Alle soglie della fine
«Sai tu come ciò avvenne?»
(Crepuscolo degli dei, prologo: scena delle Norne)
I1 2 ottobre 1869 Wagner cominciò lo schizzo della composizione del Crepuscolo degli dei con le battute iniziali della scena delle Norne. Erano passati quasi vent’anni da quando aveva abbozzato lo schizzo compositivo della prima versione di questa scena, che allora apriva ancora una vasta opera eroico-romantica in tre atti a sé stante e intitolata Siegfrieds Tod (Morte di Sigfrido). Da quel progetto imperniato sul mito nibelungico di Sigfrido, la cui stesura in versi risaliva addirittura alla fine del 1848, era nata per ragioni di comprensione del dramma e di chiarezza nella musica l’azione drammatico-musicale della «sagra scenica» L’anello del Nibelungo, in cui la Morte di Sigfrido, nel frattempo divenuta con opportune modificazioni Crepuscolo degli dei (Götterdämmerung), chiudeva, dopo il prologo L’oro del Reno e le due prime giornate La Walkiria e Sigfrido, la grandiosa vicenda. Se la stesura poetica dei testi era avvenuta a ritroso, dalla catastrofe finale risalendo fino agli antefatti più remoti del prologo L’oro del Reno (quest’ultimo compiuto alla fine del ’52, insieme con le rielaborazioni pressoché definitive dei primi due drammi, Morte di Sigfrido e Il giovane Sigfrido), la composizione della musica si era snodata seguendo l’ordine naturale degli avvenimenti: dapprima con relativa facilità (L’oro del Reno, compresa la strumentazione, richiese appena sette mesi, dal 1° novembre 1853 al 28 maggio 1854; altrettanto La Walkiria, già interamente abbozzata il 27 dicembre 1854, ma finita di strumentare soltanto il 23 marzo 1856); poi tra difficoltà tali da indurre Wagner a interrompere improvvisamente a mezzo del secondo atto il Sigfrido (27 giugno 1857) per dedicarsi ad altri, più realistici progetti.
Nel lungo periodo, durato ben undici anni, dell’interruzione dell’Anello, la vicenda creativa e umana di Wagner subì decisive e profonde trasformazioni, che se da un lato non mancarono di ripercuotersi sulla composizione delle restanti parti della Tetralogia, dall’altro fornirono i presupposti artistici, psicologici e materiali per la sua conclusione e rappresentazione scenica nelle forme e nei modi desiderati da Wagner. In quegli anni Wagner non soltanto compose Tristano e Isolda (1857-59, rappresentato a Monaco il 10 giugno 1865), una nuova versione per Parigi del Tannhäuser (1861) e I maestri cantori di Norimberga (1866-67, rappresentati con grande successo a Monaco il 21 giugno 1868), ma scoprì anche nella devozione appassionata del giovane re di Baviera Luigi II un mecenate e un amico interamente votato alla sua causa; e trovò, nell’unione prima clandestina poi stabile con Cosima Liszt, un equilibrio di serenità e felicità fino ad allora sconosciuto. Fu sotto la spinta di impulsi tra loro così diversi che Wagner poté riprendere verso la fine del 1868 il lavoro alla Tetralogia, deciso a portare a termine, dopo il Sigfrido (ultimato alla fine del settembre ’69), la terza e conclusiva giornata. E difatti senza neppure stendere in bella copia la partitura del Sigfrido (che fu pronta solo il 5 febbraio 1871), il 2 ottobre 1869 Wagner pose mano alla composizione del prologo del Crepuscolo degli dei, quella «scena delle cupe sorelle reggitrici dei destini del mondo» che solo ora poteva risultare, nell’ambito della Tetralogia, in una giusta luce.
Una nuova prospettiva
La storia e gli stessi tempi della composizione del Crepuscolo sono indissolubilmente legati alle vicende che portarono alla edificazione del tempio in cui avrebbe avuto luogo la prima rappresentazione integrale dell’Anello del Nibelungo: il «teatro dell’avvenire» sulla verde collina di Bayreuth. Il sogno di fare della piccola città bavarese il centro consacrato alla sua arte covava in Wagner da trentacinque anni, ossia da quando durante un viaggio dei tempi di gioventù, per uno di quei casi che nella sua vita sembrano nati sotto il segno di fatali predestinazioni, aveva avuto la rivelazione di Bayreuth, e di ciò che una tranquilla e ridente cittadina come Bayreuth, con un suo teatro, una sua storia e una sua propria, naturale bellezza, avrebbe potuto significare per lui: tanto più, ora, per i suoi Nibelunghi.
Nell’aprile 1863, pubblicando in edizione a stampa il poema, nella prefazione Wagner era tornato a esporre – ché la prima folgorante idea risaliva a tredici anni addietro – le necessità che sole ne avrebbero permesso un’adeguata realizzazione scenica e musicale: un auditorio costruito ad anfiteatro, la fossa d’orchestra invisibile al pubblico, un palcoscenico e un’acustica appositamente studiati per le caratteristiche del Wort-ton-drama, lunghi periodi di prove con artisti espressamente scelti e istruiti dall’autore. A tale scopo aveva incaricato l’architetto zurighese Gottfried Semper di preparare alcuni progetti edilizi per un nuovo teatro da costruire a Monaco; ma l’ostilità sempre più acuta degli ambienti ufficiali della capitale bavarese e lo stesso desiderio di non esporre troppo scopertamente re Luigi, lo avevano convinto a desistere dai suoi piani. Se a quel tempo la ripresa della composizione dell’Anello era ancora lontana, ora che la sua conclusione si appressava urgeva pensare a una nuova prospettiva. E per Wagner fu del tutto naturale ridestarsi al sogno di Bayreuth per cercare di tradurlo in realtà.
Bayreuth possedeva già un opulento teatro d’opera settecentesco, tutto in legno, fatto costruire dal giovane margravio Federico al famoso architetto italiano Giuseppe Galli Bibiena, e in un primo tempo Wagner aveva pensato a quello. Ma poiché esso si rivelò inadeguato alle sue esigenze, pensò subito di far costruire, a Bayreuth ma fuori dal centro urbano, un nuovo teatro adatto alla rappresentazione dei suoi drammi musicali. Questa decisione fu presa nel corso di una visita a Bayreuth durata solo tre giorni (16-19 aprile 1871), dopo aver ricevuto l’assicurazione che le autorità cittadine l’avrebbero appoggiata. Neanche dieci giorni dopo Wagner costituiva a Berlino il patronato per la costruzione del nuovo teatro, aprendo la sottoscrizione delle obbligazioni destinate a coprirne le spese: firmando una delle obbligazioni, il patrono acquistava il diritto a un posto per le rappresentazioni di un intero ciclo dell’Anello del Nibelungo.
Quando il 12 maggio 1871 da Lipsia, sua città natale, Wagner annunciò al mondo che il primo festival di Bayreuth si sarebbe tenuto nell’estate 1873, lo schizzo compositivo e quello orchestrale dell’intero primo atto del Crepuscolo erano finiti da quasi un anno (rispettivamente dal 5 giugno e dal 2 luglio 1870). Se la previsione di Wagner si rivelò azzardata e assai ottimistica, ciò fu dovuto alle lungaggini burocratiche e alle obiettive difficoltà finanziarie dell’impresa, non certo a problemi compositivi. Allorché finalmente il 7 novembre 1871 la deputazione comunale di Bayreuth deliberò in favore dell’iniziativa, Wagner era intento a stendere per esteso l’abbozzo orchestrale del secondo atto, dopo averne ultimato la composizione in quattro mesi esatti (24 giugno-25 ottobre). Nel suo modo di lavorare, adesso, si serviva di una tecnica nuova, in parte già proficuamente sperimentata nel terzo atto del Sigfrido: allo schizzo compositivo vero e proprio faceva seguire subito l’abbozzo orchestrale, con segni sintetici ma precisi. E questo, più che per la smania di finire presto, perché intere scene gli si presentavano alla mente nella loro particolare veste o colore strumentale, sì che composizione e orchestrazione diventavano una cosa sola (la puntuale corrispondenza fra i due elementi è uno dei tratti stilistici fondamentali della struttura musicale del Crepuscolo). L’arco del dramma solidamente disegnato e la tecnica musicale basata sull’uso dei Leitmotive consentivano a Wagner di avere un quadro complessivo e insieme dettagliato del lavoro: fu così, per esempio, che tra la fine d’agosto e la fine di settembre del ’71 poté anticipare con assoluta sicurezza l’abbozzo della marcia funebre di Sigfrido prima ancora di cominciare il terzo atto.
Dopo aver terminato il 19 novembre il secondo atto, Wagner tornò a pensare alle cose pratiche. Fu a Bayreuth dal 14 al 16 dicembre, e poi di nuovo dal 31 gennaio al 2 febbraio ’72: visite lampo, ma proficue. Nel corso di quest’ultima fu fatta la scelta definitiva circa il terreno e i preparativi per la costruzione del nuovo Festspielhaus, mentre per sé e la sua famiglia Wagner acquistò il fondo su cui sarebbe sorta villa Wahnfried, l’asilo estremo della sua errabonda esistenza. E quando il 22 luglio 1872 anche il terzo atto del Crepuscolo fu compiuto, comprese le estese annotazioni orchestrali, sulla verde collina della Bürgerreuth sovrastante la città i lavori fervevano a pieno ritmo, ricorrendo due mesi esatti dalla posa della prima pietra.
« Sii benedetta, pietra mia… »
La festosa cerimonia della posa della prima pietra, avvenuta il 22 maggio 1872 (giorno del cinquantanovesimo compleanno di Wagner), è uno degli episodi fondamentali della sua biografia. Nietzsche, a quel tempo ancora intimo fra gli intimi, ce lo ha narrato in modo conciso ma del tutto adeguato alla solennità del momento. Wagner, visibilmente commosso, accompagnò le tre rituali martellate con le parole: «Sii benedetta, pietra mia, resisti salda e a lungo!». Entro la pietra fu riposto un astuccio contenente, oltre ai documenti della costruzione e al telegramma augurale del re di Baviera, questi quattro versi del Maestro: «Qui racchiudo un segreto, / perché vi riposi per molti secoli. / Finché la pietra lo custodirà, / esso si rivelerà al mondo». Seguirono il discorso ufficiale, accorto e insieme appassionato, e nel pomeriggio l’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven, l’opera che Wagner amava più di ogni altra, nel vecchio e sfarzoso teatro margraviale; infine, il banchetto d’onore. La mattina dopo nella sala del municipio si tenne l’assemblea dei patroni e dei delegati della società Wagner, da poco costituita con sede a Berlino. Ancora una volta Wagner aveva saputo distribuire compensi e compiti con sapiente regia.
Se egli non dovette pagare tributo così funesto come quello di Wotan per conquistare il suo Walhalla, i momenti di difficoltà e di sconforto non mancarono. I fondi del patronato bastarono appena per portare a termine i lavori di edificazione, che richiesero in tutto quattordici mesi. Il 2 agosto 1873 ebbe luogo la festa della copertura del teatro, alla presenza di Liszt e in un’atmosfera di eccitazione e di entusiasmo. Ma ci fu un momento, verso la fine dell’anno, in cui la grande impresa parve destinata a fallire per mancanza di denaro. L’appello lanciato da Wagner nell’assemblea generale dei patroni del 31 ottobre rimase inascoltato, lasciandosi dietro conflitti e strascichi di incomprensioni perfino con Liszt e Nietzsche (il suo generoso «Monito ai tedeschi» era stato respinto perché giudicato poco adatto alla delicata strategia della situazione). Wagner si vide costretto suo malgrado a chiedere di nuovo aiuto a re Luigi, con il quale i rapporti si erano notevolmente raffreddati dopo i violenti scontri per le prime rappresentazioni monacensi dell’Oro del Reno (1869) e della Walkiria (1870). Seppur riluttante, l’antico e munifico mecenate accordò un cospicuo prestito dai suoi fondi privati, a cui si aggiunse anche una elargizione personale dell’imperatore Guglielmo I. Grazie a questi aiuti, uniti ai proventi di una massacrante attività di concerti a cui Wagner si sottopose per sovvenzionare l’impresa, fu possibile stabilire definitivamente i termini del primo festival: l’estate 1875 per le prove, l’estate 1876 per le prime rappresentazioni integrali dell’Anello del Nibelungo. Nel frattempo il 24 dicembre 1873 era stata ultimata la bella copia della partitura del primo atto del Crepuscolo, la cui stesura era cominciata il 3 maggio.
Le grandi manovre
A Bayreuth, dove dalla fine dell’aprile ’72 Wagner si era stabilito nella stupenda proprietà denominata «La Fantaisie», in attesa che fossero finiti i lavori di costruzione della villa Wahnfried (ne avrebbe preso possesso esattamente due anni dopo, il 28 aprile 1874, con la moglie Cosima e i figli), funzionava già dall’inverno 1872-73 la cosiddetta «Cancelleria nibelungica», nella quale giovani musicisti raccoltisi spontaneamente e senza alcun compenso provvedevano a copiare le parti di canto e dell’orchestra. Ma ora che i termini erano fissati, bisognava mettere in moto il complicato meccanismo delle scritture, dal direttore d’orchestra a scenografi e macchinisti, dai cantanti al personale d’orchestra. Se la scelta del direttore d’orchestra era già fatta (Hans Richter, diventato, dopo il distacco di Hans von Bülow, il braccio destro di Wagner), maggiori problemi presentava la selezione degli altri collaboratori, i quali dovevano non soltanto corrispondere alle esigenze artistiche dello stile di canto wagneriano, ma anche uniformarsi in modo esclusivo e incondizionato, e per di più con spontanea, assoluta convinzione, ai voleri dell’autore: per sé infatti Wagner aveva riservato, oltre alla direzione artistica generale, il ruolo specifico di regista e istruttore dei cantanti. Come scenografo e costumista la scelta cadde infine su Joseph Hoffmann, in seguito affiancato dai fratelli Brückner; per la compagnia di canto Wagner riuscì ad assicurarsi la collaborazione di interpreti rinomati e già familiarizzati con le sue opere, come il tenore Albert Niemann (per la parte di Siegmund) e i bassi Franz Betz (Wotan) e Karl Hill (Alberich), accanto a quella di alcuni giovani di sicuro talento, come Amalie Materna (Brunilde), Georg Unger (Sigfrido), Lilli e Marie Lehmann; mentre per l’orchestra, inaugurando così una tradizione da allora sempre rimasta nei festival di Bayreuth, pensò di riunire musicisti provenienti da tutti i maggiori teatri d’opera tedeschi.
Le grandi manovre di preparazione erano cominciate alla fine del ’74 e sí protrassero per la prima metà del ’75. Intanto anche la partitura del Crepuscolo degli dei era finita, e con essa l’intera Tetralogia. Dopo il secondo atto (26 giugno 1874), anche la strumentazione completa del terzo aveva ricevuto stesura definitiva, il 21 novembre 1874: ventisei anni dopo la prima idea di quell’opera, ventuno da che Wagner aveva avuto la visione musicale dell’accordo di mi bemolle maggiore «dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti» che apre, sprofondato in lontananze mitiche, la partitura dell’Oro del Reno. Ora l’opera era compiuta. Nel 1869, subito dopo aver ripreso in mano la composizione del Sigfrido, Wagner aveva scritto a re Luigi: «Un’interruzione di dodici anni in un’opera è certamente inaudita nella storia dell’arte, e se poi si scoprirà che tale interruzione non ha nulla tolto alla freschezza della mia concezione, posso considerarlo come prova che questa concezione ha una vita eterna e non è di ieri né di domani».
Alla fine di giugno 1875 ebbero inizio finalmente le prove dell’Anello, dapprima a villa Wahnfried con i cantanti, poi (1° agosto) con l’orchestra nella sala ancora incompiuta del nuovo teatro. Wagner fu soddisfatto nel constatare che esso rispondeva perfettamente alle esigenze acustiche e sceniche per cui era stato ideato, soprattutto nel rapporto tra fossa d’orchestra (il «golfo mistico» invisibile) e palcoscenico. Qui i cantanti, senza essere mai soverchiati neppure dalle più poderose masse orchestrali, potevano essere uditi fin nelle minime sfumature vocali e rimanevano sempre distintamente visibili nel quadro scenico, da ogni posto della sala: necessità primaria nella concezione di una nuova opera d’arte totale, poetico-drammatico-musicale, e garanzia di una partecipazione assoluta al rito della «sagra scenica» da parte degli ascoltatori.
Dopo l’interruzione prevista, le prove ripresero il 3 giugno 1876 per concludersi, curate personalmente da Wagner fin nei minimi dettagli scenici e musicali, il 4 agosto. I1 6 agosto ebbero inizio le prove generali, a cui assistette anche re Luigi (sarebbe poi tornato a Bayreuth per il terzo ciclo di rappresentazioni ufficiali). E venne così l’ora fatidica della prima rappresentazione integrale della tetralogia L’anello del Nibelungo in quattro serate, come Wagner l’aveva concepita e caparbiamente voluta: rispettivamente il 13 (L’oro del Reno), il 14 (La Walkiria), il 16 (Sigfrido) e il 17 (Crepuscolo degli dei) agosto 1876. Rievocare, anche per sommi capi, quell’evento storico, ci porterebbe lontano. Basterà qui ricordare, fra le tante testimonianze dirette e indirette, due voci diversissime sul significato della realizzazione del grandioso, fantastico progetto di Bayreuth. Colui al quale era dovuta l’unificazione degli stati tedeschi in un nuovo e potente regno, l’ottantenne imperatore Guglielmo I, venuto come tanti a onorare Wagner per l’inaugurazione, salutò amichevolmente il musicista con queste parole: «Non avrei mai creduto che Lei ci sarebbe riuscito. E ora sono qui!». E il direttore d’orchestra Hermann Levi, il futuro primo interprete del Parsifal, ebreo, amico e devoto ammiratore dell’«antisemita» Wagner, così scrisse al padre, primo rabbino a Giessen, alla fine d’agosto ’76: «Sono vecchio abbastanza per non lasciarmi ingannare – e ti dico che ciò che si è compiuto quest’anno a Bayreuth produrrà una rivoluzione totale nella nostra vita artistica».
Dramma e musica
Delle quattro opere che compongono la tetralogia dell’Anello del Nibelungo, il Crepuscolo degli dei è senza dubbio la più intricata e complessa. La sua complessità è data non soltanto dalle proporzioni esterne, in quest’ultima giornata ancor più gigantesche che nelle precedenti (un vasto prologo suddiviso in due parti, e tre grandi atti rispettivamente di tre, cinque e tre scene: quasi una proiezione simmetrica, su scala ridotta, della macrostruttura dell’intera «sagra scenica»); soprattutto però dalla estrema densità e concentrazione della musica, in sé e rispetto al dramma, e dalla evoluzione stessa della vicenda dal punto di vista drammaturgico. Dopo la luce trionfante che nell’ultima scena del Sigfrido lasciava presagire il riscatto della lunga catena di colpe e la redenzione per mano della coppia unita dall’amore e dal sapere, alle soglie della fine tutto si oscura ed è rimesso in discussione per volere di un destino trascendente e implacabile: crepuscolo degli dei, inevitabile quanto doloroso, ma anche annientamento del mondo e della speranza di redimerlo.
Dal punto di vista drammaturgico, nel Crepuscolo degli dei l’azione scorre lineare, incisiva, assai ricca di fatti ed eventi teatrali, in una serrata successione di scene che abbracciano piani diversi, da quello mitico al divino, dall’eroico all’umano. È questa la prima novità specifica dell’architettura formale del Crepuscolo, a cui la musica dà sostanza attraverso le funzioni insieme di continuità e di distinzione assolte al suo interno dall’uso e dall’elaborazione dei motivi conduttori, qui più che mai elementi determinanti di caratterizzazione psicologica e drammatica. La discesa dal piano mitico a quello umano avviene gradualmente e simbolicamente nel prologo. Dopo la cupa scena delle Norne, personaggi mitici che rappresentano quell’identità senza tempo di passato presente e futuro che lo spezzarsi del filo del destino da esse tessuto lacera per sempre, e il duetto ancora risplendente di luce in cui Sigfrido e Brunilde, personaggi di rango eroico e semidivino, si separano l’uno dall’altra, un vasto interludio orchestrale annuncia la discesa dell’eroe tra gli uomini, per compiere quelle «nuove imprese» gloriose a cui è destinato: è il celebre «Viaggio di Sigfrido sul Reno», non soltanto sintesi poderosa dei motivi metafisici e morali, cosmici e umani, che reggono l’intero ciclo, ma anche ultimo momento gioioso e trionfante dell’eroismo di Sigfrido.
È alla reggia dei Ghibicunghi, dove Sigfrido si dirige spontaneamente (o spinto da necessità fatale?), che si attua la svolta tragica del dramma, in tutta evidenza rappresentata dall’intrigo che Hagen ordisce ai danni di Sigfrido con la tacita complicità di Gunther e Gutrune. Da questo momento e fino all’episodio dell’uccisione dell’eroe per mano di Hagen, l’azione ha uno svolgimento ricco di colpi di scena e di effetti quasi «melodrammatici» (i vari giuramenti, la congiura e i tradimenti), che ad alcuni son parsi, e vedremo in che misura Io sono, persin troppo tradizionalmente «teatrali» e operistici. Fanno eccezione, e si tratta di eccezioni importantissime ai fini del dramma, la scena di Waltraute, terza del primo atto, e quella di Sigfrido con le figlie del Reno, che apre il terzo atto: scene che tornano a proporre e approfondire, attraverso la magia evocatrice della musica, quella compresenza di piani diversi di cui si diceva e che ora sembra voler far convergere i destini di tutti i personaggi dell’Anello verso uno stesso fine, mettendo in relazione e poi accomunando le loro storie individuali. Così, con geniale senso della simmetria e del dramma potenziato e risolto dalla musica, Wagner affida all’interludio sinfonico della marcia funebre (ideale pendant, volto al negativo, del viaggio sul Reno, cornice entro la quale si svolge la vicenda umana di Sigfrido) il compito di aprire la strada verso la problematicissima scena finale, cui spetta dare un significato ultimo al Crepuscolo degli dei e chiudere l’intera Tetralogia.
La scena finale
Non è certo un caso che proprio questa scena finale sia stata sottoposta da Wagner a profonde trasformazioni, prima di approdare alla stesura definitiva. Ed è necessario partire da essa per comprendere il significato del Crepuscolo degli dei rispetto alla originaria Morte di Sigfrido e nel contesto della Tetralogia. Il finale della Morte di Sigfrido (1848) era un finale lieto, il trionfo della redenzione e della trasfigurazione di dei ed eroi dopo il rogo purificatore del mondo: Brunilde, tornata Walkiria, proclamava libertà per tutti, anche per Alberich e i Nibelunghi («libero lui, come voi!»), e accompagnava Sigfrido, l’eroe morto senza colpa, al Walhalla, dove sarebbe vissuto in beatitudine eterna accanto al redento padre degli dei, Wotan. Della distruzione del Walhalla e del crepuscolo della stirpe divina, nessuna traccia. Ma nell’autunno 1852, dopo la stesura della Walkiria e dell’Oro del Reno e la rielaborazione definitiva del Giovane Sigfrido, Wagner rivide il testo dell’ultima giornata apportando, oltre ad alcune correzioni di natura soprattutto letteraria e drammaturgica, volte cioè ad evitare ripetizioni inutili di antefatti già svolti dall’azione, due radicali modifiche: rifece interamente l’inizio della scena terza del primo atto, ampliandola assai con l’introduzione del personaggio di Waltraute al posto del coro di Walkirie venuto ad ammonire Brunilde sulle conseguenze della sua disubbidienza a Wotan (questa semplice narrazione in forma di dialogo era intanto divenuta argomento della Walkiria); e mutò il finale dell’opera da lieto in tragico. Ora Brunilde dopo aver solennemente preparato il rito purificatore del rogo e aver invocato la pace per Wotan («Pace, pace, o dio!»), si immola insieme con il cadavere di Sigfrido e il cavallo Grane bramando il proprio annientamento e quello della maledizione dell’anello; ma allo stesso tempo scagliando l’incendio nella rocca splendente del Walhalla, «poiché della fine degli dei ormai spunta il crepuscolo». E difatti, mentre le acque del Reno straripano sulla scena distruggendo la reggia dei Ghibicunghi e le figlie del Reno si impadroniscono dell’anello trascinando seco nel profondo Hagen, il Walhalla brucia fra alte fiamme sotto lo sguardo angosciato del popolo di uomini e donne risparmiato alla catastrofe. Questo finale tragico, dunque, prospetta una soluzione assai più aperta, se non ambigua: da un lato l’anello ritorna, dopo il sacrificio impotente di Brunilde, a chi in origine lo possedeva in gaia e tranquilla innocenza (un ritorno circolare allo stato originario che potrebbe però costituire anche un nuovo inizio, all’infinito); dall’altro, alla distruzione del Walhalla (gli dei e gli eroi che vi dimorano, e a cui Sigfrido non sarà più ricongiunto) e della reggia dei Ghibicunghi (il teatro umano della corruzione e dell’inganno), sopravvive solo la stirpe umana: quei semplici «uomini e donne» che, anziché commentare in coro la redenzione e la trasfigurazione dell’eroe (come accadeva alla fine della Morte di Sigfrido) assistono muti alla rovina del mondo corrotto, quasi premendo fisicamente per uscire dalla scena che ha visto compiersi la fatale vicenda («Atterriti, uomini e donne fan ressa verso il margine estremo del proscenio», indica infatti la didascalia). Quale mondo nascerà sulle macerie del vecchio, quali ne saranno i protagonisti, se vi sarà fra di essi qualcuno che tenterà nuovamente l’avventura dell’oro, Wagner non lo dice esplicitamente, lasciando alla sola musica l’ultima e definitiva parola.
A questo proposito, non è ancora senza significato che in un primo tempo Wagner avesse pensato a una specie di mediazione fra il vecchio e il nuovo finale inserendo, prima della sezione conclusiva del saluto con cui Brunilde accetta il suo destino e quello dell’eroe («Beata ti saluta la tua donna!»: le ultime parole del Crepuscolo), due strofe di trenta versi, per così dire esplicativi, in cui Brunilde, rivolta alla «stirpe superstite della fiorente vita», lanciava un vero e proprio appello in nome dell’amore, come eredità del suo «sapere più sacro»: «Non possesso, né oro, / né fasto divino; / non casa, né corte, / né signoria né pompa; / non di torbidi patti / ingannevole alleanza, / non di ipocrita costume / la dura legge: / beato nel piacere e nel patire, / fate che – solo esista l’amore. – ». Questi versi, pur presenti sia nella edizione privata dell’Anello del ’53 che in quelle a stampa del ’63 e del ’73, non furono messi in musica, almeno non per il Crepuscolo (in realtà, infatti, una parte di essi, quella qui riportata, fu musicata nell’agosto ’76 – fra il secondo e il terzo ciclo di rappresentazioni a Bayreuth – come dono personale di Wagner a re Luigi, uomo troppo sensibile e impressionabile per non «dolersi assai» di una fine luttuosa e senza messaggi); e non furono messi in musica per la semplice e insieme rivelatrice ragione che, come scriveva Wagner, «il loro senso nell’azione del dramma musicale viene già espresso con la più alta precisione dalla musica». Se a ciò aggiungiamo altri due frammenti per questo finale, anch’essi espunti e mai musicati (l’uno di netta impronta schopenhaueriana, l’altro caratteristicamente parsifaliano ante litteram), avremo il quadro completo delle varianti per la scena finale del Crepuscolo: quadro complesso, ma di cui Wagner seppe venire a capo con drastiche riduzioni e senza affidare alle parole messaggi che spettava alla musica, e soltanto ad essa, chiarire con la più alta precisione.
« Tutto quel che è, finisce! »
I1 confronto fra la prima versione e quella definitiva del Crepuscolo degli dei sfata anzitutto il luogo comune secondo il quale Wagner avrebbe mutato rotta strada facendo, vuoi perché la sua navicella s’incagliò nelle secche della filosofia pessimista di Schopenhauer (e dunque «tradusse l’Anello in stile schopenhaueriano. Tutto va storto, tutto va in sfacelo, il mondo nuovo è malvagio quanto l’antico — eccetera», come scrive Nietzsche nel Caso Wagner), vuoi perché l’ideale libertario e rivoluzionario ispirato da Feuerbach e dalle barricate del ’49 non resse alla prova dei fatti, e a Wagner convenne prenderne atto e adattarcisi (è la tesi, notissima, di George Bernard Shaw). In realtà l’unico problema che indusse Wagner ad abbandonare il progetto originario della Morte di Sigfrido per ampliarlo nella Tetralogia dell’Anello fu, come sappiamo, di natura squisitamente artistica: dare agli avvenimenti evidenza scenica rappresentandoli fin dalle premesse, anziché narrarli retrospettivamente come antefatti dell’opera. Ciò comportò naturalmente, nel cammino a ritroso verso quelle premesse, modifiche sostanziali all’architettura globale e ai suoi significati drammaturgici e musicali; fu così che la tecnica del Leitmotiv, estesa a dimensioni abnormi e primo germe di sviluppi compositivi affatto nuovi, divenne il mezzo per costruire quella fitta rete di relazioni necessaria a tenere insieme unitariamente sì vasta concezione drammatico-musicale. Se anche il significato ultimo del lavoro mutò, ciò avvenne ancora una volta per ragioni di coerenza artistica: e la strenua ricerca del finale più adatto alle premesse e soprattutto al rapporto instauratosi fra dramma e musica lo testimonia ampiamente.
In altre parole, fu il peso degli avvenimenti ora non più soltanto narrati ma rappresentati visibilmente fin nei minimi particolari a spostare il baricentro dell’arco drammatico della Tetralogia: da una parte la maledizione operata da Alberich sull’anello ricavato dal tesoro sottratto alle figlie del Reno attraverso il rinnegamento dell’amore, divenne il filo conduttore dell’azione (tutti coloro che lo possederanno saranno destinati alla morte); dall’altra, al ruolo di protagonista del dramma assurse in primo luogo Wotan, con tutte le implicazioni e conseguenze che sappiamo dalla Walkiria e dal Sigfrido. E poiché il destino di Wotan è il centro intorno al quale ruotano anche i destini, pur individualizzati e autonomi, di Brunilde e Sigfrido, era del tutto naturale che la Morte di Sigfrido divenisse Crepuscolo degli dei, e che esso si concludesse con un finale tragico e negativo.
Sul piano drammaturgico e relativamente alla terza giornata va anche detto che questo spostamento di baricentro alterò le funzioni di certi eventi teatrali – a cui Wagner significativamente non rinunciò – che avevano un senso in sé compiuto e compiuta giustificazione nell’economia della Morte di Sigfrido, ma che appaiono oscuri e apparentemente contradditori (sempreché non li si voglia ridurre a meri effetti di teatro) in quella assai più sottile e psicologicamente approfondita del Crepuscolo. È il caso, per esempio, dei filtri magici che danno l’oblio a Sigfrido e poi a lui di nuovo il ricordo. Se nella Morte di Sigfrido il ruolo decisivo del filtro magico poteva essere giustificato dal fatto che il tragico inganno cui Sigfrido soggiaceva per opera di esso avveniva a glorificazione della purezza dell’eroe e per la redenzione del mondo, al punto che lo stesso rinnegamento di Brunilde era là una conseguenza della vendetta di Wotan contro la Walkiria, nel Crepuscolo degli dei – ultima giornata della tetralogia L’anello del Nibelungo – lo è assai meno: perché esso determina in Sigfrido un cambiamento radicale, e l’eroe che noi avevamo conosciuto nel Sigfrido, di colpo, diventa un altro, immiserito fino ad apparirci irriconoscibile. Senza dubbio Wagner celiava quando spiegava questo fatto come un frutto del possesso dell’anello maledetto (infatti dalle parole di Alberich e dalla musica sappiamo che l’anello per l’inconsapevole eroe è un pegno d’amore, non un mezzo di potenza come per gli altri, sì che la maledizione è inoperante su di lui); oppure quando attribuiva all’opera sottile della magia nera cui è dedito Hagen gli effetti specifici del filtro stesso (il quale, si noti bene, spegne in Sigfrido solo il ricordo di Brunilde, non la coscienza di sé e del suo passato: difatti egli è ben consapevole di tutto il resto). Già questi effetti così particolari e irreali dell’azione dei due filtri, e ancor più la loro spiegazione, lasciano sconcertato chi sa come Wagner aborrisse tutti i dei ex machina della tradizione melodrammatica. Ma è ancora opera del filtro che Sigfrido si presti al turpe scambio di persona con Gunther e alla violenza su Brunilde, cui strappa proprio l’anello (ultima scena del primo atto); che insulti con leggerezza inaudita e disprezzi in Brunilde non soltanto una donna angosciata e prostrata, ma anche tutto il genere femminile (atto secondo, scena quarta, dove Sigfrido arriva perfino a negare di averle estorto l’anello); che infine si comporti con le figlie del Reno come un dongiovanni da quattro soldi, disposto a «scambiare l’anello per il piacere» (atto terzo, scena prima)? Evidentemente no. Comprendiamo molto bene il disappunto di re Luigi, abituato a identificarsi con Lohengrin e l’Olandese o tutt’al più a commuoversi per il miserando destino di Tristano. Quel Sigfrido, non lo capiva più, non lo poteva amare, evocava in lui spettri di un pessimismo terribile. In ogni caso, non è con le spiegazioni filosofiche o sociopolitiche che possiamo comprendere la cupa atmosfera che grava sul dramma e su una musica che ne è la fedele, massiccia cassa di risonanza. Oltretutto non tornano nemmeno i conti. Perché quel pessimismo, se così lo vogliamo chiamare, di cui Sigfrido è solo l’ultima lacerata figura, è già presente nell’Oro del Reno nelle parole insieme ammonitrici e profetiche di Erda: «Tutto quel che è, finisce!». Di questa fine, di questo pessimismo, il Crepuscolo degli dei fornisce un’immagine di stupefacente resa espressiva.
Alienazione e inganno
La perdita dell’identità da parte di Sigfrido nell’azione del Crepuscolo è la conseguenza dell’abbandono volontario dell’unico spazio vitale a lui conforme, la Natura. Soltanto nella natura la sua esistenza poteva avere grandezza, verità, purezza, libertà. L’incontro con Brunilde, ultimo stadio dell’apprendistato del giovane Sigfrido, segna altresì l’inizio della parabola discendente dell’eroe: dato che la conquista della consapevolezza di sé attraverso l’amore e il sapere di Brunilde (si ricordi la scena conclusiva del Sigfrido) non porta al costituirsi di una concezione etica salda e duratura, ma al contrario lo spinge nel mondo, di cui ancora non ha conoscenza diretta, alla ricerca di nuove avventure. E «avventura» per Sigfrido significa sempre e soltanto esperienza soggettiva della propria forza eroica.
Il cambiamento di scena dalla roccia di Brunilde alla reggia dei Ghibicunghi rappresenta per Sigfrido un cambiamento dello spazio vitale che reca inevitabilmente con sé conseguenze mortali. Alle leggi pervertite della società umana, sfigurate dalla lotta per il potere e il possesso dell’oro, Sigfrido non è in grado di opporre altro che la sua forza pura, tendente ad affermarsi in quanto tale, e la capacità di adattarsi rapidamente alle situazioni, di vivere nell’attimo dell’azione: egli, l’assoluto individualista, non vive nel passato né è uomo del futuro, ma si realizza solo nel presente. Così l’inganno di cui è vittima, l’irretimento tragico in cui rimane coinvolto, pur provocati da altri e con scopi ben precisi, trovano in lui non soltanto i presupposti per compiersi, ma anche in un certo senso un complice prima inconsapevole e poi costretto, per non tradirsi, a giurare il falso; come si palesa, con terribile evidenza, nella grande quarta scena del secondo atto, allorché Sigfrido rinnega Brunilde e giura (o spergiura) la sua fedeltà a Gutrune.
Alienazione e inganno sono i due termini convergenti che circoscrivono nel Crepuscolo la figura di Sigfrido, sono per così dire i connotati psicologici che determinano il suo agire. Osservato da questo punto di vista, se prestando orecchio a quel che esprime la musica andiamo oltre il dato esterno della sua funzione nel dramma, il filtro magico altro non è che una rimozione dall’inconscio di ciò che per Sigfrido appartiene al passato, al ricordo appunto, ed è di ingombro al suo porsi come protagonista nel presente, di fronte a nuove situazioni e nuovi personaggi. Altrimenti detto, Sigfrido dimentica quel che desidera dimenticare, così come nell’esaltazione del racconto dei suoi «giovani tempi», sapientemente orchestrata da Hagen, finirà per ricordare da sé (anche qui il filtro è solo un simbolo, un effetto di teatro) il momento del risveglio di Brunilde, per morire poi nell’attimo stesso di quel ricordo: quasi folgorato dalla luce già crepuscolare che avvolge tutto quello che esso, il ricordo, significa non soltanto per lui («Due corvi s’alzano in volo da un cespuglio, descrivono un cerchio sopra Sigfrido, quindi se ne volan via verso il Reno», indica a quel punto la didascalia), più che trafitto dalla lancia di Hagen.
Se per Sigfrido l’incontro con Brunilde è soltanto un momento, sia pur culminante, della sua iniziazione alla vita (un’avventura magica di natura sensuale, che si esaurisce nella scoperta della donna e nello scambio dei pegni dell’anello e del cavallo Grane; né sapremo mai quanto in realtà duri la permanenza dell’eroe sulla roccia della Walkiria), in Brunilde l’amore di Sigfrido è causa di un mutamento totale della sua esistenza. Obliando tanto la sua origine quanto la sua missione divina (dopo che nella Walkiria aveva rinunciato a quella per assolvere questa), Brunilde si fa portavoce di un nuovo ideale sentito come valore assoluto: la scelta di essere soltanto donna nella beatitudine di una completa dedizione di sé (a Sigfrido ella dona non solo il suo amore ma anche il suo sapere) e di un sacrificio capace, se non di redimere il mondo dalla colpa, almeno di purificarlo e riscattarlo attraverso l’amore. La piena coscienza di questo suo nuovo essere e delle conseguenze della sua scelta si manifesta con estrema chiarezza nel dialogo con Waltraute, musicalmente una delle scene più alte e commoventi di tutta la Tetralogia. Alla sorella venuta a ricordarle il suo legame divino con Wotan, prostrato in profonda angoscia, e a implorarla di rendere l’anello donatole da Sigfrido, Brunilde risponde che niente, neppure «di tutti gli dei l’eternamente durevole fortuna», potrebbe convincerla a separarsene. Tanto più raccapricciante e inesplicabile, dopo questa appassionata difesa della sua nuova identità, le apparirà il suo destino: essere costretta a cedere l’anello e a piegarsi a empie nozze, per apprendere infine che l’autore del tradimento altri non è che Sigfrido.
Il precipitare di Brunilde nell’abisso del suo destino, è uno dei nodi centrali dell’azione del Crepuscolo. Qui il dramma trova la sua peripezia, nella realistica decisione di Brunilde di accelerare la morte di colui che l’ha rinnegata partecipando alla congiura contro di lui. Il fatto che questa decisione assuma, nel giuramento di vendetta che chiude il secondo atto, il carattere di un vero e proprio terzetto fra Gunther, Hagen e Brunilde, non rappresenta una concessione a effetti melodrammatici tradizionali né è un relitto involontario degli schemi operistici ancora presenti nella Morte di Sigfrido, ma soltanto la drastica conseguenza di una degradazione addotta nel dramma stesso dalla situazione degenerata in cui si trovano i personaggi. Soltanto una forma chiusa in sé, bloccata sul contrasto diretto dei temi a cui i tre protagonisti affidano le loro ragioni (conscie e inconscie), poteva rendere con adeguato realismo e sensibile evidenza questo momento dell’azione. Ciò vale in parte, anche se sotto altra forma, per la scena che apre l’atto successivo, uno «scherzo sinfonico-vocale» in cui l’alienazione di Sigfrido è patentemente tangibile a contatto con le forze pure ed elementari delle figlie del Reno. Inganno ed alienazione tornano così a porsi come elementi determinanti del compiersi del dramma. Soltanto alla fine, in un superamento tipico del romanticismo di Wagner, i destini privati e individuali di Sigfrido e Brunilde s’innalzano all’altezza di destini universali: il rogo non annienta soltanto i due protagonisti cancellando l’alienazione e l’inganno, ma anche il mondo corrotto, e dei, eroi, miti, ideali. In questo senso, l’apparente paradosso delle parole di Brunilde: «era il più puro, colui che mi tradì!», è tutt’altro che un’espressione patetica di generica riabilitazione dell’eroe, ma una profonda immedesimazione, di modernissima verità psicologica, nelle tragiche contraddizioni emerse dalla vicenda.
E da ultimo: anche il fatto che Wagner abbia introdotto qui nel Crepuscolo un coro, cosa che non era mai accaduta prima nella Tetralogia, risponde a una necessità specifica, drammatica e musicale. Musicalmente, il coro aggiunge una voce nuova, della massima pregnanza espressiva, la cui presenza si imponeva da sé nella sfera umana in cui si compie il destino del mondo dell’Anello. Inoltre il popolo di guerrieri e donne che si esprime in coro è il testimone di quanto avviene sulla scena, e l’unico che sopravviva alla catastrofe: la sua presenza nel dramma è dunque eminentemente attiva, e non esornativa. Evocato la prima volta dal grido guerresco di Hagen e da lui manovrato con demoniaca abilità (scene terza e quarta del secondo atto), esso assiste esterrefatto alla disputa per l’anello e ai giuramenti di discolpa; ma interviene subito dopo l’uccisione di Sigfrido con la domanda dei guerrieri: «Hagen, che hai fatto?»: una domanda che equivale a una presa di posizione di fronte all’atto che smaschera le vere intenzioni di Hagen e che si spegne nel muto cordoglio e compianto del solenne corteo funebre.
Personaggi degradati
Una tinta nera e fosca, un velo luttuoso e tetro avvolgono tutti i personaggi che agiscono nel Crepuscolo. Personaggi degradati, quelli a noi già noti; non soltanto Sigfrido, non soltanto Brunilde, ma anche Wotan, anche Alberich. L’uno, uscito volontariamente di scena dopo aver deposto anche le vesti indagatrici del Viandante, appare ormai soltanto nel racconto delle Norne e nella straziante evocazione di Waltraute, ma è in realtà onnipresente nell’azione con tutto il peso della sua tragedia, e nella musica con il richiamo dei suoi motivi, soprattutto quello del Walhalla, sempre più sfigurati e alienati. L’altro, ridotto a larva di se stesso, non è altro che un oscuro spettro notturno, implorante – come in un incubo – il figlio Hagen affinché sia compiuta l’azione che egli non è più in grado di compiere. In questa scena, che apre il secondo atto, la musica, contorta cromaticamente e livida, come squarciata, tutta dominata dai motivi dell’odio, della maledizione e del lavoro di annientamento dei Nibelunghi, crea un clima di allucinazione e di terrore che sempre più si sprofonda negli abissi di una spaventosa angoscia.
Anche i personaggi nuovi sono figure degradate, forze consapevolmente o inconsapevolmente distruttive e corrotte. I fratelli Gunther e Gutrune, come figli legittimi di Gibich e Grimhilde discendenti da una stirpe assetata di potenza e di gloria contrapposta a quella eroico-divina dei Welsunghi (e per-ciò l’esatto contrario di Siegmund e Sieglinde), sono l’estrema propaggine di un’umanità tragicamente compromessa dalle colpe degli avi, pienamente sottomessa allo scaltro Hagen e incapace, nonché di agire autonomamente, di rendersi conto del corso degli eventi: l’uno destinato a cadere trafitto, l’altra a sparire fra accenti di mite dolore per la sorte, più che di Sigfrido – tornato ad appartenere interamente a Brunilde -, del fratello a lei sottratto dalla morte. E infine Hagen, fulcro di tutto il dramma, gigantesco antagonista di Sigfrido nell’azione dell’ultima giornata della Tetralogia, così come Alberich, suo padre, lo era stato di Wotan, padrino, se non padre, di Sigfrido. Fratellastro bastardo di Gunther e Gutrune in quanto figlio di Alberich e di Grimhilde, la quale per danaro si è venduta al nano maledetto tradendo Gibich e la sua stirpe, e perciò «frutto dell’odio e dell’invidia per il potere» (così lo aveva definito già Wotan), Hagen alleva nel suo sangue corrotto tutti i germi della frode e dell’inganno ereditati da Alberich. Disposto a servirsi di ogni mezzo pur di giungere a riconquistare, per sé e per il padre, l’oro e la potenza, è lui che muove e tira le fila dell’intrigo, dapprima consigliando a Gunther la conquista di Brunilde come unica sposa di lui degna, poi preparando i filtri magici dell’oblio e del ricordo, infine abbattendo a tradimento l’eroe dopo aver promosso e concertato la vendetta di Gunther e Brunilde; senza però riuscire nell’intento di riconquistare l’anello, per il quale non esiterà da ultimo a uccidere Gunther, e anzi sprofondando egli stesso nei flutti del Reno.
Il rilievo che il personaggio di Hagen ha nel Crepuscolo non è legato soltanto alla sua insostituibile funzione drammatica. La sua caratterizzazione è un capolavoro di penetrazione psicologica e di scavo interiore, in questo senso anzi uno dei massimi capolavori, addirittura un esempio in sé compiuto di ciò che Wagner intendeva per dramma musicale: un dramma, cioè, in cui spetta alla musica chiarire e approfondire psicologicamente la tematica dei personaggi e dell’azione. Così il tema musicale di Hagen, che nascendo da un tritono discendente si abbatte dall’acuto verso il grave entro intervalli sempre più dilatati per bloccarsi poi simmetricamente nell’ambito di un tritono ascendente, è il simbolo devastante, armonicamente in sé non defìnibile, di una furia distruttrice che attira nella sua rete gli elementi estranei con cui viene in contatto, deformandoli fino ad assimilarli e annullarli. Le due grandi scene di cui Hagen è incontrastato protagonista, il canto di guardia alla reggia durante l’assenza del re (atto primo, fine della seconda scena) e il già ricordato incontro notturno con Alberich, dimostrano inoltre che alla base dell’agire di Hagen, lucido ed energico, sapiente e scaltro alla luce del sole (suprema incarnazione dell’astuzia politica e del manipolatore di masse) si cela nelle tenebre un dramma interiore, frutto di una psicologia contorta e inquieta e di una fedeltà al suo ceppo attanagliante e ansiosa. Allorché Hagen, rivolto all’ombra del padre, mormora le parole: «vecchio anzi tempo, livido e pallido, i gioiosi odio, né gioia ho mai!», la trasformazione che assumono in quel punto i motivi dell’odio dei Nibelunghi e della rinuncia all’amore indicano inequivocabilmente quale sia la vera natura del suo odio: un odio che si accanisce, prima che contro gli altri, contro se stesso, contro il suo destino di bastardo ed emarginato, incapace sia di amare che di odiare senza odiarsi. Solo serbandogli fedeltà, egli potrà vincerlo. Anche Hagen, a modo suo, è un personaggio tragico.
Psicologia e musica
Questo approfondimento psicologico di ciò che avviene oltre l’azione, non soltanto dentro l’animo dei personaggi ma anche al di là della loro stessa coscienza, è ottenuto da Wagner adeguando la tecnica del Leitmotiv a funzioni espressive e compositive in gran parte nuove rispetto alle giornate precedenti della Tetralogia. La musica non si limita più ad accompagnare e spiegare il dramma per mezzo di metafore o simboli, ma diventa essa stessa il catalizzatore del dramma, un centro da cui si irradiano o verso cui convergono relazioni di motivi estremamente dense e concentrate. Così alla linearità dell’azione corrisponde nella musica uno spessore di associazioni e di riferimenti che va molto al di là dei significati semantici dei singoli motivi, stabilendo categorie interpretative assai più complesse e non di rado sottilmente ambigue.
I1 fatto che molti di questi motivi siano già noti all’ascoltatore nella loro originaria identità, così come si presentavano la prima volta o in determinati momenti dell’azione delle precedenti giornate, dà modo a Wagner di servirsene in due direzioni, entrambe coerenti con il posto che il Crepuscolo occupa nel ciclo dell’Anello. Da una parte essi sono elementi del ricordo del passato, un ricordo che però avviene nel presente, e non è dunque definibile se non attraverso una rete di associazioni fra passato e presente. Il motivo del Walhalla, per esempio, può anche risuonare nel racconto di Waltraute simile a come si era presentato la prima volta nell’Oro del Reno sulle parole gioiose di Wotan: in realtà, esso diventa un altro, muta di significato, e anzi accresce il senso di distanza fra ciò che valeva per Wotan e ciò che è ora in bocca a Waltraute. Dall’altra, essi sono oggetto di continua trasformazione in rapporto all’evoluzione del dramma, all’interno del quale assumono forme e significati sempre diversi. Anche i motivi nuovi del Crepuscolo, meno di un terzo in tutto, derivando in gran parte dai precedenti sono per così dire aspetti inediti in essi impliciti, che ora vengono a galla con una loro individualità. Così per esempio il motivo dell’elmo magico, in sé simbolo stesso dell’eterna trasformazione (chiunque indossi l’elmo può mutare aspetto) e mezzo attraverso cui Sigfrido, travestendosi da Gunther, compie l’inganno contro Brunilde, è la cellula germinale dei motivi del filtro e dell’oblio, effetti conseguenti di un inganno che si ritorce contro Sigfrido accecandolo. È eloquente che qui alla degradazione dei personaggi e delle situazioni in cui agiscono corrisponda la degradazione dei loro motivi, degradazione ottenuta per mezzo di una corrosione cromatica che li trasmuta dall’interno, come un acido letale. Molta parte della musica del Crepuscolo del resto sembra riemergere da un bagno cromatico che ne abbia esasperato le tensioni dissonanti (non soltanto armonicamente) o viceversa prosciugato le radici vitali, quasi disintegrandole. Anche la strumentazione, prova suprema del magistero compositivo wagneriano, intessuta di trame fittissime, di stratificazioni massicce fino ai possenti squarci sinfonici degli interludi e dei preludi, eppure sempre analitica, lucida e tagliente, ne reca le tracce nella forte prevalenza delle atmosfere oscure e cupe, dei timbri funerei e sfigurati, come in una lunga, apocalittica attesa.
Questo processo di trasformazione del tessuto musicale mira, come risultato ultimo, non soltanto ad esaurire la funzione drammaturgica delle relazioni fra i motivi (l’analisi dimostrerebbe che il sistema nella sua totalità è veramente un immane universo compiuto), ma anche ad estinguerli come strutture drammatico-musicali. L’alienazione dei motivi da se stessi è la conclusione a cui perviene nel Crepuscolo, alla fine della Tetralogia, la tecnica wagneriana del Leitmotiv. E ciò si avvera nelle due grandi, monumentali pagine che conchiudono l’azione: la marcia funebre di Sigfrido e l’olocausto di Brunilde.
La marcia funebre di Sigfrido è non soltanto il grandioso riassunto epico, affidato alla musica, di tutta la vita dell’eroe ripercorsa nelle sue tappe fondamentali fino alla morte, ma anche l’estrema trasfigurazione dei motivi che ne hanno accompagnato la storia e che ora vengono ripresentati, per l’ultima volta, al ricordo, nella loro identità originaria; per essere poi consegnati, definitivamente spenti, avvolti nei sacri veli del modo minore (do minore, la tonalità della marcia funebre dell’Eroica!), alla morte e all’oblio eterni, in un profondo silenzio scandito appena dal lugubre rintocco dei timpani. Il congedo dall’eroe, con l’ultimo risuonare dei suoi temi nella loro interezza dopo che nell’azione del Crepuscolo erano apparsi solo come frammenti e ombre, ricompone l’unità musicale e drammatica dell’incompiuta vicenda eroica e umana di Sigfrido; ma allo stesso tempo quei temi estingue come simboli musicali della redenzione e del riscatto. Essi muoiono con Sigfrido.
Nella. vasta scena finale tutti i temi principali della Tetralogia ricompaiono in un turbine ininterrotto, ma accostati secondo un ordine simmetrico e in forme della più alta significanza. A poco a poco essi vanno perdendo non soltanto la loro relazione col dramma che si va compiendo, ma anche la loro qualità di unità formali e musicali, o interrompendosi bruscamente (come il motivo della maledizione, allorché l’anello ritorna alle figlie del Reno) o distendendosi all’infinito fino a consumarsi e a smarrire la loro individualizzata configurazione di motivi (come quelli del Walhalla e del crepuscolo). Alla fine, dopo l’ultimo riecheggiare del canto gioioso delle figlie del Reno che sancisce la ritrovata pace, un motivo nuovo, il cosiddetto motivo della redenzione, si afferma solitario. E un motivo formato dalla successione ascendente di tre sole note (do-re bemolle-mi bemolle) ruotanti intorno alla nota centrale (re bemolle); cui segue, dopo un salto discendente di settima, una intera scala ascendente sul lungo, infinito accordo di re bemolle maggiore che suggella l’opera. Una sola volta prima d’ora, nel terzo atto della Walkiria, avevamo udito questo motivo, nel momento sublime in cui Sieglinde, dopo aver ricevuto da Brunilde con i frammenti della spada Nothung l’annuncio dell’eroe che porta in grembo, sceglie di vivere e di accettare il suo destino. Ma mentre là esso appariva, più drammaticamente che musicalmente, un risultato strettamente connesso al tema della spada e a quello trionfante di Sigfrido, qui ora ci appare in una veste nuova, puramente, elementarmente musicale: del tema di Sigfrido, da cui deriva, è soltanto l’ultima cellula isolata, senza la parte iniziale, il tema della spada. Isolata e rafforzata fino a diventare, più che un motivo, una vera «melodia infinita», essa è la testimonianza di un nuovo inizio?
Elementi musicali semplicissimi, ridotti da se stessi e in se stessi, eppure gravidi di significati profondi, inesplicabili, sono quelli a cui Wagner lasciò il compito di esprimere con la più alta precisione il senso ultimo della Tetralogia. Come un arpeggio sul pedale di mi bemolle apre il divenire dell’opera smisurata, così essa si chiude con una scala ascendente e un lungo, enigmatico accordo di re bemolle. Suoni, accordi, un arpeggio, una scala: gli elementi primari di cui si compone la musica. E tra questi estremi che si tende il circolo infinito dell’Anello del Nibelungo. E da un arpeggio opposto a una scala Wagner partì nel Parsifal, là dove aveva lasciato la Tetralogia.
Vittorio Gui / Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
44° Maggio Musicale Fiorentino