Sergej Prokof’ev – Il giocatore

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L’insostenibile leggerezza del gioco

 
Il giocatore è la prima opera teatrale importante scritta da Prokof’ev. Non contando gli abbozzi infantili e i tentativi della primissima età giovanile – che pur nella loro frammentarietà mostrano tuttavia un’attrazione potentissima e fantastica per il mondo della scena -, esso è preceduto soltanto dall’atto unico Maddalena (op. 13, 1911-13), fosca storia d’amore ambientata nella Venezia del Quattrocento su un libretto della poetessa e baronessa de Lieven. Due anni più tardi, nell’ottobre 1915, Prokof’ev comincia a lavorare all’opera Il giocatore. L’idea di comporre un’opera sul romanzo omonimo di Dostoevskij (1866) viveva però già in lui da qualche tempo, ed era anche qualcosa di piú di una semplice idea. Recatosi, forte della vittoria al Premio Rubinštein con il Primo Concerto per pianoforte, a Londra nel giugno 1914 per l’apertura della stagione dei Balletti Russi, Prokof’ev ne aveva parlato con Diaghilev, che subito aveva fiutato il talento straordinario del musicista poco piú che ventenne, e gli aveva sottoposto un piano di lavoro alquanto dettagliato. Ma Diaghilev aveva raffreddato il suo entusiasmo, sconsigliandolo di mettersi sulla strada dell’opera, forma teatrale agonizzante, per seguirlo invece in quella fiorente del balletto moderno, gloria della Russia. Prokof’ev, che per natura sapeva cogliere immediatamente il lato positivo delle cose, aderí all’invito (iniziò cosí un rapporto che avrebbe prodotto non soltanto alcuni balletti tra i suoi lavori migliori, ma anche uno sviluppo artistico ed estetico decisivo per la sua carriera); ma non abbandonò affatto l’idea dell’opera.

Dopo aver adattato questa volta lui stesso a libretto il romanzo di Dostoevskij, Prokof’ev impiegò cinque mesi e mezzo, tra il novembre 1915 e l’aprile 1916, per comporre l’opera; nell’estate del ’16 era occupato a stendere l’orchestrazione, avendo avuto assicurazioni da Albert Coates, direttore del teatro Marijinskij di Pietrogrado, che l’opera sarebbe stata rappresentata nella stagione 1916-17, alla fine di febbraio o ai primi di marzo. A gennaio, durante le prove, però, i cantanti e gli orchestrali, sobillati da alcuni membri della commissione del teatro contrari all’esecuzione (e fra questi c’erano Glazunov e Cui), insorsero contro la sua difficoltà e imposero il rinvio della prima di qualche mese. Il precipitare degli eventi in Russia in seguito alla rivoluzione di febbraio, con le sue ripercussioni anche sui responsabili artistici dei teatri, fece sí che il rinvio si tramutasse in annullamento.

Nel maggio 1918 Prokof’ev abbandonava la Russia portandosi dietro, insieme con molto altro materiale di lavoro, lo spartito del Giocatore. Sbarcato in America, trovò nel direttore dell’Opera di Chicago, l’italiano Cleofonte Campanini, un sostenitore disposto a rischiare su di lui e a commissionargli un lavoro per il teatro. Prokof’ev non ebbe dubbi e offri Il giocatore, mostrando a Campanini lo spartito ancora inedito. Ma come far arrivare da Pietrogrado la partitura? Verificatane l’impossibilità, Prokof’ev richiuse lo spartito e senza perdersi d’animo lanciò la proposta di una nuova opera, L’amore delle tre melarance da Gozzi, la cui idea gli era stata suggerita dal grande regista russo Mejerchol’d ancora nel 1917. Il primo trionfo della sua carriera di operista (30 dicembre 1921) compensava cosí la delusione per aver dovuto forzatamente accantonare il primo frutto maturo della sua attività teatrale.

Si chiude qui il primo capitolo della storia del Giocatore. Per vederne il secondo bisognerà attendere alcuni anni, durante i quali un attivismo frenetico, sempre oscillante fra le esibizioni mondiali come pianista e le evoluzioni nei territori estesissimi della composizione, consoliderà la fama di Prokof’ev senza tuttavia guadagnargli, soprattutto in patria, il rango di un’autorità indiscussa. E in questo periodo che Prokof’ev compone L’angelo di fuoco (progettato già in America nel 1919, ma scritto per la massi-ma parte in Europa tra il ’22 e il ’27); incontrando però nuove resistenze e difficoltà per trovare le condizioni che ne consentissero la rappresentazione. E forse fu proprio il desiderio ansioso di riempire i tempi morti fra la fine dell’opera e la data sempre più incerta del suo debutto (di fatto L’angelo di fuoco non sarà mai rappresentato vivente Prokof’ev) a spingerlo a riprendere in mano la partitura del Giocatore, che al suo ritorno in Russia aveva ritrovata intatta nella biblioteca del teatro di Pietrogrado, ora Leningrado. Ciò accadeva nell’estate del 1927.

Prokof’ev dunque continuava a credere nella sua opera giovanile. Il passare degli anni, con il suo carico di esperienze, rendeva però necessaria una revisione, se non una rielaborazione: piú che nel taglio drammatico, nel tessuto della strumentazione e nella scrittura vocale di alcuni personaggi. Questa versione sensibilmente modificata andò in scena per la prima volta al Théàtre Royale de la Monnaie di Bruxelles – dunque non in patria, dove Prokof’ev continuava a essere osteggiato – il 29 aprile 1929, senza tuttavia suscitare grandi entusiasmi. E spari subito, prima ancora di entrarvi, dal repertorio.

Prokof’ev aveva però cosí raggiunto il suo scopo, che era quello di far iniziare una nuova storia al suo primo lavoro importante per il teatro. Battezzando la sua opera, aveva realizzato quanto era in suo potere: se ne era in grado, ora essa avrebbe camminato sulle sue proprie gambe, andando tanto lontano quanto avrebbe meritato. A tutt’oggi questo percorso nei teatri del mondo è stato piuttosto breve. Fuor d’ogni dubbio inferiore a ciò che l’opera vale.

 

Due sono i filoni principali che attraversano la produzione teatrale di Prokof’ev: il primo – comico e fiabesco – trova la sua espressione in commedie come L’amore delle tre melarance e Matrimonio al convento (1940-43); il secondo – lirico e drammatico, con venature molteplici: dall’epico al tragico al satirico – ha sbocchi meno univoci, in opere come L’angelo di fuoco o Semjon Kotko (1939), sino al grandioso affresco riassuntivo dell’epopea tolstojana di Guerra e pace (1941-43, ma praticamente rielaborata fino alla morte nel 1953).

Il giocatore appartiene a questo secondo filone, ma con caratteri alquanto speciali. Infatti, se da un lato si tratta di un’opera concepita negli eccessi tipici dell’età giovanile – ed eccessivo Prokof’ev lo era per natura, almeno tanto quanto fu precoce nell’individuare un suo personale linguaggio musicale -, dall’altro lato la vicinanza della versione del ’27, quella definitiva, con L’angelo di fuoco non mancò di esercitare una chiara influenza sia tematica e stilistica sia di scrittura. Anche Il giocatore è la descrizione di un’ossessione patologica, schizofrenica: calata sullo sfondo di una società marcescente, cinica e ridicola, frenetica e disarmonica a tal punto da sembrare quasi preda di una persecuzione diabolica. La mania del gioco, nella quale questa persecuzione si esprime sotto fogge diverse, nei diversi personaggi, è però anche un mezzo per far venire alla luce nel momento di massima tensione passione e sentimenti, aspirazioni e impotenze, in una sorta di ricerca della verità estrema o forse piú semplicemente dell’ultima via d’uscita: quasi che solo cosí ogni personaggio potesse rivelarsi e comunicare con gli altri. Alla fine ognuno di essi – il Generale come il Marchese, Pauline come Alessio, e perfino la vecchia Nonna – sarà beffato nel suo tentativo di dominare il gioco e di capitalizzarlo per altri fini: acquisizione di danaro e di potere. Il gioco rimane fine a se stesso: rivelazione patente della sua insostenibile leggerezza. E le ultime, allucinate parole di Alessio ne sono la dimostrazione stessa.

La riduzione operata da Prokof’ev sul romanzo di Dostoevskij è a questo proposito illuminante. Il compositore non solo antepone alla vicenda, e quindi espunge dall’opera, la descrizione del carattere dei personaggi – ne dà però una traccia come premessa e indicazione di figure: la si veda stampata qui prima del libretto -, ma tralascia anche a bella posta tutte le digressioni, i ragionamenti e le riflessioni che concorrono ad approfondirne la fisionomia e la psicologia; e punta invece diritto, con aggiunte significative (la pantomima del Generale alla fine del terzo atto; la scena della roulette nel quarto), alla massima concentrazione del dramma, all’evidenza immediata dei conflitti e delle situazioni, insomma realisticamente alla nuda e cruda esposizione dell’azione.

Nel romanzo il protagonista, Alessio (Aleksej) Ivànovič, narra in prima persona la sua storia nella forma di un lungo, ossessivo monologo interiore; incorniciato, quasi a distaccarsi da fatti ormai trascorsi (le sue memorie), da un prologo e da un epilogo: Alessio cerca in fondo di spiegare a se stesso le ragioni del suo amore per Polina (Pauline) Aleksàndrovna, e che cosa lo attraesse a lei cosí insensatamente. Nell’epilogo, che Prokof’ev sopprime del tutto al pari degli antefatti, Alessio segue la mondana (anzi, «semimondana», stando al libretto) Bianche a Parigi e si dà alla bella vita; sperpera la sua vincita, riprende a giocare, viene imprigionato per debiti, esce e riprende a giocare; infine torna a incontrare Mister Astley e ha una discussione con lui: nonostante tutto non riuscirà a staccarsi dal gioco, anche se «Domani, domani tutto finirà!».

Rinunciando alla cornice e alla sonda che scava in profondità nella psiche di Alessio per trovare una giustificazione alla sua ossessione – ma va aggiunto che Dostoevskij allarga il raggio del tiro alla società del suo tempo e al problema dell’identità dei russi all’estero: si veda in questo programma il bel saggio di Martini -, Prokof’ev accentua la tensione dell’incalzare degli eventi e la concentra in un ritmo serrato, concitato, il cui motore propulsivo è la passione per il gioco: metafora ancor piú pronunciata che in Dostoevskij di una condizione umana di implacabile necessità, tale da attirare in un vortice e travolgere individui privi di forza interiore e di equilibrio come quelli che consumano le loro speranze nel variopinto scenario di Roulettenburg. Ne consegue che il motivo del gioco diviene esso stesso emblema di vitalismo ritmico, per toccare nel quadro centrale dell’ultimo atto – la scena nella sala da gioco – un vertice di pura follia musicale, scandito dal movimento inesorabile della pallina nella roulette, dagli ordini inappellabili del croupier, dal nervoso commento dei giocatori.

E plausibile che l’entusiasmo di Prokof’ev, lettore accanito, ma di tipo piú istintivo che riflessivo, fosse innescato proprio da questa situazione esistenziale estrema, esasperata, accesamente romantica, presente nel romanzo di Dostoevskij. La scelta del soggetto fu però determinata anche da considerazioni di altro genere, attinenti il problema stesso dell’opera. Musicando Il giocatore Prokof’ev intendeva reagire contro certe convenzioni drammatiche dell’opera tradizionale, e di quella russa in particolare. I cui difetti, a suo dire, si riassumevano nella indifferenza per il « côté» scenico: e dunque in una sorta di uniforme rigidità statuaria che mortificava la sensibilità per il ritmo interno, dinamicamente inteso, dell’azione. L’esigenza di conferire all’azione scenica flessibilità, continuità e scioltezza si scontrava soprattutto con l’abitudine di servirsi di libretti scritti in versi; una convenzione giudicata da Prokof’ev, alla lettera, «completamente assurda». Il giocatore trae da questi presupposti alcune conseguenze operative: un romanzo ricco di colori e di rilievi, mosso e reso convincente dalla prosa di Dostoevskij, diverrà la base per un’opera adattata dallo stesso compositore secondo criteri di scioltezza drammatica e di vivacità musicale; alle arie abituali e alle congiunture del verso si sostituirà una prosa libera, uno stile di conversazione flessibile e pregnante, organicamente connesso all’azione e amplificato, orientato dall’orchestra.

Queste tesi non erano soltanto il frutto dell’immaginazione particolarmente fertile di un ventenne smanioso e ribelle, ma partivano dalla consapevolezza, tanto piú sbalorditiva in quanto maturata in un ambiente relativamente chiuso, della situazione di crisi dell’opera moderna in un’epoca di trasformazioni radicali. Osservato da questo punto di vista, Il giocatore è la diagnosi precoce di un malessere storico; e nel contempo, quale terapia, delinea alcune tendenze dominanti nel teatro musicale d’avanguardia del Novecento, di cui Prokof’ev risulterà, pur fra mille peripezie e ripensamenti – spontanei o indotti dalle circostanze – un esponente di primo piano.

C’è però da rilevare che se la diagnosi era motivata, l’effetto, nel Giocatore del 1916, non era stato raggiunto in modo del tutto convincente. Assumendo entambi gli incarichi, Prokof’ev aveva inteso proclamare i diritti del musicista su quelli del librettista, onde lasciare alla musica gli spazi piú ampi per dispiegarsi in tutte le sue facoltà di descrivere, commentare, contrastare, accumulare, travolgere. In altri termini, protagonista nel Giocatore è l’orchestra: cui sono affidati compiti di alta definizione drammatica. Nella prima versione, però, il linguaggio sinfonico era risultato sovente sovrabbondante, pletorico, nervosamente eterogeneo: «Devo peraltro ammettere la grande parte fatta ai remplissages modernistici, implicanti solo delle difficoltà gratuite senza aggiungere nulla», commenterà l’autore nella sua autobiografia. Si è già detto che la preoccupazione principale di Prokof’ev, quando rimise mano alla partitura, fu quella di rendere l’orchestra piú agile e stringata senza tuttavia farle perdere il ruolo di filo conduttore del discorso: «Vidi allora con chiarezza», sono ancora sue parole, «quanto c’era di genuino e quanto era soltanto zavorra dissimulata da accordi fragorosi».

La seconda versione, piú essenziale, non si limita solo a ripulire e alleggerire l’orchestrazione, facendone emergere con piena lucentezza la continuità di strutture armoniche, ritmiche e sinfoniche, ma incide anche, se non soprattutto, sul canto. Qui le esperienze compiute nel frattempo, massimamente nell’Angelo di fuoco, si dimostrano decisive: nel senso che alla uniformità della declamazione intonata subentrano una piú marcata accentuazione lirica, una piú fluida e insieme penetrante espansione melodica, una piú soddisfacente e intensa ariosítà. L’esigenza di dare all’azione scenica una articolazione fluida, sciolta e all’orchestra una funzione di caratterizzazione drammatico-musicale si salda cosí con l’evidenza, il rilievo plastico del canto. E proprio questo impulso a fare del canto il veicolo centrale dell’espressione, quasi il polo magnetico che attira su di sé il complesso degli elementi scenicocompositivi, costituisce il tratto distintivo del teatro di Prokof’ev nel contesto dell’opera novecentesca.

Abolendo le forme chiuse, «poetiche», dell’opera tradizionale, colui recupera al teatro il suo valore piú intrinseco e caratterizzante: la forza rappresentativa del canto. Non per questo il programma del ’16 sarà stato smentito: il punto di arrivo del Giocatore è anzi la conferma della sua avvenuta maturazione alla luce dei problemi concreti della prassi operistica contemporanea. (e aggiungiamo tra parentesi: non nasconde forse un calcolo preciso il fatto che Prokof’ev traesse dall’opera riveduta e corretta una suite sinfonica in cinque numeri intitolata Portraits – op. 49, 1931 – che è invece la conseguente realizzazione della componente propria-mente sinfonica presente ab origine nella concezione della musica del Giocatore?).

Quando si parla di canto in Prokof’ev, e nel Giocatore in particolare, naturalmente bisogna intendersi. Esso non è mai canto aperto, disteso, di lunga gittata e respiro largo, ma successione, reiterazione di brevi, pregnanti formule melodiche configurate in modo tale da caratterizzare in modo spiccato un personaggio, una situazione, un sentimento. A beneficiare di questa tecnica espressiva non sono soltanto i momenti lirici, quasi tutti condensati nella pulsione amorosa di Alessio verso l’aspra, inafferrabile Pauline, ma anche quelli satirici, grotteschi, eccentrici e caricaturali. Il «tema» di Alessio, annunciato fin dalla sua entrata all’inizio dell’opera, è connotato vocalmente da una melodia che sale faticosamente verso l’acuto, e scivola dolorosamente quando viene pronunciato il nome di Pauline, con un semitono discendente: simbolo immediatamente chiaro di una tensione verso qualcosa che sfugge, irraggiungibile. Ma ogni personaggio è definito anzitutto dal suo stile vocale: la fatua Blanche, il cinico Marchese, il compassato Mister Astley, il grottesco principe Nilskij, il ridicolo Generale. Su tutti si innalza il personaggio della Nonna, che fa la sua inopinata apparizione alla fine del secondo atto e domina la scena nel terzo, fagocitata dal demone del gioco. L’immagine, intrisa di nostalgia e di tenerezza, della vecchia babulenka suggerisce a Prokof’ev il ricordo delle melodie d’infanzia e assume in termini di musica un colore inequivocabilmente russo, insieme squillante e sfumato, a poco a poco sempre piú evanescente: come se nel mondo torbido ed esaltato di Dostoevskij fosse comparso il fantasma della Donna di picche pukiniana.

Anche la roulette, che del Giocatore è forse il vero protagonista, ha la sua identità nella musica. Essa non è affidata al canto, ma all’orchestra, e si manifesta in tutta la sua carica stridente e dissonante – dopo aver circolato subdolamente fra i personaggi -nell’interludio primo del quarto atto. Quest’atto, diviso in tre quadri, è senz’altro il piú notevole e appassionante dell’opera. Vi figura al centro la già ricordata scena della casa da gioco, pagina di fenomenale abilità descrittiva e rappresentativa, resa ancora piú efficace dalla collocazione fra i due incontri risolutivi di Alessio e Pauline. L’interludio orchestrale che porta a questa scena è a sua volta rispecchiato da un secondo interludio che riconduce Alessio nella sua stanza, dove l’attende Pauline: al turbinare dell’orchestra si aggiungono qui le voci del coro fuori scena (dietro il sipario o in orchestra), che ripetono come in un’allucinazione le fasi concitate della prodigiosa vincita del giocatore. A poco a poco Alessio ritorna padrone di sé e offre a Pauline il suo riscatto: la ragazza prima accetta, poi lo respinge inorridita.

La concisione di quest’atto, pur nella varietà delle situazioni e dei mezzi espressivi, è un piccolo capolavoro di drammaturgia musicale. Sotto questo profilo la versione teatrale di Prokof’ev prende le distanze dall’epilogo del romanzo di Dostoevskij, arrestandosi con un doppio colpo di scena all’acme di un funesto delirio: paradossalmente, la vittoria del giocatore – mezzo e fine della sua felicità – coincide con il crollo delle speranze e delle illusioni, lasciandolo annichilito. L’insostenibile leggerezza del gioco celebra cosí il suo trionfo, con ironia tragica, senza scioglimento finale, senza catarsi.

Eduardo Mata / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica 1986

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