Claudio Monteverdi – Il ritorno di Ulisse in patria

C

Sul filo di Arianna

Itinerari monteverdiani al Maggio

 
Le presenze di Monteverdi operista al Maggio Musicale Fiorentino costituiscono un capitolo di notevole importanza non soltanto nella storia del Festival ma anche nella vita e nel costume musicale degli ultimi cinquant’anni. Questo capitolo traccia, talvolta demarca, percorsi e svolte nella considerazione di un musicista e di un’epoca che sin dall’inizio del Novecento sembravano rappresentare uno dei punti di forza del rinnovamento della musica italiana, fondamento di una nuova identità nazionale da cui si sarebbe sviluppata l’arte musicale moderna saldando il ritorno al passato con le istanze di rinascita delle giovani generazioni. Il nome di colui che nel Seicento aveva elevato il teatro a massima rappresentazione artistica ed estetica di una civiltà in rapida trasformazione spingeva all’emulazione; ma valeva soprattutto a fissare un modello da contrapporre d’autorità alla «degenerazione» borghese del melodramma ottocentesco e verista, e quindi da riconsiderare attentamente in prospettiva attuale, novecentesca.

Le apparizioni di Monteverdi al Maggio segnano però anche, se non soprattutto, l’ingresso del musicista in una dimensione di spettacolarità composita ed eterogenea, secondo le caratteristiche di quel festival internazionale. Le appassionate, preventive discussioni sul modo di rappresentare Monteverdi, e piú in generale su come rendere attuale un autore del passato, sono finalizzate all’incontro di organizzatori e realizzatori ai quali spetta di renderne l’opera viva: e cioè musicisti, registi, scenografi, cantanti. In altri termini, nella prospettiva del Maggio, Monteverdi non è solo un nome illustre da riesaminare e rivalutare, presentandolo al grande pubblico su una grande ribalta, ma ancor più l’occasione di impegnative prove spettacolari, che guardano al passato, all’antico, in proiezione del presente, del moderno, e ne fanno tutt’uno: quasi cercando di dare una risposta all’interrogativo sulla natura e l’essenza dello spettacolo teatrale con musica, ieri come oggi, nella storia e nell’interpretazione.

È noto che delle tre opere di Monteverdi a noi giunte – L’Orfeo (1607), Il ritorno di Ulisse in patria (1640), L’incoronazione di Poppea (1643) – solo la prima offre indicazioni esecutive precise (prescrizioni e destinazioni strumentali risultano dalla partitura stampata in ricordo della prima rappresentazione a Mantova); per le altre due abbiamo unicamente le parti cantate e il basso continuo. Il problema della realizzazione musicale di queste partiture, dalla scelta dell’organico alla strumentazione, dall’adattamento del taglio drammaturgico all’individuazione di uno stile esecutivo vocale, attirò e impegnò i più svariati e maggiori musicologi e musicisti del nostro secolo, dando vita a molteplici soluzioni ed edizioni oscillanti fra i due estremi di una ricostruzione archeologica di problematica fedeltà e di una totale reinvenzione con mezzi e linguaggi moderni, legati alla sensibilità contemporanea. Si svelano cosí, a contatto con Monteverdi, alcune delle tendenze più pronunciate della musica novecentesca e contemporanea, che proprio al Maggio avranno modo di manifestarsi caratteristicamente nel passaggio delle generazioni, con una linea di evoluzione esattamente riconoscibile: dalla appropriazione di Monteverdi assai poco rigorosa nel gusto e nello stile da parte di alcuni protagonisti o discepoli della «generazione dell’Ottanta», per i quali la questione va vista all’interno dell’orizzonte volto al recupero della musica antica in generale, sino alle audaci sperimentazioni dei compositori radicali, a noi più vicine, e non senza motivo bilanciate dal rifiorire di atteggiamenti critici e filologici miranti alla ricostituzione di un’originaria autenticità della prassi esecutiva.

E se in ognuno di questi casi la figura di Monteverdi giganteggia sormontando ogni adattamento specifico, e rivelando anzi la sua completa adattabilità a ogni condizionamento, non meno che la sua intrinseca, sfuggente individualità di natura ideale, il tono spettacolare e la cassa di risonanza del Maggio, superando le astratte dispute musicologiche, consegnano il teatro di Monteverdi alla prova dei fatti nella realtà viva dell’esecuzione, a un pubblico piú vasto, con esiti tanto discontinui e discutibili quanto esemplari di molteplici, possibili interpretazioni e chiavi di lettura, a seconda del mutar del gusto e del costume.

La prima opera di Monteverdi rappresentata al Maggio Musicale Fiorentino è L’incoronazione di Poppea: nel 1937, per la terza edizione del Festival, allora diretto da Mario Labroca. La scelta dello scenario, il Giardino di Boboli, fortemente voluta dai registi Corrado Pavolini e Giorgio Venturini, è evidentemente connessa all’intento di spettacolarizzare l’opera e di farla rivivere come una grande festa barocca. Autore della trascrizione è il musicologo Giacomo Benvenuti (1885-1943), che in precedenza aveva rifiutato di dare al Maggio la sua revisione dell’Orfeo per una analoga realizzazione all’aperto e che nel caso dell’Incoronazione invece accetta, sia pur tra molte titubanze, forse giudicando quest’opera meno inadatta per uno spettacolo teatrale all’aperto. Il quale risultò poi abbastanza tipico del modo in cui un autore come Monteverdi potesse essere inteso in quegli anni e per una occasione «speciale» come quella.

Agli architetti Roberto Michelucci e Mario Chiari si chiese di adattare la prospettiva della fontana sul terrazzo di Palazzo Pitti per le esigenze di una ambientazione insieme fastosa e mondana, impreziosita cromaticamente dagli sfarzosi costumi di Gino Sensani: ne scaturiva cosí una celebrazione della «romanità» e della modernità insieme, di una grandezza attuale e impressionante, secondo motivi cari all’ideologia fascista. La composizione della compagnia di canto, costituita da alcune stelle del firmamento operistico (dalla Cigna alla Nicolai, da Pasero alla giovane Magda Olivero), accentuava una interpretazione della vocalità monteverdiana di tipo monumentale, di stampo melodrammatico, per voci «importanti». E la stessa presenza di un direttore attivo nel melodramma e famoso per le sue interpretazioni wagneriane e straussiane come Gino Marinuzzi ribadiva 1’intenzione di calare Monteverdi nel vivo della tradizione operistica. al fine di renderlo moderno e di colpo «popolare».

Il cospicuo spiegamento di mezzi utilizzati nella messinscena si riflette sulla orchestrazione di Benvenuti, massiccia e colorita, evidentemente preoccupata di reggere il peso della dispersione sonora di uno spettacolo all’aperto ma decisa a non rinunciare alla varietà delle proposte strumentali: l’organico della grande orchestra moderna, addirittura wagneriana, serve dunque non solo a ispessire il tessuto degli accompagnamenti ma anche a sottolineare i momenti lirici o drammatici, con uscite solistiche di marcata cifra espressiva o densi agglomerati timbrici, specialmente nel settore degli ottoni. Questo impiego dell’orchestra, che peraltro agli ascoltatori del tempo parve fin troppo povero e monotono, incide ovviamente sulla linea del canto, improntata a un declamato di statuaria robustezza, rinforzato continuamente da legature, segni duramici, agogici ed espressivi. Sembra di vedervi, in controluce, un modello nel dilagante declamato pizzettiano.

Non meno imponenti furono gli interventi di Benvenuti sotto l’aspetto drammaturgico, per quanto egli decisamente affermasse che «tutti gli sforzi non possono essere diretti ad altro che alla fedeltà, cioè ad una interpretazione comprensiva al massimo dell’opera d’arte». Del resto, tali patenti contraddizioni fra teoria e prassi sono una precisa caratteristica dell’epoca. Lo stesso Gian Francesco Malipiero, senza dubbio il piú profondo e rispettoso conoscitore di Monteverdi in area italiana, andava scrivendo in quegli anni che i libretti delle sue opere erano pasticci da dilettanti, intervenire sui quali era un dovere per salvare la musica. Ma con quali criteri?

La trascrizione di Luigi Dallapiccola del Ritorno di Ulisse in patria, presentata al Maggio Musicale Fiorentino del 1942, offre molti motivi di interesse anche da questo punto di vista, data la personalità dell’autore. E ciò, nonostante che Dallapiccola considerasse il suo lavoro essenzialmente «pratico», una «traduzione musicale» mirante a rendere possibile l’esecuzione di un capolavoro. Monteverdi per Dallapiccola rappresenta anzitutto «la piú completa e perfetta interpretazione musicale della parola che mai si sia avuta»; alla intatta evidenza del canto deve corrispondere una realizzazione musicale capace di potenziare il dramma sonoro, sempre fondamentalmente espresso dalla voce umana. Per Dallapiccola ciò non significa rinunciare ai mezzi dell’orchestra moderna: per caratterizzare, con determinati gruppi di strumenti, i personaggi principali e i momenti di maggiore intensità drammatica, traducendoli in una lingua che, senza tradire l’originale, si mostri comprensibile e familiare al pubblico d’oggi.

La trascrizione di Dallapiccola è dunque una «riduzione per. le scene moderne». E in quanto tale si concede numerosi e lunghi tagli, alleggerendo il dialogo, eliminando scene giudicate inessenziali al fine dell’azione, sopprimendo figure ed episodi mitologici convenzionali, mera concessione al gusto del tempo (per esempio il Prologo). A Dallapiccola questo sembra il modo migliore, se non l’unico, per mantenere vivo l’interesse drammatico e valorizzare così i tesori smisurati dell’opera (anche in rapporto al testo poetico, «interessante e attraente» ).

Le considerazioni di natura pratica coprono però soltanto una parte del lavoro dallapiccoliano; in realtà esso è, assai piú che una riduzione, una vera e propria interpretazione. I1 compositore Dallapiccola riflette la musica di Monteverdi nello specchio della propria sensibilità e della propria poetica, e ne trae lo spunto per aggiunte e ampliamenti che sviluppano possibilità implicite o potenziano coi nuovi mezzi moderni singole parti della composizione musicale, vuoi con l’inserzione di brevi episodi strumentali, vuoi con l’innesto di sostegni accordali incisivi sotto il profilo espressivo, vuoi infine con lo svolgimento di principi linguistici sottesi al dramma (per esempio quello del terna conduttore, appena accennato in Monteverdi, ed esteso da Dallapiccola anche ai personaggi di Ulisse e di Penelope per sottolineare l’unità musicale dell’azione).

Se il modello a cui Dallapiccola si ispirava era l’idea busoniana di trascrizione artistica, per sua natura libera nia non libertina (cioè risultato di proprietà, gusto e stile), la trascrizione del Ritorno di Ulisse in patria è un esempio luminoso e forse insuperato di incontro al vertice fra due compositori appartenenti a epoche fra loro lontane ma capaci di comunicare sulla stessa lunghezza d’onda, in profondità (alla radice, il personaggio di Ulisse, da sempre caro a Dallapiccola, e soggetto poi della sua ultima opera). Quando il capolavoro monteverdiano andò in scena al Maggio, e questa volta in un ambiente piú adatto, al chiuso del Teatro della Pergola. in una esecuzione stilisticamente curata, si trattò di una vera rivelazione, che tuttavia – come sempre accade nei grandi eventi – aprì molte piú discussioni di quante non ne chiudesse. Suo merito fu dunque anche quello di allargare il discorso sul teatro di Monteverdi e sul modo di eseguirlo, di interpretarlo, di realizzarlo. Si era in guerra, e molte cose di lí a poco sarebbero cambiate, anche se faticosamente nel difficile rapporto fra musicologi da un lato, musicisti dall’altro. Dallapiccola, che da artista aveva trattato Monteverdi senza rinunciare a proporne una sua visione, lanciava proprio in quell’occasione un messaggio, che era insieme un invito alla collaborazione e una profezia:

 

Sono convinto che, come da un lato esistono varie traduzioni omeriche o virgiliane, destinate ai molti che non sono in grado di leggere il testo originale, dall’altro lato infiniti studi di filologia pura, che chiariscono dubbi; che collazionano testi, cosí possano coesistere, senza darsi noia, le trascrizioni dei musicisti e quelle dei musicologi e che le une anzi debbano completare le altre.

Come le traduzioni (salvo casi rarissimi) hanno una vita limitata – perché piú o meno rispecchiano il gusto della loro epoca – e, scomparendo, cedono il posto ad altre traduzioni piú conformi al gusto delle nuove generazioni, cosí avviene, cosí deve avvenire per le traduzioni musicali. Né si potrà negare che analoga sorte sia riservata alle interpretazioni.

 

Ma «tradurre è tradire». Nello stesso volume di Musica (II, Firenze 1943) che ospitava lo scritto di Dallapiccola Per una rappresentazione de «Il ritorno di Ulisse in patria» di Claudio Monteverdi, l’insigne musicologo belga Paul Collaer si scagliava contro l’uso di modernizzare l’orchestra di Monteverdi, ribaltando completamente le argomentazioni di Dallapiccola: «I suoni che il compositore immagina e segna sulla carta non sono oggetti concreti che si possano isolare dall’atmosfera nella quale sono nati, dal senso esatto che avevano quando sono stati scritti. Allora come oggi, i segni della scrittura musicale raffiguravano note che non si possono far risonare in modo arbitrario. L’invenzione musicale è stata sempre legata all’esistenza di timbri determinati, ai quali l’autore ha espressamente pensato componendo l’opera sua. Mutare questi timbri equivale a modificare il significato del pensiero musicale; mutare l’equilibrio orchestrale, significa falsare lo spirito e tradire la sensibilità dell’opera». E dunque: «Cosí, quando si crede di arricchire una musica modificandone l`orchestrazione» – Collaer naturalmente non prende neppure in considerazione il sacrilegio di altre manomissioni – «non si giunge che a velarne le linee e ad offuscarne i colori; e allora il senso profondo dell’opera è immancabilmente alterato».

Di fronte a Dallapiccola, che nella sua traduzione dell’Ulisse aveva impiegato perfino il timbro romantico del clarinetto, Collaer sciorina l’elenco degli strumenti la cui designazione appare nelle opere di Monteverdi, e nel dispositivo dell’Orfeo in particolare. Non era il solo, anche in Italia, a reclamare il ritorno all’orchestrazione autentica di Monteverdi, se è vero che un Alfredo Parente aveva sostenuto già nel ’36 doversi «far rivivere la musica del passato nella piú genuina forma e quindi nel piú fedele spirito del documento». Invano ci si attenderebbe però di trovare nella prassi esecutiva del tempo riscontri a queste affermazioni.

Proprio L’Orfeo, la prima opera di Monteverdi e la «prima opera» per eccellenza nella storia del melodramma, si prestava a rendere concreti questi appelli al rispetto e alla comprensione delle indicazioni originali e della sonorità autentica voluta dall’autore. Non fu cosi; non almeno al Maggio, dove L’Orfeo apparve due volte, nel 1949 e nel 1957, e sempre nella trascrizione-revisione di Vito Frazzi. Il curioso miscuglio di orchestra moderna (legni, senza i clarinetti però, ottoni, arpa, cembalo e archi) e di strumenti antichi (un piccolo esercito: clarino, quinta, alto e basso, liuti, vulfango e basso, 2 violini piccoli alla francese, 10 viole da braccio, 3 bassi da gamba, 2 contrabbassi di viola) sembra essere una scelta di compromesso fra il restauro di una patina sonora antica e il cedimento alle sollecitazioni di timbri piú ricchi, di tecniche compositive piú moderne. I1 mite Frazzi, oltretutto, a differenza dell’intransigente Dallapiccola, non riuscì a evitare che il suo lavoro, non privo di un certo acume, venisse stravolto nella realizzazione esecutiva da esigenze spettacolari e interpretative di tutt’altro segno e perfino contraddittorie. Cosi, se l’edizione del ’49 al Teatro Comunale passò alla storia soprattutto per gli stupendi scenari classicheggianti di Giorgio De Chirico, di una bellezza visiva né archeologica né barocca, e per l’infuocata direzione di Antonio Guarnieri, che non era certo tipo da indulgere a troppe fisime restaurative, quella del ’57, trasferita nuovamente all’aperto in Boboli, piacque in primo luogo per le invenzioni coreografiche di Aurelio M. Milloss e per la scura voce di baritono di Giuseppe Valdengo, che faceva Orfeo, parte scritta per un tenore: in barba a Monteverdi, e anche al povero Frazzi, probabilmente, che ne aveva fatto un contralto (la superba Fedora Barbieri del ’49).

Proprio con L’Orfeo, dunque. fallisce l’aggancio del teatro di Monteverdi alle nuove istanze di esecuzioni basate su criteri, non si dice filologici. ma quanto meno sensibili alle indicazioni prescritte, o motivati da qualche presupposto non generico. non pretestuale. Istanze che del resto la cultura musicale italiana del dopoguerra, distratta da altri recuperi o avanzamenti, non è in grado di accogliere: come il suo massimo Festival puntualmente conferma. Passata l’ondata nazionalistica, che fra le due guerre aveva se non altro animato il dibattito sul riconoscimento del nostro passato e sul suo necessario recupero. il nome di Monteverdi stenta perfino a galleggiare nell’alluvione di musiche che le nuove mode impongono, con onnivora curiosità. Da un’alluvione, non metaforica ma reale, esso riemergerà a Firenze con l’Incoronazione di Poppea, spettacolo di riapertura del Teatro Comunale dopo il disastro del novembre 1966. Ma non farà rumore. Eppure i sintomi di un mutamento si colgono nella revisione di Riccardo Nielsen, assai rispettosa della partitura (punto di riferimento è l’edizione di Gian Francesco Malipiero condotta sul manoscritto veneziano) e molto sobria nei riempimenti orchestrali. Anche nella composizione della compagnia di canto si avverte una sensibilità piú conforme ai criteri di una proprietà stilistica; mentre l’aspetto spettacolare è contenuto per ragioni di forza maggiore (scene di fortuna e costumi presi in prestito dalla Scala), e anche ciò contribuisce a spostare l’attenzione sui valori specialmente musicali dell’opera.

Le tre recite dell’Incoronazione a meno di un mese dal disastro che aveva colpito la città sono una manifestazione dell’orgoglio di rinascita fiorentino, ma anche una preparazione delle celebrazioni legate alla ricorrenza del quarto centenario della nascita di Monteverdi nel Maggio 1967. Per l’occasione la scelta non cade su un’opera bensí su un collage di composizioni tolte dagli ultimi quattro libri di Madrigali, per illustrare nella forma di una festa teatrale il trapasso storico dalla polifonia madrigalesca allo stile rappresentativo. La «Festa Monteverdiana», ospitata nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, è guidata da Roberto Lupi (sulle accurate revisioni di Nielsen) e allinea accanto all’Orchestra, al Coro e al Corpo di Ballo dell’Ente (quest’ultimo impegnato nel balletto da camera Tirsi e Clori e nel Ballo delle ingrate, quasi spettacolo nello spettacolo) il complesso di strumenti antichi Nives Poli-Rolf Rapp, specializzato nella ricreazione di condizioni esecutive piú prossime a quelle di un determinato contesto storico. L’operazione è in sé discutibile, soprattutto nella impostazione del libretto, che inventa una vicenda scenica del tutto convenzionale; essa testimonia tuttavia l’interesse per una identificazione dell’arte monteverdiana in una prospettiva meno vaga e acritica, nient’affatto ancora risolta, ma almeno accennata e obiettivamente coinvolgente.

 

Può apparire curioso che negli anni che segnano la massiccia avanzata della filologia applicata anche alle esecuzioni musicali, con una coscienza storica sempre piú desiderosa di uscire dal terreno della ricerca e degli studi specialistici per aggredire quello della attuazione pratica delle sue conquiste (e la moda dilagante degli strumenti cosiddetti originali ne costituisce solo un aspetto), il nome di Monteverdi scompaia affatto dai cartelloni del Maggio. Questa circostanza sembra però soprattutto evidenziare la difficoltà di affrontare l’opera di Monteverdi in modo onnicomprensivo: come se proprio la maggiore conoscenza storica e la piú profonda consapevolezza critica, anziché ridurlo, dilatassero il solco fra progetto teorico e attuazione concreta di premesse certe. Ma certe in che senso? E certo che Monteverdi, la sua opera, siano valori, modelli, da cui nessuna civiltà, nessuna cultura, nessuna generazione può impunemente prescindere. E altrettanto certo che una totale autenticità storica è in questo caso impossibile: non possiamo ricreare esattamente le condizioni del passato, di quel passato. Per noi, drasticamente, Monteverdi si arresta davanti a un bivio, a due soluzioni: essere completamente innovativi e creativi, cercando di trasformarlo in una esperienza significativamente contemporanea; oppure, basandosi sulle nostre conoscenze storiche, cercare di restaurarne l’originaria fisionomia e sostanza, presentandolo in una ricostruzione il piú possibile fedele delle condizioni che lo determinarono nel contesto dell’epoca.

Non foss’altro per aver sciolto coraggiosamente, e insieme gioiosamente, questo nodo cruciale, l’edizione del 1984 del Maggio Musicale Fiorentino ha rappresentato un punto fermo nelle vicende monteverdiane di questi ultimi anni. Luciano Berio, che di quell’edizione fu il responsabile artistico, contrappose a una versione «storica» dell’Orfeo, realizzata nel chiuso del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio da The Early Opera Project sotto la guida di specialisti quali Roger Norrington e Kay Lawrence, una propria trascrizione della medesima opera. allestita en plein air nel cortile di Palazzo Pitti: versione, quest’ultima, «moderna». che faceva uso del rock, del jazz, del canto popolare accanto alla vocalità tradizionale; dei mezzi elettronici, delle bande musicali, dei complessi strumentali folcloristici accanto agli strumenti dell’orchestra, dal vivo e registrati. Fu così possibile confrontare direttamente i due versanti che, per strade opposte ma non in esclusione fra loro, conducono alla meta della scoperta di Monteverdi: viva ed emozionante sia che avvenga calandosi nel clima arcano e rarefatto di miti cortesi e preziosi, lontani nel tempo ma non dalla nostra sensibilità poetica e musicale, sia che si riveli, con voce amplificata e lacerante, attraverso i mezzi e gli stilemi eterogenei della musica contemporanea; a ribadire con forza che la distanza fra noi e Monteverdi è solo apparentemente incolmabile, ma anche a significare che la ricchezza delle potenzialità interpretative è tanto piú grande quanto piú si accetta di entrare nel vivo, di riflettere, di trasformare, di reinventare la tradizione esecutiva.

Dallapiccola, quarant’anni prima, aveva auspicato una collaborazione tra musicisti e musicologi. Berio riprende questa indicazione e la traduce in un lavoro di gruppo nel quale la fantasia creativa si sposa alla ricerca sperimentale, nel segno di un magistero compositivo rigorosamente disciplinato. E la parola, il suono di Monteverdi, benché trasformati, tornano come per incanto a farsi sentire. veicoli di profonde seduzioni, di messaggi pregnanti, di vertiginose aperture. Sfuggenti, eppure ogni volta distinti, infallibili.

Gli itinerari monteverdiani al Maggio Musicale Fiorentino, qui succintamente tracciati, non esauriscono naturalmente tutti i percorsi del labirinto. Essi rappresentano però un campione sufficientemente indicativo delle tendenze attraverso le quali si è sviluppata la fortuna di Monteverdi in Italia negli ultimi cinquant’anni. Sovente l’arte teatrale di Monteverdi appare appesa a un filo; sul quale, come acrobati piú o meno allenati, camminano coloro che hanno accettato la sfida del confronto con la sua grandezza. A venirne a capo. ciascuno con la propria esperienza, saranno quelli che sapranno riconoscere in quel filo un filo di Arianna, capace di vincere il labirinto elle ancora non cessa di attrarre.

Bruno Bartoletti / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
50° Maggio Musicale Fiorentino

Articoli