Johann Sebastian Bach – L’arte della fuga BWV 1080

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Johann Sebastian Bach

L’arte della fuga BWV 1080 (Trascrizione di Salvatore Di Gesualdo)

Fra le opere degli ultimi anni di Bach, l’Arte della fuga è quella che piú di tutte mantiene ancora oggi un carattere affascinante e insieme enigmatico. Considerata per lungo tempo una monumentale testimonianza di scienza musicale, nella quale si intrecciano fino alle ultime possibilità costruttive i principi della polifonia in stile antico e quelli del moderno contrappunto armonico, della tradizione vocale e di quella strumentale, l’Arte della fuga ha visto definitivamente riconosciuti nel nostro secolo anche i suoi valori di opera d’arte poetica, manifestazione stupefacente di grandezza spirituale, di intuizione espressiva e di rappresentazione simbolica. E ciò proprio in anni in cui la ricerca musicologica piú agguerrita e obiettiva fissava i limiti invalicabili che si frappongono alla reale conoscenza della genesi e delle intenzioni dell’ultimo testamento incompiuto di Bach.

Su di esso gravano infatti quesiti e interrogativi di vastissima portata. A cominciare dal titolo, che non è originario di Bach, dal numero e dalla disposizione dei singoli brani, che è possibile ricostruire solo per via congetturale. L’autografo di Bach conservato alla Biblioteca di Stato di Berlino rivela l’incompiutezza dell’opera (l’ultimo contrappunto è troncato alla battura 239 e si interrompe nel momento in cui verosimilmente dovrebbe entrare il quarto soggetto) e manca di alcuni contrappunti che figurano invece nell’edizione a stampa. Questa uscì, incisa su rame, tra la fine del 1750 e l’inizio del 1751, subito dopo la morte di Bach: senza il nome dell’editore (che era forse Schübler di Zella) e con alla fine il corale per organo Vor deinem Thron tret’ich hiermit (a sua volta rielaborazione ampliata e modificata del corale Wenn wir in höchsten Nöthen sind BWV 641, dell’Orgelbüchlein), ultima composizione di Bach, che egli stesso ormai cieco e in fin di vita avrebbe dettato dal letto di morte al genero Johann Christoph Altnikol. E stato osservato che l’inserimento di questa pagina, del tutto ingiustificato dal punto di vista del carattere dell’opera, può essere spiegato dal punto di vista «sentimentale» come un tentativo di darle una conclusione; ad avere quest’idea fu probabilmente Carl Philipp Emanuel Bach, cui si dovrebbe anche la breve annotazione riportata in calce sull’autografo bachiano: «Su questa fuga, nel punto dove avrebbe dovuto apparire al controsoggetto il nome B.A.C.H., l’autore è morto».

Anche sulle date di composizione dell’Arte della fuga sussistono molti dubbi. Iniziato forse nel 1747, il lavoro fu interrotto nella primavera del 1749: la vista di Bach si era allora notevolmente indebolita e il suo stato generale di salute era peggiorato, tanto che le autorità di Lipsia avevano cominciato a pensare a un sostituto. E probabile però che già a partire dal 1740 Bach avesse cominciato a raccogliere materiale per un’opera di questo genere, e che il 1747 segnasse l’inizio della organizzazione sistematica di esso. Ciò significherebbe che la somma della dottrina del comporre nel campo della polifonia e del contrappunto quale risulta nell’Arte della fuga abbraccerebbe un periodo molto piú ampio di ricerca e non avrebbe necessariamente i caratteri dell’estremo testamento lasciato ai posteri. D’altro canto, il risultato del manoscritto autografo non si presenta come un prodotto completo ed esattamente definito in tutte le sue parti, ma di problematica interpretazione per quanto riguarda sia la struttura globale sia le relazioni fra i singoli brani; complicata anche dalle varianti e dalle aggiunte dell’edizione a stampa.

Alla prima edizione segui a brevissima distanza di tempo, nel 1752, la seconda, questa volta a Lipsia, ma ciò non portò affatto a una maggiore circolazione e diffusione dell’opera: sappiamo che quattro anni e mezzo dopo, nell’autunno del 1756, ne erano state vendute in tutto trenta copie, con un ricavato inferiore al costo delle spese di incisione. Ciò dimostra, fra l’altro, l’insensatezza della tesi che vede nell’Arte della fuga un’opera pensata anzitutto a fini didattici: essa rappresenta semmai il suggello di un’alta scuola di perfezionamento, una sfida riservata a chi, dello stile polifonico e contrappuntistico, abbia già una padronanza pressoché completa e voglia, con l’aiuto di Bach, sfiorare le barriere dell’assoluto musicale. Forse non aveva tutti i torti Marpurg quando addebitava la scarsa diffusione dell’Arte della fuga presso i contemporanei a un mutamento di gusto che penalizzava le forme gloriose del contrappunto severo a tutto favore delle nuove piacevolezze dello stile rococò.

Nell’Ottocento le cose sostanzialmente non migliorarono, anche se la versione pianistica pubblicata da Carl Czerny verso il 1840 ebbe una non trascurabile importanza nel movimento di riscoperta di Bach, del Bach cosiddetto teorico e dottrinario, affrontando anche il problema della destinazione strumentale dell’opera. Questo problema, risolto da Czerny servendosi delle risorse tecniche ed espressive del pianoforte romantico, tornò a porsi in tutta la sua complessità nel nostro secolo, quando si moltiplicarono le edizioni e le relative nuove versioni o interpretazioni strumentali dell’Arte della fuga, di pari passo con una sempre maggiore consapevolezza critica della sua immensa forza e grandezza musicale e spirituale, tecnico-compositiva ed espressiva.

 

La struttura fondamentale dell’Arte della fuga è costituita da venti pezzi, chiamati semplicemente Contrapunctus oppure Canon, privi di qualsiasi indicazione strumentale. Ad essi seguono due fughe per due clavicembali, che sono elaborazioni pratiche di numeri precedenti, e la fuga incompiuta a tre soggetti. Qui l’Arte della fuga si arresta, senza concludersi. E probabile, per non dire certo, che il disegno architettonico concepito da Bach prevedesse una disposizione ancora piú ampia e ricca di questa; sicché la questione della compiutezza del lavoro va assai oltre il problema di portare a fine l’ultima fuga interrotta, come da molti è stato tentato, e riguarda anche la successione e l’articolazione dei singoli numeri nel piano globale. Se è vero che Bach voleva racchiudere in quest’opera tutte le possibilità tecniche e costruttive, tutte le combinazioni e gli artifici della fuga, è altrettanto evidente che solo a lui era possibile intuire fino a qual punto si sarebbe spinto, dato che aveva già oltrepassato da un pezzo le soglie del consueto, dello scolastico e dell’accademico. A noi non rimane che prendere atto della forma dell’Arte della fuga cosí come ci è pervenuta, rinunciando a tentare, o almeno a considerare piú attendibili, ipotetiche ricostruzioni fondate sui criteri formali dell’organizzazione polifonico-architettonica e delle relazioni fra serie omogenee di contrappunti e canoni. E indubbio che la composizione tenda, via via che procede, a espandersi sempre di piú e ad ascendere verso una complessità tecnica cui corrisponde una sempre maggiore chiarezza e trasparenza espressiva, tanto piú percepibile quanto piú è astratta; sicché l’apice coincide proprio con il momento in cui l’ultima fuga s’interrompe, lasciando solo intravedere soluzioni ancor piú monumentali e vertiginose. Idealmente, essa non può avere una conclusione, essendo infinite le incarnazioni e le metamorfosi dell’arte della fuga.

Ciò non toglie che sia possibile riscontrare nei venti numeri che la compongono un ordine e una classificazione, secondo quei principi di simmetria e di equilibrio che governano, quasi per spontanea necessità razionale, il pensiero musicale di Bach. I contrappunti da 1 a 4 sono fughe semplici; da 5 a 7 controfughe; da 8 a 11 fughe doppie; da 12 a 15 fughe a specchio. Il numero 16 (contrappunto a 4) è una variante del numero 10. Inizia poi la serie delle fughe canoniche, dal 17 al 20. Quindi Bach passa alle realizzazioni per uso «pratico», con due tastiere, e «chiude» con la grande fuga a tre soggetti. Il carattere di progressiva espansione compositiva risulta chiaro da questa distribuzione; ma esso è già presente nell’unico tema che sta alla base dell’intera opera, un tema che si muove dapprima sulle note fondamentali della triade di re minore per toccare poi la regione della dominante e articolarsi ritmicamente secondo valori via via decrescenti. Anche dal punto di vista armonico, dunque, è possibile riconoscere un’unità fondamentale data dalla relazione fra tonica e dominante (re e la sono evidenziate perfino melodicamente all’esordio dell’opera), tanto elementare quanto capace di tenere in pugno tutte le diramazioni dell’elaborazione polifonica e contrappuntistica. E, da ultimo, il fatto che tutta l’Arte della fuga sia basata su un unico tema, rende valida la considerazione avanzata da molti sulla magistrale fusione operata da Bach fra il principio creativo della fuga e quello della variazione.

Assai controversa, e pur ricca di sviluppi, è la questione della destinazione strumentale dell’Arte della fuga. L’opera è redatta in «partitura a quattro» e le parti sono indicate secondo l’antica terminologia vocale (discantus, altus, tenor, bassus), già in uso, fin dai tempi di Frescobaldi, nella notazione organistica. La destinazione organistica sembrerebbe dunque la piú plausibile, ma stilisticamente molti numeri suggeriscono piuttosto un’esecuzione clavicembalistica, per una o due tastiere. Del resto, come è noto, ai tempi di Bach il termine Klavier indicava genericamente lo strumento a tastiera. A questo tipo di esecuzione, per l’uno o l’altro strumento, se ne aggiunsero altri, per pianoforte, quartetto d’archi, complessi da camera, orchestra e recentemente perfino computer, ognuna a suo modo «lecita».

La versione per fisarmonica classica di Salvatore Di Gesualdo è in questo senso forse la piú bizzarra di tutte, ma non certo immotivata, giacché nell’idea stessa dell’Arte della fuga è contenuto il concetto di una successiva trascrizione strumentale con le sue diverse, specifiche realizzazioni. E ognuna di queste trascrizioni ne illumina a suo modo il carattere, senza nuocere alla sostanza astratta e spirituale del lavoro. Esso si presenta anzi, proprio in una versione di questo tipo, quanto mai immediato e comprensibile, attraverso la sintesi d’una polifonia differenziata (l’articolazione del mantice della fisarmonica segue le singole voci come in una proiezione esterna dei polmoni) con l’evidenza delle pronunciate sottolineature tematiche.

Se la scelta dei pezzi è di necessità subordinata alle possibilità realizzative dello strumento (e Di Gesualdo è musicista troppo sensibile per forzarne la natura), non per questo l’immagine dell’Arte della fuga ne uscirà stravolta. Opera non nata per l’esecuzione in concerto, e nello stesso tempo capace di rivelarsi in ogni tipo di esecuzione, parziale o integrale, secondo l’ordine originario o in uno reinventato, l’Arte della fuga racchiude in ogni singolo numero la compiutezza organica di un magistero compositivo sostanziato di tecnica e di poesia, nel quale la materia diviene spirito solo per tornare, sublimata, a farsi materia: suoni, ritmi, voci che si intrecciano, e si rincorrono, e si trasformano, nell’eterna armonia dei simboli musicali.

Salvatore Di Gesualdo
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti 1986

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