Richard Wagner – Tannhäuser; Lohengrin; Tristan und Isolde; Siegfried-Idyll; Götterdämmerung

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Wagner in concerto

 

Un programma di concerto interamente dedicato a musiche di Richard Wagner è diventato oggi una rarità, non solo in Italia. Sono lontani i tempi in cui tutti i maggiori rappresentanti della grande scuola interpretativa wagneriana, iniziata da Hans von Bülow e Hans Richter alla presenza dell’autore e proseguita nel nostro secolo da Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler, Clemens Krauss e Hans Knappertsbusch, fino a Toscanini e De Sabata, inserivano regolarmente nei loro programmi di concerto non soltanto una pagina sinfonica come l’Idillio di Sigfrido, bensí anche singoli brani tratti dalle opere teatrali; o addirittura sceglievano come bis, per la gioia puramente musicale degli ascoltatori, la Cavalcata delle Walkirie o il Preludio del terzo atto del Lohengrin (con la famigerata marcia nuziale), o altri pezzi popolari.

Allora, Wagner rimaneva un punto di riferimento essenziale perfino come ‘sinfonista’, degno in tutto e per tutto di stare accanto a Beethoven, Brahms o Bruckner, e naturalmente a Liszt e Richard Strauss. Ciò non significava affatto tradire i caratteri peculiari e la sostanza poetica del suo mondo, universale in primo luogo in quanto espresso dalla musica, e dunque comprensibile e intatto anche al di fuori della sua destinazione naturale, il teatro. Fu dopo la seconda guerra mondiale che si scatenò una feroce polemica contro la tradizione di proporre Wagner in concerto, da parte di chi, in nome e a tutela di diritti sacrosanti, volle erigersi a baluardo di una verità tanto ovvia quanto spesso fraintesa per eccesso di zelo: che cioè Wagner, avendo creato un tipo di opera d’arte totale intimamente connaturata al teatro, con una logica stringente di svolgimento drammatico-musicale anch’essa fondata su un concetto di totalità compiuta e significante, non sopportasse l’esecuzione di singoli brani staccati; anche quando essi si presentassero come forme in un certo senso chiuse e autosufficienti all’interno di quella superiore unità.

Si è perduta cosí quella tradizione puramente musicale che aveva avuto fra l’altro il merito non secondario di avvicinare Wagner a pubblici quanto mai eterogenei, spesso privati da ragioni oggettive e pratiche della possibilità di vederlo eseguito in teatro; tradizione che fra l’altro era stata stabilita da Wagner stesso come mezzo preparatorio per familiarizzarsi con la sua musica, e che dunque non andava affatto contro le sue intenzioni e le sue aspirazioni di poter essere inteso anzitutto come musicista. Giacché nel momento stesso in cui chiariva anche concettualmente i termini della sua riforma, o vagheggiava la costruzione di un teatro adatto alla rappresentazione delle sue opere, Wagner non si stancava di ribadire che la sua musica racchiudeva in sé il senso poetico e drammatico di un tutto idealmente proiettato verso le altezze della musica assoluta. Naturalmente nessuna versione antologica può sostituire l’ascolto in teatro. Può però servire utilmente per riflettere sull’immagine di Wagner compositore e trarne stimoli per ulteriori considerazioni sul ruolo della musica nella sua concezione del teatro: attraverso un’evoluzione continua che un programma cronologicamente ordinato come quello che ci apprestiamo ad ascoltare mette in luce, sottolineando non soltanto le progressive acquisizioni stilistiche e formali, ma anche i legami fortissimi con modelli radicati nell’idea stessa di una creazione autonomamente basata sulle possibilità espressive del linguaggio propriamente musicale.

 

 

Tannhäuser

Ouverture

«Dich, teure Halle, grüss ich wieder»

 

Wagner venne per la prima volta direttamente in contatto con la leggenda di Tannhäuser verso la fine del 1841 e pensò subito di trarne l’argomento per un’opera teatrale. Il primo abbozzo (limitato al Venusberg, il regno di Venere nel quale avviene l’apprendistato pagano del giovane cavaliere e Minnesänger Tannhäuser, personaggio immaginario calato nello sfondo del Medioevo all’epoca della tenzone dei cantori sulla Wartburg) risale all’estate del 1842; mentre il testo poetico fu compiuto nel maggio 1843 e la composizione musicale completata nell’aprile del 1845. Nello stesso anno, il 19 ottobre 1845, ebbe luogo la prima rappresentazione a Dresda, sotto la direzione dell’autore. Il dramma fu poi sottoposto nel corso del tempo a varie rielaborazioni, la piú importante delle quali fu quella per la rappresentazione parigina del 1861: con l’aggiunta, nella prima scena del primo atto, del Baccanale, un grande balletto ispirato alla classica Notte di Valpurga del Faust di Goethe.

L’Ouverture non si limita a introdurre nel clima drammatico e musicale dell’opera ma ne descrive i conflitti fondamentali quali si manifesteranno poi nella vicenda e soprattutto nell’animo del protagonista, combattuto fra le tentazioni dei piaceri carnali (rappresentati da Venere) e il puro amore spirituale (idealizzato nel personaggio di Elisabetta). All’inizio, un Andante maestoso presenta il canto austero, solenne dell’inno dei pellegrini che celebrano la grazia; a esso si contrappone, con un brusco passaggio, la trama dei motivi del peccato, l’invito delle sirene e il tumulto del Baccanale, culminante nel canto dedicato da Tannhäuser alla bellezza di Venere e alla gioia d’amore (Allegro, Molto vivace). Un poderoso sviluppo intreccia questi temi fino al massimo della tensione, da cui riemerge alla fine il canto dei pellegrini sul motivo della grazia, a celebrare nell’apoteosi la vittoria dello spirito sulla carne.

Il personaggio di Elisabetta è definito da Wagner stesso come «la donna che si sacrifica per amore, e che sa partecipare con l’amato soltanto al dolore»: in questo senso rappresenta l’antitesi di Venere, che partecipa con lui solo alla gioia. Prototipo delle eroine romantiche wagneriane, anche se non possiede la forza tragica della Senta dell’Olandese volante o la mesta dolcezza di Elsa nel Lohengrin, Elisabetta si presenta in scena all’inizio del secondo atto con una grande aria che ne svela la elementare psicologia: la gioia e la commozione nel rivedere Tannhäuser si esprimono in un canto innodico di grande plasticità, nel quale già si annida lo spirito di rinuncia che la porterà a sacrificarsi per lui, per redimerlo.

 

 

Lohengrin

Preludio all’atto I

 

Con Lohengrin, composto fra il 1845 e il 1848 e rappresentato per la prima volta a Weimar, sotto la direzione di Franz Liszt, il 28 agosto 1850, Wagner chiudeva la stagione propriamente romantica della sua opera e, voltando pagina, si avviava a preparare la strada che avrebbe condotto al dramma musicale: ossia a un tipo di teatro musicale basato sulla ininterrotta continuità dell’azione, nel quale l’elemento sinfonico sviluppato nella tecnica dei motivi conduttori garantisse la piú completa fusione di testo e musica.

Anche con le sue innovazioni, prodigiose nella strumentazione e nelle relazioni armoniche, Lohengrin rimane un’opera di impianto tradizionale, nella quale sono ancora riscontrabili, se non forme, vaste parti in sé conchiuse. Il Preludio iniziale è una di queste. Come nel Tannhäuser, ma in modo assai piú simbolico, la complessa tematica del dramma viene anticipata in questa pagina di luce fluida e fulgidissima, nella quale gli accordi e poi il tema del Graal (affidato ai violini divisi in otto parti) creano un’atmosfera celestiale, percorsa però da fremiti e inquieti desideri, da presagi e illuminazioni in una dimensione di sogno. Baudelaire, che ne rimase folgorato a Parigi, ce ne ha lasciato una descrizione stupenda, degna della musica: «Mi ricordo che fin dalle prime battute io subii una di quelle felici impressioni che quasi tutti gli uomini di immaginazione hanno conosciuto nel sonno per mezzo del sogno. Io mi sentii liberato dai legami di pesantezza e ritrovai con il ricordo la straordinaria libertà che circola nei luoghi elevati. In seguito dipinsi a me stesso involontariamente lo stato delizioso di un uomo in preda a una grande fantasticheria, in una solitudine assoluta, ma una solitudine con un immenso orizzonte e una larga luce diffusa, l’immensità con il solo sfondo di se stessa. Ben presto io provai la sensazione di un bagliore piú vivo, di una intensità di luce crescente, con una tale rapidità, che le sfumature fornite dal dizionario non basterebbero ad esprimere, in questo aumento sempre rinascente di ardore e di bianchezza. Allora io concepii pienamente l’idea di un’anima muoventesi in un ambiente luminoso, di un’estasi fatta di voluttà e di conoscenza e ondeggiante al di sopra e molto lontana dal mondo naturale».

 

 

Tristan und Isolde

Preludio e Morte di Isolde

 

«Poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al piú bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un ‘Tristano e Isolda’: un concetto musicale del-la massima semplicità, ma puro sangue. Col bruno vessillo che sventola alla fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!». Con queste parole Wagner comunicava a Franz Liszt, alla fine del 1854, la prima idea da cui sarebbe nato il Tristano, in piena Stimmung schopenhaueriana e nel pieno del suo amore per Matilde Wesendonck.

Tristano e Isolda è non soltanto l’opera di tutta una vita, ma anche l’opera che piú ha influito sulle sorti della musica dell’Ottocento e, paradossalmente, al confronto, anche delle opere precedenti, non solo di Wagner. Niente, dopo il Tristano, fu piú uguale e rimase come prima; e nello stesso tempo era come se la musica del Tristano concentrasse e sublimasse in sé tutta la storia della musica moderna, racchiudendola in perfetta unità. Un direttore d’orchestra, Wolfgang Sawallisch, ha scritto che Tristano e Isolda è come una droga di cui si diventa prigionieri: «Quando ascoltiamo quest’opera siamo obbligati a scegliere se opporre una resistenza interna o abbandonarci in una resa incondizionata. Chi va ad ascoltare il Tristano imponendosi di esser forte, di non lasciarsi coinvolgere emotivamente o ipnotizzare, farebbe meglio a restare a casa: perché nessuno è in grado di sostenere la lotta con i propri sentimenti e con la piena di cinque ore di tale musica. Ma chi si abbandona, dimentica se stesso e si getta a capofitto nel gorgo, viene travolto dal vortice di questa ipnosi musicale, per destarsi dopo cinque ore come da uno stato di trance».

Basta ascoltare due pagine come il Preludio e la Morte di Isolda, l’inizio e la fine dell’opera, che Wagner stesso immaginò come brani sinfonici a sé stanti, quasi staccati dal resto della partitura, per rendersi conto di che cosa significhi la droga del Tristano. Un languore sconfinato, senza possibilità di appagamento, si esprime già nella frase iniziale dei violoncelli e dell’oboe, da cui parte l’immenso arco della partitura; per placarsi soltanto con l’inno alla morte che conclude il dramma, intonato da Isolda accanto al corpo senza vita di Tristano. Il famoso, fatale accordo dell’inizio, piú volte interpretato e mai interamente sviscerato dall’analisi, è piuttosto uno stato d’animo che continua a produrre effetti inesplicabili; oltre che un punto di riferimento preciso per tutta l’evoluzione del linguaggio musicale, non solo armonico, moderno. L’accordo che compie la trasfigurazione di Isolda, dopo un caleidoscopico intreccio di tonalità vaganti, è non soltanto, come voleva Richard Strauss, l’accordo strumentato meglio di tutta la storia della musica, bensí il simbolo assoluto della gioia suprema dell’amore, la luce nella metafora delle tenebre, il trionfo della morte e della tristezza dell’eterna solitudine: o ancora, con D’Annunzio, «l’aspirazione verso l’eterna notte, verso il divino originario oblio».

Wagner compose Tristan und Isolde fra il 1857 e il 1859, ma per la prima rappresentazione dovette attendere quasi sei anni (Monaco, 10 giugno 1865). La prima esecuzione del Preludio e Morte di Isolda ebbe luogo a Praga il 12 marzo 1859, sotto la direzione di Hans von Bülow, il direttore anche della prima di Monaco. Ma il 25 gennaio 1860 Wagner stesso lo aveva presentato a Parigi nel primo di tre concerti che comprendevano molti dei principali pezzi orchestrali composti fino ad allora.

 

 

Siegfried-Idyll

 

La creazione dell’Idillio di Sigfrido è profondamente legata all’autobiografia di Wagner. Il fatto è noto. La mattina del 25 dicembre 1870, giorno di Natale ma anche ricorrenza del compleanno di sua moglie Cosima, Wagner le preparò la sorpresa di un’esecuzione, affidata a quindici musicisti nascosti in fondo alla scalinata della villa di Triebschen presso Lucerna dove allora abitavano, di questo poema sinfonico, composto per l’occasione nelle settimane precedenti. Cosima, nel suo diario, rievocò quell’avvenimento con poche parole, che esprimevano però tutta la sua commozione: «Era musica, e che musica! Quando finì, Wagner venne da me con i bambini e mi offrì la partitura del poema sinfonico per il mio compleanno». Quel regalo inatteso, e perciò tanto piú gradito, palesava in segni musicali la raggiunta felicità di quei mesi, dopo il matrimonio e la nascita (nel giugno del 1869) del terzogenito Siegfried, l’erede dei Wagner, il primo figlio maschio e ideale dedicatario del lavoro.

A lui dunque, piú che all’eroe della Tetralogia che Wagner stava ancora componendo, esso si ricollega: idillio quasi piú borghese che eroico. Il materiale di cui si compone, già cosí ricco di personali significati emozionali, deriva però da un momento preciso dell’azione della seconda giornata dell’Anello, e precisamente dal possente duetto finale del terzo atto del Sigfrido, prima delle parole di Brunilde «Ewig war ich, ewig bin ich» (Eterna fui, eterna io sono), che introducono la sua decisione di accettare l’amore di Sigfrido. Tale materiale musicale è costituito essenzialmente da due temi strettamente imparentati fra loro, che Wagner aveva abbozzato assai prima di deciderne l’utilizzazione nell’opera: ossia nell’estate del 1864, durante il primo soggiorno con Cosima, allora ancora moglie di Hans von Bülow, sul lago di Starnberg presso Monaco, con l’intenzione di affidarli alle voci intime di un quartetto d’archi. Soprattutto il primo di questi temi, basato sulla cosiddetta melodia della pace, in mi maggiore, tanto elementare quanto intenso, era profondamente legato al sentimento d’amore che lo univa a Cosima. Ma al di là di ogni pur legittimo riferimento autobiografico o sentimentale, l’elaborazione dei motivi, il loro intreccio contrappuntistico e il loro sviluppo nel fluire calmo e disteso della musica, fanno della partitura dell’Idillio di Sigfrido una delle creazioni piú perfette e rifinite fra tutte quelle uscite dalla penna di Wagner: qui dispensatore finissimo, con mezzi ridotti, di sottigliezze timbriche e armoniche di rara lievità, in una dimensione cameristica trasognata e aperta alla luce, e in una luce da apoteosi culminante: la pagina forse piú serena e piú lieta di tutta la sua vita d’artista.

 

 

Götterdämmerung

Viaggio di Siegfried sul Reno

Marcia funebre di Siegfried

Olocausto di Brünnhilde

 

La Tetralogia dell’Anello del Nibelungo occupò Wagner per ben trenta dei settant’anni che egli visse: dal 1846, anno della prima lettura dell’antico Nibelungenlied, seme fecondatore della gigantesca impresa, fino al 1876, anno della prima rappresentazione dell’intero ciclo nel Festspielhaus di Bayreuth, appositamente costruito per ospitarlo. Già nel testo drammatico, steso a ritroso rispetto all’ordine naturale degli avvenimenti (risalendo cioè dalla catastrofe finale fino agli antefatti piú remoti del furto dell’oro del Reno), e ancor piú nella musica, essa costituisce lo sforzo massimo da parte dell’autore di rendere evidente in un’opera di proporzioni cosí vaste la propria concezione teatrale quale si era venuta maturando nel corso di un’intera esistenza.

Crepuscolo degli dèi (Götterdämmerung), terza e ultima giornata della sagra scenica, dopo il prologo L’oro del Reno, La Walkiria e Sigfrido, completata nel novembre del 1874, è non soltanto la rappresentazione grandiosa della catastrofe purificatrice, determinata dagli eventi precedenti, ma anche il lavoro di maggiori dimensioni (un prologo e tre atti) e di maggiore impegno costruttivo, nel quale per cosí dire l’invenzione cede il passo alla rielaborazione. Pochissimi i temi nuovi; secondari, se si eccettua Hagen, i nuovi personaggi: tutto tende a dare fisionomia risolutiva e definitiva alle premesse e agli svolgimenti delle giornate precedenti, e soprattutto ai destini di Brunilde, la Walkiria degradata dal suo rango semidivino, e di Sigfrido, l’eroe di una redenzione annunciata e vanificata dai fatti.

Nel Crepuscolo Wagner recupera in vasti episodi sia sinfonici che scenici lo spirito delle forme chiuse e dei culmini drammatici, riaccostandosi a strutture in un certo senso piú tradizionali, che pure in precedenza aveva cercato di superare in modo drastico e radicale. Qui l’equilibrio di musica e parola torna a spezzarsi in favore della musica, alla quale è affidato il compito di compiere l’opera anche in termini drammatici, risolvendone i conflitti in modo definitivo, anche se enigmatico. Piú che con la circostanza di un testo in gran parte scritto prima che le idee riformatrici avessero trovato piena applicazione nell’estetica del dramma musicale, ciò può essere motivato con caratteri interni all’opera stessa: opera che vive di reminiscenze di azioni e fatti avvenuti, destinati a riflettersi e a essere dunque rivissuti nel lento cammino di avvicinamento, che li svela, alla catarsi di una conclusione necessaria e inevitabile perché predestinata, sotto il segno dell’impotenza (il tradimento inconsapevole di Sigfrido) e del sacrificio (l’olocausto di Brunilde).

Ne abbiamo un primo esempio nel Viaggio di Sigfrido sul Reno, l’interludio sinfonico che unisce il prologo al primo atto e che Wagner significativamente prescrive venga eseguito a sipario calato. Nel prologo, dopo che le Norne, meditando sul destino del mondo, ne hanno intravisto il tramonto, Sigfrido annuncia a Brunilde la sua decisione di lasciarla per compiere nuove imprese. Il motivo della fatalità accompagna il sorgere del sole tra le rocce, mentre Sigfrido e la Walkiria escono dalla loro grotta. Né la forza né la volontà di Brunilde sono in grado di opporsi al desiderio dell’eroe: l’amore per lui è ormai la sua unica legge. Essi si scambiano pegni di fede eterna, che si ritorceranno a loro reciproco danno: l’eroe consegna alla donna l’anello, la donna all’eroe il cavallo Grane. Sigfrido scende dall’altura dando gioiosamente fiato al suo corno, mentre Brunilde, seguendolo con l’animo in tumulto, gli invia dall’alto gli ultimi addii. «L’orchestra raccoglie il motivo del corno e lo sviluppa in un pezzo poderoso»: cosí indica la didascalia. In questo pezzo non soltanto poderoso, ma anche tematicamente densissimo, maestoso e scintillante timbricamente, i motivi metafisici e morali, cosmici e umani che reggono l’intero ciclo si distendono sullo sfondo di un paesaggio insieme naturalistico e mitico, per avvolgere in un iridescente gioco strumentale il «viaggio sentimentale» di Sigfrido alla ricerca del proprio destino, verso la terra dei Ghibicunghi.

Lo sveglierà dai suoi sogni, nella terra dei Ghibicunghi, un destino di tradimento e di morte. Siamo nel terzo atto. Al culmine del racconto delle sue gesta eroiche, Sigfrido viene trafitto alle spalle dalla lancia di Hagen: «cade riverso e muore». «Hagen, was tatest du?» (Hagen, che hai tu fatto?), domanda sbigottito Gunther facendo eco alla domanda attonita dei guerrieri che lo circondano. Sigfrido ha appena il tempo di invocare Brunilde, e di rievocarne il risveglio e il saluto pieno di angoscia. Prosegue la didascalia: «Immobilità e cordoglio di coloro che l’attorniano. E scesa la notte. Ad un muto comando di Gunther i guerrieri sollevano il cadavere di Sigfrido e, durante quel che segue, lo accompagnano in corteo solenne su per i dirupi, lentamente allontanandosi. Gunther segue per primo il cadavere. La luna erompe tra le nubi e illumina con la luce sempre piú viva il corteo funebre, che va raggiungendo la sommità dell’altura».

«Quel che segue» è appunto la Marcia funebre di Sigfrido: non soltanto il grandioso riassunto epico, affidato alla musica, di tutta la vita dell’eroe ripercorsa nelle sue tappe fondamentali (sinteticamente, nascita, giovinezza, audaci imprese, amore per Brunilde e morte per la maledizione dell’anello), ma anche l’estrema trasfigurazione dei motivi che ne hanno accompagnato la storia e che ora vengono ripresentati, per l’ultima volta, nel ricordo; per essere poi consegnati, definitivamente spenti, avvolti nei sacri veli del modo minore (nella tonalità della Marcia funebre dell’Eroica di Beethoven, do minore), al silenzio, in una dissolvenza scandita appena dal lugubre rintocco dei timpani. Il congedo dall’eroe, con l’ultimo risuonare dei suoi temi nella loro interezza, dopo che nell’azione del Crepuscolo essi erano apparsi solo come frammenti e ombre, ricompone l’unità musicale e drammatica dell’incompiuta vicenda eroica e umana di Sigfrido; ma allo stesso tempo quei temi estingue come simboli musicali della redenzione e del riscatto. Essi muoiono con Sigfrido.

La grande scena finale dell’Olocausto di Brunilde si colloca ancor piú in una dimensione autonoma, a sé stante, perfettamente compiuta in un tessuto musicale nel quale riaffiorano per l’ultima volta quasi tutti i temi principali della Tetralogia. A poco a poco essi vanno perdendo non soltanto la loro relazione col dramma che si sta compiendo, ma anche la loro qualità di unità formali e musicali: o interrompendosi bruscamente (come il motivo della maledizione, allorché l’anello ritorna alle figlie del Reno), o distendendosi all’infinito fino a consumarsi e a smarrire la loro individualizzata configurazione di motivi (come quelli del Walhalla e del crepuscolo). Il canto di Brunilde, ora scultoreo, ora intimamente ripiegato su se stesso, sembra officiare il sacrificio come in un rituale che prepari la catarsi tragica. Alla fine, dopo l’ultimo riecheggiare del canto gioioso delle figlie del Reno che sancisce la pace ritrovata della natura, un motivo nuovo, il cosiddetto motivo della redenzione, si afferma solitario. Ed è su di esso che, enigmaticamente, l’opera si chiude, adagiandosi su un accordo di re bemolle maggiore dilatato all’infinito e pregno di risonanze, quasi a prefigurare non una conclusione, ma un nuovo inizio.

Peter Schneider / Gabriele Schnaut
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti d’autunno 1990

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