico disagio, sembra rarefarsi nel Presto conclusivo, che scuote l’immobilità e il gelo e guarda con rinnovato impulso i paesaggi dell’anima.

Radu Lupu
63° Maggio Musicale Fiorentino

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