Bela Bartók – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra

B

Un serrato impulso ritmico in un gesto  espressivo composto ed essenziale

 

Soprattutto nei primi anni della sua carriera internazionale Bartók praticò il pianoforte sia come virtuoso sia come insegnante, avvalendosene spesso anche nella sua opera creativa in funzione solistica. Il binomio compositore-pianista, dopo il sensazionale esordio con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra, tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno da Wilhelm Furtwängler nel 1927, si ripeté pochi anni dopo con un Secondo Concerto, composto tra il 1930 e il 1931 ed eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 sotto la bacchetta di Hans Rosbaud, sempre a Francoforte e sempre con l’autore al pianoforte.

Opera della piena maturità artistica, esso indica un notevole mutamento di rotta rispetto al radicalismo fortemente innovativo del lavoro precedente. Pur se vi permangono alcuni tratti specifici, individuabili nel serrato impulso ritmico che lo percorre da un capo all’altro, nella sicura e audace scrittura polifonica e orchestrale, nella sensibilità timbrica di un pianismo ricco e fantasioso, il gesto espressivo si fa più composto ed essenziale, traendo un ordine unitario dall’equilibrio e dalla spiccata personalità espressiva degli elementi tematici. Anche dal punto di vista formale il profilo si orienta su una maggiore chiarezza e simmetria; la struttura in tre tempi si riverbera qui in un’ulteriore tripartizione del tempo centrale, ma a termini invertiti: due sezioni in tempo “”Adagio”” incorniciano al centro un “”Presto””, con funzioni di scherzo. Nei due tempi esterni, in tempo “”Allegro””, la prospettiva tonale si stabilizza attorno all’asse di sol, mentre la scrittura si arricchisce di frequenti episodi contrappuntistici.

Nel primo movimento l’orchestra è rappresentata dai soli fiati, legni ed ottoni, unitamente alla percussione. L’inizio si presenta tanto agile e mosso quanto denso e complesso. Vengono enunciati dapprima, sovrapposti, due temi: uno ritmico di accordi, al pianoforte; l’altro di fanfara, quasi con carattere di motto, agli ottoni, presto coinvolto in capriccioso sviluppo tra le varie sezioni dei fiati. Dopo un serrato canone a cinque, condotto su un clamoroso sfondo pianistico di veloci semicrome, viene introdotto dal clarinetto un nuovo tema, inarcato su una linea fittamente ondulata, che presto svelerà un pretto carattere ungherese. Su questi elementi e su altri più o meno palesemente da essi dedotti si svolge la fitta e lucente trama di un procedere orchestrale pregnante e concettoso, al quale ora consente, ora si contrappone l’ostinata, altisonante ritmica pianistica. Alla fine, una cadenza del solista porta alla ripresa riassuntiva e semplificativa delle idee svolte, e quindi speditamente alla conclusione franca e calorosa.

Gli archi, che avevano taciuto durante tutto il primo movimento, sono i protagonisti dell’ “”Adagio””, con calcolata preparazione del nuovo clima espressivo. Su un tessuto sonoro vaporoso e freddo, questi svolgono una lunga frase, come di corale; il pianoforte risponde sostenuto da qualche sommesso rullo di timpano: l’alternanza dialogica dei due elementi si diffonde nella atmosfera estatica e rarefatta di una evocazione spettrale, inquieta, che improvvisamente si sospende. Attacca l’episodio centrale, “”Presto””, dominato dal virtuosismo toccatistico del pianoforte: un lieve turbinio di note, commentato da isolate notazioni orchestrali, in un ambiente sonoro fantastico, irreale. Pochi arpeggi evanescenti congiungono questo episodio alla ripresa dell””`Adagio””. Alla fine, dopo un tragico grido del pianoforte, quasi urlo nella notte, sulla persistenza ossessiva di un suono di timpano perduto nello sfondo dei bassi orchestrali gli archi riprendono un’ultima volta il loro tema iniziale. Una breve, dolcissima risposta del pianoforte, e il pezzo si chiude, trasfigurato.

Il terzo movimento, “”Allegro molto””, è avviato dal pianoforte: un arpeggio ascendente, cui segue, tra un fatidico martellare di timpani, il tema principale, aspro e barbarico. La sua vicenda, nell’alternanza con diversi e nuovi episodi, si fa veemente, incalzante, concitata. Il ritorno, in mutata veste ritmica, del tema di fanfara del primo tempo apre la via a una giubilante progressione. L’opera si conclude in un gioioso trasvolare di arpeggi, mentre l’orchestra mantiene la vigorosa scansione.

Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
60° Maggio Musicale Fiorentino

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