Gustav Mahler – Sinfonia n. 3 in re minore

G

Nel mondo del Des Knaben Wunderhorn

 

Per scrivere la Terza sinfonia Mahler impiegò, com’era suo costume di paziente quanto implacabile perfezionista, diverso tempo, quattro interi anni per l’esattezza: tanti quanti ne erano occorsi perché vedesse la luce la Prima sinfonia, portata a termine a Lipsia nel 1888, ma molto meno di quelli necessari alla nascita della Seconda, iniziata ancora a Lipsia nel 1887 e finita durante le vacanze estive a Steinbach sull’Attersee, precisamente il 25 luglio ’94. Proprio a Steinbach, il 6 agosto 1896, Mahler poté scrivere la parola fine sulla partitura della Terza, i cui primi abbozzi, limitatamente ai tempi centrali, risalivano all’estate del 1893; e occorre qui ricordare che egli poteva dedicarsi pienamente alla composizione soltanto nei mesi estivi, durante le vacanze dal suo lavoro principale di direttore d’orchestra e di teatro prima a Lipsia e Budapest, poi ad Amburgo. Durante questo periodo Mahler aveva inoltre composto, accanto al giovanile Das klagende Lied (1880) e a diversi abbozzi di opere teatrali poi ripudiati o andati perduti, soprattutto cicli di Lieder: i Lieder und Gesänge aus der Jugendzeit per voce e pianoforte (1880-83 il primo quaderno, 1892 gli altri due), i Lieder eines fahrenden Gesellen per voce e orchestra (1883-85), oltre alla serie di Lieder su testi tratti da Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), la famosa raccolta di antiche poesie popolari tedesche pubblicata nel 1806 da von Arnim e Brentano e che Mahler conobbe quasi per caso nel 1887 in casa von Weber mentre stava attendendo a dar forma compiuta ai frammenti dell’opera di lui Die drei Pintos.

Mahler cominciò a lavorare alla sua nuova Sinfonia prima che la precedente fosse compiuta e contemporaneamente a una faticosa attività di direttore volta anche a far conoscere direttamente le proprie opere nel frattempo ultimate. Egli sentiva che l’unica speranza di immediata sopravvivenza della sua opera di compositore comportava la necessità di diffondere personalmente le proprie composizioni, e di ciò si lagnava ancora nel 1904, quando pure poteva già contare su un Mengelberg e un Bruno Walter: “”Come sarebbe bello se fossimo già giunti al punto che i direttori d’orchestra avessero compreso lo stile delle mie opere e io potessi intanto andare a passeggio a Heiligenstadt!””. D’altra parte è caratteristica generale per Mahler e in modo particolare per il Mahler del primo periodo (fino alla Quarta compresa) una unitarietà fortemente ricercata e realizzata fra le sue varie composizioni, unitarietà che se su un piano generale significa ricerca sempre più approfondita e interiorizzata all’interno dei contenuti e dei significati della propria arte, su altro piano si colora di ben precise e sostanziali relazioni, citazioni e reminiscenze. Si entra così dentro ai complessi problemi dello stile mahleriano, quale si evidenzia non soltanto nelle architetture delle sue sinfonie (nei materiali, nel modo di organizzarli e metterli in relazione fra loro), ma anche nei climi e nei colori dei suoi spettacolari paesaggi musicali, sempre ambiguamente tendenti al superamento e alla simbologia. E proprio la Terza ce ne fornirà la dimostrazione: essendo presente in essa non soltanto l’avvio della strada che porterà Mahler fino alle soglie della maturità, molto oltre gli esiti delle due prime Sinfonie, ma anche il segno di definitivi e concreti risultati, legati agli aspetti più tipici e fondamentali della personalità mahleriana.

E noto a chi si sia occupato di Mahler quanto profonda e duratura, addirittura decisiva per la sua esperienza di compositore, sia stata la influenza esercitata dalle poesie del Des Knaben Wunderhorn, cui sopra si è accennato. Tale raccolta fu per Mahler non soltanto la base di un concreto materiale compositivo, ma ancora di più l’origine del “”suo”” mondo poetico e fantastico, l’impulso di idee, immagini e suggestioni ancestralmente connaturate nel suo approccio alla musica. Una simile aderenza e congenialità, che ha le sue radici nelle reminiscenze dell’infanzia e nella rassegnata quanto fiera ingenuità del sentimento popolare di cui Mahler romanticamente partecipa, troverà espressione nei Lieder composti nel corso di vari anni, ma si collegherà anche al mondo ben più articolato della Sinfonia, ivi portando i suoi valori e i suoi significati di vita e di morte, di natura e di sogno. Al mondo del Des Knaben Wunderhorn sono strettamente legate tutte le grandi Sinfonie della prima maturità, in un trittico che comprende, con sottili ma evidenti relazioni, la Seconda, la Terza e la Quarta sinfonia. E nel caso della Terza questo legame si espliciterà, come vedremo, nelle elaborazioni del terzo e del quinto movimento.

Il discorso sul mondo del Wunderhorn si collega direttamente con il problema forse centrale delle Sinfonie mahleriane del primo periodo: quello del programma letterario che ne sta alla base. Si suole dire che lo spiccato carattere programmatico della musica di Mahler scritta prima del 1900 è chiaramente denunziato dai tentativi dello stesso compositore di spiegare extramusicalmente l’argomento delle sue Sinfonie, di dare cioè un programma elaborato su contenuti di ordine biografico, psicologico, poetico o filosofico. Ed è vero: ma sta di fatto che proprio tali programmi furono tutti senza eccezione ripudiati e soppressi al più tardi dopo la prima esecuzione e comunque prima della pubblicazione. In realtà Mahler ha sempre mantenuto una attitudine curiosamente ambivalente nei confronti della musica a programma, che in quegli anni, dopo la morte di Wagner, si veniva configurando come vero e proprio “”problema storico””. Insomma, inutile negare la presenza di contenuti preventivi nella musica di Mahler; importante però è vederne i risultati sul piano compositivo nelle tracce del cammino di evoluzione e maturazione stilistica. Così Mahler attualizza in termini di contemporaneità e di urgenza soggettiva le esperienze del passato remoto e prossimo, tutte piegandole a una logica musicale di ferrea concentrazione strutturale, che ha nella continua sperimentazione e nella dilatazione spazio-temporale del divenire musicale le sue leggi principali: e le sue principali analogie da una parte con una sorta di vagheggiamento nostalgico del teatro (quasi un “”teatro metafisico””, è stato detto), dall’altra con i modi di procedere del romanzo moderno. Sul piano compositivo Mahler si colloca principalmente nella linea che da Brahms risale, con un significativo sdoppiamento, sia a Beethoven sia a Schubert: ma come negare per esempio l’importanza di Wagner (poco importa se attraverso il venerato Maestro Bruckner) nella organizzazione vitale del materiale tematico, nelle trasformazioni e nei riferimenti a ideali Leitmotive sinfonici? O quella di Liszt nella problematica della musica a programma? O infine la presenza onnipotente di Strauss, forse il suo unico diretto antagonista degno di questo nome nel mondo musicale tedesco a cavallo fra i due secoli?

Se la Prima sinfonia, che in fondo nasce come un corollario sinfonico dei Lieder eines fahrenden Gesellen con lo scopo di proiettare sul piano della forma sinfonica le caratteristiche peculiari di un linguaggio ancora in cerca di sé, fu ideata più come poema sinfonico alla Liszt che come Sinfonia classica (il complesso programma quasi autobiografico fa pensare addirittura alla Sinfonia fantastica di Berlioz), già con la Seconda Mahler compie un salto notevole nella individuazione del proprio campo d’azione: l’argomento di quest’opera è, secondo le sue stesse parole, quello del problema della vita, della morte e della resurrezione, ma intanto la determinazione formale si chiarisce senza dubbio. Se la struttura della Sinfonia è evidentemente modellata sull’esempio della Nona di Beethoven, non soltanto nella straordinaria lunghezza del trasfigurante Finale che fonde lo sviluppo sinfonico e le proprietà stilistiche della Cantata con soli e coro, sul piano spirituale si fa luce il rapporto con il mondo poetico del Wunderhorn, con gli stati d’animo e le tensioni ad esso connesse. Ma non solo: i primi tre tempi, strumentali, si rifanno ai procedimenti della Sinfonia classica; rimandano a Schubert innanzitutto e ai primi romantici per quella specie di humour grottesco e parodistico che sarà poi cifra costante di Mahler, e al mondo austro-tedesco antico e popolare radicato nel simbolo del “”corale”” come coscienza della finitezza della vita e dell’anelito all’infinito e alla fede, trovando nella grandiosa scena finale del “”grande appello”” e della resurrezione consequenziale sbocco. Mahler si addentra qui nel mondo della Sinfonia, ne saggia le regole e le possibilità: ma le reinterpreta dal suo punto di vista, che è quello della totalità dell’espressione musicale, non il “”Gesamtkunstwerk”” teatrale wagneriano, ma un cosmo sinfonico in cui speculazione filosofica, fervore religioso e architettura musicale cooperano in modo davvero unico alla creazione di un mondo immaginario, con l’aiuto di ogni possibile risorsa della tecnica musicale.

La Terza sinfonia prosegue sulla linea tracciata dalla Seconda, e il fatto già menzionato che la sua composizione si accavalli con quella della Seconda non è senza ragione; prosegue e “”realizza”” presentandosi alla fine come la prima Sinfonia di Mahler autenticamente compiuta nell’approfondimento della tematica e del linguaggio (ma anche dello stile e della forma) proprii del compositore. Se vi sono analogie con la Seconda, esse si fermano infatti a dati esteriori: essenzialmente allo schema sinfonico di proporzioni colossali, addirittura mostruose, anche nella durata materiale (circa un’ora e mezza, con un primo movimento che dura da solo quasi quaranta minuti). Altrettanto colossale, anche per Mahler, è la composizione dell’orchestra: legni raddoppiati a gruppi di 4, 8 corni, 4 trombe, 4 tromboni, 1 tuba, 2 coppie di timpani con 2 diversi suonatori, una batteria sterminata (campanette ovvero Glockenspiel, tamburo militare, triangolo, tamburino, piatti, tam-tam, grancassa con piatti), 4 campane, 2 arpe, archi in numero rafforzato rispetto all’organico normale. Inoltre sono prescritti il coro femminile a 3 parti, il coro di ragazzi e la voce solista di contralto, per il quarto e quinto movimento. Un organico così abnorme mette già sull’avviso l’ascoltatore circa le tremende difficoltà di esecuzione che la Sinfonia comporta; ma si faccia anche attenzione all’uso che ne fa Mahler e che sarebbe una banalità definire magistrale, perché così al massimo si darebbe conto di una sapienza tecnica di strumentatore eccelso. Mahler lo fu certo, e fu anche un innovatore, ma questo vale solo subordinatamente al senso che la tecnica può avere rispetto alle invenzioni costruttive e alle necessità timbriche come fatto espressivo, in una gradazione che va dalla massima esplosione sonora delle catastrofi assolute fino al trattamento cameristico e solistico dei momenti di calma e di riflessione.

La Terza venne eseguita per la prima volta in versione integrale soltanto il 9 giugno 1902, a Krefeld, sotto la direzione dell’autore. Alma Mahler, nel suo libro di ricordi e testimonianze, narra della trepidazione e della eccitazione che accompagnarono l’avvenimento: “”L’esecuzione era aspettata con trepidazione, perché già alle prove tutti avevano capito con sempre maggior chiarezza quant’era grande e importante l’opera che si stava affacciando al mondo. Dopo il primo tempo scoppiò una manifestazione entusiastica. Richard Strauss si fece avanti sotto il podio e applaudì ostentatamente, tanto che suggellò, per così dire, il successo. E, dopo ogni tempo, gli ascoltatori sembravano più emozionati, anzi, alla fine nel pubblico che si era alzato in massa e premeva verso il podio si scatenò un vero delirio. L’atteggiamento di Strauss diventò sempre più passivo, da ultimo era scomparso””. E Mahler? I sei anni di attesa lo avevano reso ancor più cosciente circa il valore dell’opera; quel che gli mancava era solo un riscontro pratico, e già durante le prove questo era puntualmente venuto. Narra ancora Alma: “”Dopo il primo tempo, che veniva eseguito allora per la prima volta, arrivò ridendo allegramente e mi gridò già da lontano: ‘E vide che questo era buono!””’.

L’architettura generale della Sinfonia, che è divisa in sei movimenti, si presenta tagliata in due grandi parti o blocchi: una prima parte strumentale, che è costituita per intero dal solo primo movimento, e una seconda parte formata dai rimanenti cinque movimenti, i primi due strumentali, il terzo vocale, il quarto vocale-strumentale e l’ultimo nuovamente strumentale, nella forma di un lungo Adagio. Originariamente questo Adagio finale non doveva essere l’ultimo tempo; ad esso doveva seguire un settimo tempo che Mahler decise infine non di sopprimere, ma di spostare a costituire il Finale della Quarta sinfonia. Due osservazioni scaturiscono automaticamente: la decisione invero rivoluzionaria (il cui unico precedente è costituito dalla Patetica di Cajkovskij, di soli tre anni anteriore) di far finire una Sinfonia con un Adagio, che troverà poi la sua sublimazione nel Finale della Nona sinfonia, fu frutto di una scelta maturata e precisa; inoltre, ne esce ribadita l’affermazione precedente circa la unitarietà che intercorre fra le opere a cui Mahler simultaneamente lavorava, stabilendo collegamenti che è necessario valutare appieno.

Nella Terza, lo schema formale tradizionale in quattro tempi non è dunque affatto rispettato, al pari di ciò che accadeva nella Seconda; ma mentre quella, sia formalmente sia spiritualmente, guardava come si è detto alla Nona beethoveniana (mutando l’apoteosi della “”gioia”” in apoteosi della “”fede””), di Beethoven questa ricorda, con notevole verisimiglianza nella logica costruttiva e nello stile, gli ultimi Quartetti, l’opera 130 (in sei tempi), l’opera 131 (in sette tempi), l’opera 132 (in cinque tempi) e l’opera 135 (di cui Mahler cita un inciso nell’ultimo movimento). E un altro particolare deve essere adeguatamente sottolineato: e cioè la circostanza che il fondamentale primo movimento fu composto per ultimo (fra l’agosto 1895 e l’agosto 1896), quando gli altri erano già stati compiuti o comunque ampiamente abbozzati (fra l’estate del ’93 e l’estate del ’95): circostanza questa niente affatto casuale e che non soltanto spiega la sproporzione esistente fra quelle che sarebbero divenute le due parti dell’opera (un movimento contro cinque), ma anche suggerisce la possibilità (verificabile nella partitura) di una lettura fondata su un procedimento a ritroso o addirittura circolare, in cui il primo movimento sarebbe nello stesso tempo inizio e fine, premessa e conclusione, analisi e sintesi. Sicuramente verificabile perché reale nella struttura della Sinfonia, dove si colgono, secondo analogie che hanno precedenti solo nell’opera di Schubert e appunto negli “”ineseguibili”” ultimi Quartetti di Beethoven, collegamenti tematici e ponti psicologici se non addirittura simbolici (come citazione o reminiscenza o metamorfosi) fra le figure degli altri movimenti rispetto al primo.

Si dice che la Terza tratta del problema dei rapporti fra l’uomo e la natura intesa come cosmo, così come la Seconda trattava della vita e dell’eternità. E si ricade così nelle sabbie mobili dei contenuti programmatici. Fuori di metafora: Mahler compose evidentemente seguendo un elaborato programma poetico, di cui rimangono parecchi appunti, sotto forma di cinque diverse elaborazioni. I titoli pensati come generali, che furono poi i primi a scomparire, erano, in ordine cronologico, Pan (donde l’appellativo di Sinfonia del canto del grande Pan con cui la Sinfonia è nota), la Gaia Scienza (evidente omaggio a Nietzsche, di cui Mahler aveva utilizzato un testo nel quarto movimento, derivandolo però da Così parlò Zarathustra), La vita felice e infine Sogno di una notte di mezza estate (con la postilla, fra il serio e l’ironico: “”Non da Shakespeare. Nota per i critici e per gli shakespeariani””). Accanto ad essi, ogni movimento ebbe dei brevi sottotitoli con il compito di “”presentare qualche indicazione per le sensazioni che debbono visualizzarsi””: tale progetto è comunicato da Mahler in una lettera del 1895 all’amico Fritz Löhr, dove risulta così espresso:

 

1) “”Risveglio di Pan. Irrompe l’estate””. Introduzione, fanfara e marcia giocosa.

2) “”Quel che mi raccontano i fiori di campo””.

3) “”Quel che mi raccontano gli animali del bosco””.

4) “”Quel che mi racconta la notte””. A solo di contralto: “”0 Mensch! Gib Acht!””.

5) “”Quel che mi raccontano le campane del mattino””. Coro di ragazzi, contralto e coro femminile: “”Es sungen drei Engel””.

6) “”Quel che mi racconta l’amore””. Motto: “”Padre, guarda le mie ferite: non abbandonare alcuna creatura””, dal Des Knaben Wunderhorn.

7) “”La vita celestiale””. Soprano solo: “”Wir geniessen die himmlischen Freuden””.

Se il settimo movimento fu il primo a trovare altra destinazione, programma e sottotitoli scomparvero nell’edizione stampata, pubblicata a Vienna da Weinberger nel 1898 prima che l’opera fosse eseguita in versione integrale, riapparendo con piccole modifiche soltanto una volta, in occasione della esecuzione a Berlino agli inizi del 1907. Del tutto apocrifa deve quindi considerarsi la tradizione di mantenerne sotto qualsiasi pretesto la validità.

Mahler infatti giunse ben presto alla fondamentale distinzione fra un “”programma interno””, che è unico ed è l’unica cosa che interessa e si sviluppa nel musicista, e i possibili programmi esterni, che sono accidentali, caduchi e meramente estrinseci. Di questa esigenza innanzitutto morale esistono prove e testimonianze inconfutabili e in prima persona: “”In quanto a me so che non posso far musica fintanto che la mia esperienza si può raccogliere in parole. La mia esigenza ad esprimermi musicalmente – sinfonicamente – inizia solo quando dominano le ‘oscure’ sensazioni e dominano sulle soglie che conducono all’altro mondo, il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio. Come trovo volgare inventare musica su programmi prestabiliti, così considero insoddisfacente e sterile voler dare un programma a un’opera musicale. Non cambia niente il fatto che l’occasione per una creazione musicale sia un’esperienza del compositore, dunque qualche cosa di reale che avrebbe tali caratteri di concretezza da poter essere espresso in parole… Anch’io mi sono costruito un ‘sistema’ e su di esso ho lavorato; ma dopo aver scritto alcune sinfonie, con autentiche doglie, e dopo essermi imbattuto sempre negli stessi malintesi e negli stessi problemi, finalmente per quel che mi riguarda ho raggiunto questa visione delle cose””.

Come anche queste parole indicano a sufficienza, Mahler fu pienamente consapevole, durante gli anni di composizione della Terza, di lavorare alla creazione di un’opera eccezionale: “”La mia Sinfonia sarà qualcosa che il mondo non ha ancora udito. La natura parla qui dentro e racconta segreti tanto profondi che forse ci è dato di presentire solo nel sogno. Talvolta mi sento veramente a disagio e mi pare di non essere io a comporre: proprio perché riesco a realizzare ciò che voglio””. Natura e sogno sono due termini importanti per comprendere l’essenza del “”programma interno”” come “”idea totale che nasce dalla musica stessa e non prima di essa””: natura significa anzitutto i “”suoni della natura””, l’incontaminato accento primordiale che emerge come per forza propria, rappresentando se stesso musicalmente nell’ordine di un cosmo razionale e divino. Il musicista li può presentire solo nel sogno, e nel sogno evocarli, sottraendoli alla barriera del mistero che li racchiude. I1 misticismo e la profonda religiosità di Mahler, che si rispecchiano nella sua angosciata visione del mondo, stanno tutti qui, molto più che nell’involucro esterno del doloroso travaglio spirituale che lo portò, con sequenza di vicende note, ad abbandonare l’ebraismo dei padri per abbracciare il cattolicesimo.

L’ultimo movimento della Sinfonia è in questo senso emblematico. Il 1° luglio 1896, dunque al culmine della sua composizione, scrivendo di esso ad Anna von Mildenburg, Mahler giungeva ad identificare l’amore di cui ci parla il sottotitolo con l’Amore divino: “”All’incirca potrei definire l’ultimo tempo così: – Ciò che Dio mi racconta – e precisamente proprio in quel senso che Dio infine può essere inteso solo come amore””. Dio inteso solo come amore: ecco la rivelazione meravigliosamente umana dell’ultimo tempo, la meta finale alla quale conduce l’itinerario dell’intera Sinfonia. Riconosciutosi come parte integrante della natura (al pari, simbolicamente, dei fiori e degli animali del bosco), l’uomo esperimenti il destino della vita attraverso il senso della morte, che giungendo porta con sé rassegnazione e dolore. “”Profondo è il dolore del mondo””, intona Mahler per mezzo delle parole di Nietzsche. Ma quando le “”campane del mattino””, animate dal canto dei bambini che accompagnano col loro Bimm-Bamm l’irreale dialogo fra San Pietro e Gesù, fugano le ombre della notte e restituiscono, per un solo momento, all’uomo il senso della sua vita, ecco che allora parla l’amore. E questa rivelazione non è più rassegnazione ma lo schiudersi di un nuovo ciclo, di una nuova esistenza, di una nuova totalità: l’amore ha vinto il dolore e la morte. Sappiamo che Mahler pensò di concludere la Terza con la rappresentazione della “”vita celestiale””, ma decise poi di rimandare alla Quarta il problema, e ritornò invece a riflettere sulle immense arcate del suo primo movimento, con cupa drammaticità: in questo ritorno, in questo ricominciare, non è forse il riconoscimento che “”tutto non è altro che una giostra senza fine””?

Il primo movimento (Con forza. Risoluto) è suddiviso pur nella sua grande complessità in tre parti in cui lo schema formale tradizionale appare come uno spettro lontano e dissanguato. Alla logica musicale classico-romantica legata al significato stesso di Sinfonia Mahler sostituisce una logica dove l’impulso formale è l’idea di una sorgente musicale che si muove nel tempo e nello spazio secondo un sistema di relazioni appositamente e internamente costituite. Rispetto alla forma-Sonata le categorie di Esposizione, Sviluppo e Ripresa cadono perché superate ne sono le funzioni strutturali nel discorso musicale, e sostituite con altre categorie. La Ripresa diventa così ritorno, ricapitolazione, processo circolare che ripiega su se stesso; lo Sviluppo semplice elaborazione, svolgimento di idee e materiali che non tendono mai finalisticamente a uno scopo univoco e alla fine finiscono così col disperdersi, coll’annullarsi. In questi ribaltamenti di segno che creano soggettivamente una forma nuova fondandosi sul principio, mahleriano per eccellenza, della “”variante”” (dove tutte le possibili modificazioni non alterano l’identità del soggetto), l’Esposizione stessa, una gigantesca marcia (“”una parata””, secondo Redlich), non propone temi con una individualità ben distinta e reciprocamente contrastanti, ma unità mobili che proliferano e si configurano, nella contrapposizione, allineati senza mediazione né sviluppo. Lo stesso tema principale che apre la Sinfonia, affidato nel fortissimo a 8 corni all’unisono, perde a poco a poco la sua forza oggettiva disperdendosi nel pianissimo di una sequenza enigmatica, un oscuro motto che ritornerà come figura autonoma nei violoncelli e nei contrabbassi all’inizio del Lied di Zarathustra: trapassi come questi si incidono nella memoria con la forza di un mistero imperscrutabile. Poi sembra che si levi il sipario di un teatro immaginario e siamo come trasportati in un’altra sfera, con l’impressione di aver già vissuto o sognato quanto accade: un primo gruppo di temi si dipana “”pesante e cupo””, con le movenze quasi di un recitativo, culminando nella fanfara lacerante e inesorabile delle trombe, in un clima di dramma apocalittico. La gigantesca marcia ha inizio, scandita dal rullare della grancassa e dallo sfilare di brandelli di motivi fittamente intrecciati. Un secondo gruppo di temi, guidato dalla lunga melodia dell’oboe subito ripresa dal violino solo, ha qualcosa di allucinato, di spettrale, cui poco dopo si contrappone un grottesco recitativo di violoncelli e contrabbassi che si incanta all’improvviso sul semplice ritmo della batteria e muore in una pausa di silenzio senza fine. E l’esposizione riprende da capo: dopo la ripetizione in forma abbreviata dei due gruppi di temi, il trombone solista diventa protagonista di una lunga sezione basata sul tema principale dell’Introduzione, che riconduce nuovamente al punto prima segnato dalla lunga pausa: “”Wie aus weiter Ferne”” (Come da molto lontano) e piano, un ritmo marziale degli archi introduce la marcia vera e propria, che ora passa dallo sfondo in primo piano su ulteriori varianti tematiche e in un progressivo crescendo della intensità sonora fino al punto di massima rottura della tensione, la catastrofe che chiude formalmente l’Esposizione e in cui tutta la musica della marcia, al culmine del parossismo sonoro, va in pezzi come se d’improvviso si fosse presentata una nuova visione.

Il processo compositivo mahleriano, che ha nella ricerca timbrica ed espressiva il suo lato più immediatamente palpabile, si basa soprattutto sul rifiuto della categoria della mediazione e della sintesi intesa in senso classico e su una nuova individuazione dei concetti di tempo e spazio musicali. Ne è qui dimostrazione la successiva parte dello svolgimento, dai caratteri anomali rispetto agli schemi dati e che si pone piuttosto come un primo ripensamento delle vicende dell’Esposizione, con significativi parallelismi; o nella Ripresa ovvero riesposizione della prima parte, introdotta, con geniale quanto ancora una volta importante effetto, dal rullare dei tamburi piccoli “”posti in lontananza””. Con essa, infine, “”tempo psicologico””, reminiscenza e senso del ritorno sotto nuova luce si sovrappongono in una ricapitolazione come pietrificata, in cui il ritmo di marcia assume un valore paradigmatico; e formalmente si ha l’impressione che qualcosa di gigantesco e di terribile tenda, fra tensioni ora spasmodiche ora trasfiguranti, a oggettivarsi dal caos finale in un nuovo superiore anello, in una nuova epifania.

La seconda metà della Sinfonia differisce in modo considerevole dallo stile e dalla concentrazione espressiva e simbolica del primo movimento. In un clima meno acceso si fanno strada schemi melodici e ritmici arcaici, che ricordano le canzoni popolari ascoltate nell’infanzia: è da pagine come queste che la vena romantica di Mahler si sprigiona con autentica purezza, e sicuramente furono queste le pagine più facilmente comprese e apprezzate, tanto da essere spesso eseguite da sole, durante la sua vita. Il secondo movimento (Tempo di Minuetto) rientra nell’atmosfera fra bizzarra e rococò dei Blumenstücke (pezzi floreali), e ha con le contemporanee tendenze descrittive e figurative non poche affinità ideali. Il motivo iniziale dell’oboe, dal tipico sapore austriaco haydniano-schubertiano, si presenta successivamente sotto varie specie, alternandosi, secondo schemi tradizionali, con sezioni contrastanti (Trio) e derivate. Caratteristica di questo movimento, elaborato soprattutto sotto l’aspetto contrappuntistico, è il continuo mutamento ritmico in connessione coi frequenti passaggi dal maggiore al minore, e un senso timbrico adeguato a sonorità cameristiche.

Lo Scherzo (Comodo. Scherzando) che costituisce il terzo movimento è, come detto, la trasformazione sinfonica di uno dei Lieder del ciclo Wunderhorn, cioè di Ablösung in Sommer (Cambio di guardia estivo) composto al principio del 1880. Vi si narra della morte del cucù, morte che ingenera un grave problema di successione nella gerarchia degli animali del bosco: chi canterà al suo posto durante l’estate? Questo compito sarà ora affidato all’usignolo; ed è certo che saprà onorarlo da par suo. Nella adesione fittizia ai giuochi del mondo animale, visto come lo stato di natura originario, Mahler si appropria di effetti che appaiono in una veste di suprema originalità proprio per il fatto di esse, citazioni di materiale non originale (così i “”versi”” del cucù, dell’usignolo, 1’Y-A del raglio asinino ecc.). Originalità che tocca il suo punto più emozionante e sotteso di reconditi significati nel Trio, preceduto da una transizione ricca di attese nella fanfara della tromba con sordina e sostenuto da un “”a solo” di uno strumento espressamente prescritto da Mahler, la cornetta del postiglione. Niente di esotico in questa prescrizione, tutt’altro: si tratta infatti di un corno o meglio flicorno contralto in si bemolle, strumento di larga tradizione popolare e di un qualche uso soprattutto nelle bande: Mahler pretende che esso suoni da dietro il palcoscenico “”con libertà e al modo di un postiglione””. Ma è nel risultato che si fa evidente ciò che Mahler ha voluto evocare: un richiamo, un annuncio misterioso che giunga da un altro mondo, da un’altra dimensione, quasi come la trepida melodia del corno inglese all’inizio del terzo atto del Tristano. Né molto fa la considerazione, che ci sembra risalga per primo a Busoni, che si tratti di un tema sorprendentemente affine a quello della Rhapsodie espagnole di Liszt, ridotto e “”banalmente”” concentrato. L’episodio della cornetta del postiglione dà origine a una serie di interludi sospesi sul vuoto, in cui gli strumenti dell’orchestra dialogano con essa in forma concertante, prima di riconsegnarla, e questa volta per sempre, alla solitudine a poco a poco dileguantesi sull’orizzonte. Improvvisamente il paesaggio si oscura: la citazione da parte di due trombe con sordina della fanfara in cui culmina la scena del carcere del Fidelio (e della Leonora n. 3), introduce di colpo in un ambiente più drammatico, che segna il passaggio dalla beata e scherzosa innocenza del mondo degli animali alla tragica sofferenza del mondo degli uomini, mentre il canto del postiglione ritorna come un miraggio lontano, un ricordo irreale.

Nel quarto movimento (Adagio molto) il contralto solista intona, su un accompagnamento di violoncelli e contrabbassi che già dicemmo derivare dal primo movimento, le parole di Nietzsche rivolte all’Uomo, al Mensch: “”con espressione piena di mistero””, prescrive Mahler. Si tratta del Canto della mezzanotte dal Così parlò Zarathustra, l’opera probabilmente maggiore del filosofo tedesco che Mahler curiosamente non amava troppo nel suo complesso. Infallibile risulta però la scelta e la collocazione di questo Lied all’interno della Terza sinfonia. Alcuni stilemi e costanti che saranno simboli tipici di sempre in Mahler vi ricorrono con particolare insistenza: il lungo pedale accompagnato dalla quinta vuota nei bassi, di schubertiana memoria, che blocca e rende statica l’armonia si può dire dall’inizio alla fine; l’uso degli armonici negli archi e nelle arpe in funzione non soltanto timbrica ma anche figurativa; la ricorrenza ossessiva dell’intervallo discendente di seconda (nella variante maggiore-minore), che ritornerà con significati veramente allegorici nella Sesta, nella Nona e nell’ultimo Lied del Canto della terra; i “”Naturlaute”” o suoni di natura, “”in cui la natura si esprime in prima persona””, qui affidati all’oboe. La melodia del Canto della mezzanotte, sospesa in arcane campiture spaziali e tutta interiorizzata nell’espressione che Mahler plasma con sfumature eccezionalmente mutevoli (anche nell’agogica e nella dinamica), crea un ponte psicologico verso il quinto movimento, verso il canto degli angeli tolto ancora una volta dal Des Knaben Wunderhorn, dove la proiezione è a sua volta indirizzata verso il materiale compositivo della Quarta e particolarmente verso quel Finale (il Lied Noi godiamo le gioie celesti) che originariamente doveva suggellare la Sinfonia. Il cambiamento di atmosfera è reso nella partitura dall’impiego delle campane e del coro di ragazzi che ne imitano il suono con regolari sillabe onomatopeiche (bimm-bamm): Mahler ne prescrive la collocazione in alto, mentre il coro femminile che canta col contralto solista le strofe di Es sungen drei Engel (Tre angeli cantavano) è posto in basso con l’orchestra, rendendo possibili inediti quanto singolari effetti spaziali e sonori. Motivi e armonie imitano gioiosamente schemi formali arcaici (della ballata popolare); la grazia semplice, la purezza veramente angelica della prima sezione si muta poi in canto disteso nell’intervento solistico del contralto, per concludersi, dopo la ripresa della strofa corale, in una coda in cui le voci femminili si aggiungono ai bambini nella luminosa imitazione delle “”campane del mattino””, segnale inequivocabile del levarsi di un raggio di sole finalmente limpido.

Seguendo le tappe di un crescendo emotivo e formale di grande intensità, l’Adagio finale in forma di Rondò variato ritorna alla veste strumentale dei primi movimenti, acclimatandosi soprattutto con il primo, e non soltanto per evidenti rimandi tematici. E vero che il tema fondamentale è esplicitamente desunto dal tema principale del “”Lento assai”” del Quartetto op. 135 di Beethoven, e idealmente quartettistica, ciò che qui significa essenzialmente contrappuntistica e polifonica, risulta essere la scrittura imperniata sugli archi; ma ancora una volta non si può non ripetere che quel che conta non è l’originalità della figura tematica bensì l’itinerario formale che essa guida. Articolato come una serie di variazioni su questo tema strutturalmente assai semplice, l’Adagio si snoda come una visione depurata ma carica di presagi dell’impeto panico che sostanziava la tensione dinamica del primo movimento, insistendo nella reiterata, “”appassionata”” citazione del tema principale di esso. In un processo armonicamente assai complesso e non privo di incrinature drammatiche, con episodi di carattere fugato sempre e di nuovo interrotti, con combinazioni di motivi principali e derivati in costruzioni dall’intreccio polifonico al limite dell’inestricabilità, la Sinfonia si chiude su un pedale di tonica eternamente dilatato e scandito, senza in realtà concludersi come totalità compiuta: ché il viaggio continuerà in solitudine per chi, viandante alla ricerca dell’ultima indicibile parola, “”è morto al frastuono del mondo e riposa in un luogo silenzioso!””.

Giuseppe Sinopoli / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
60° Maggio Musicale Fiorentino

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