LA «VIGILIA»
Auf Berges Gipfel
die Götterburg;
prächtig prahlt
der prangende Bau!
Wie im Traum ich ihn trug,
wie mein Wille ihn wies,
stark und schön
steht er zur Schau;
hehrer, herrlicher Bau!
Richard Wagner, che nelle precedenti serate aveva rifiutato di presentarsi al pubblico (per non confondere la propria figura umana con la creazione artistica, cosí aveva detto), quella sera venne davanti al sipario, il volto grave e serio, che tradiva appena la interna commozione; nel silenzio carico di attese, si era rivolto finalmente agli spettatori: «Voi dovete quest’opera alla vostra benevolenza e agli infiniti sforzi dei miei artisti e collaboratori. Ciò che ancora vorrei dirvi si può riassumere in poche parole, in un assioma: Voi avete visto di che cosa siamo capaci noi. Ora dovete volere voi! E se vorrete, avremo un’arte!».
L’ambiguità di quelle parole, la superba arroganza solo apparente, gelò non poco gli entusiasmi: perché come intendere e volere che l’opera monumentale, nata come testimonianza di fede e di vita, segnasse l’inizio di un impegno per l’arte e la coscienza nazionale tedesca, per l’umanità tutta che vi era rappresentata? Non travalicava quella richiesta i limiti dell’oggettivamente possibile e realizzabile? — Oggi sappiamo quanto quelle parole significassero anche la consegna a un destino fatto di grandezze e di miserie, di sublimi accensioni e di fraintendimenti dolorosi, di inadeguatezze di fronte alla mèta toccata e indicata.
La prima rappresentazione integrale della Tetralogia «L’anello del Nibelungo», avvenuta nel nuovo teatro di Bayreuth, che proprio per essa era stato ideato, in quattro sere tra il 13 e il 17 agosto 1876, coronava la massima aspirazione di Wagner, tenacemente perseguita per oltre trent’anni: dare, alla nazione tedesca e al mondo, il modello di un’epopea gigantesca espressa attraverso una interpretazione rivoluzionaria delle possibilità del teatro in musica. Visione e realizzazione ardita e ineguagliata, unico caso di mostruosa creatura a quattro teste, quattro organismi perfettamente indipendenti in uno, per cui Wagner dovette coniare perfino il termine di riferimento: « Bühnenfestspiel» («sagra scenica»), suddivisa in tre grandi «giornate» («La Walkiria», «Siegfried» e «Die Götterdämmerung» cioè «Il Crepuscolo degli dei»), piú una «vigilia» a far da prologo, «Das Rheingold» («L’Oro del Reno»), appunto.
Se dalla data fatidica dell’agosto 1876 si vuoi risalire alla ideale posa della prima pietra di ciò che sarebbe diventata la Tetralogia, la ricerca a ritroso si arresterà non prima del 1848, anno in cui Wagner per la prima volta concretizzò il suo profetico interesse nell’ambito del mito nibelungico vergando un breve saggio («I Wibelunghi: la storia tratta dalla leggenda») e successivamente un abbozzo in prosa dal titolo «Il mito dei Nibelunghi»: in esso era già messa a fuoco la trama legata alle vicende di Siegfried e Brünnhilde, anche se con accenti poi spostati, primo fra tutti nel finale colorito di un ottimismo ardente e un po’ ingenuo, radicalmente opposto a quello della versione definitiva del «Crepuscolo degli dei». Nello stesso anno, e precisamente dal 12 al 28 novembre, Wagner trasse da una parte di questo abbozzo in prosa un testo poetico, con l’intenzione di servirsene per una «grande opera eroica» in tre atti, dal titolo: «Morte di Siegfried».
Wagner, allora trentacinquenne, appariva come il prototipo dell’artista romantico, entusiasta ed ottimista ad onta delle difficoltà di ogni tipo in cui era costretto a vivere, ambiguamente pervaso da ansie rivoluzionarie (neanche un anno dopo avrebbe partecipato ai famosi moti di Dresda, ricevendo una condanna al bando come «persona nemica alla nazione tedesca » — ! — che avrebbe avuto conseguenze nefaste sulla sua vita futura) ; ma in realtà era soprattutto un uomo alla ricerca di se stesso, e non soltanto dal lato artistico. Qui il cammino compiuto, dalle prime informi prove fino al «Lohengrin» appena terminato, passando attraverso «Rienzi», «L’Olandese volante » e «Tannhàuser», aveva ottenuto, se non la fama o il successo, almeno lo scopo di porre le basi di una nuova concezione dell’opera: il dramma musicale, forma di teatro cui dovevano intervenire, potenziate al massimo, tutte le arti, la poesia e il dramma in testa, sotto l’egida unificatrice della musica. Ma a far rivivere il mito di Siegfried, sia pur sotto le spoglie fittizie di una «grande opera eroica», tutto ciò non bastava: occorreva chiarire ulteriormente i termini della questione.
Chiarirli, s’intende, soprattutto dal punto di vista artistico, ossia musicale: ma Wagner, giunto sull’orlo del gran baratro, non se la senti di tentare il salto e preferí tornare indietro.
Per piú di due anni, la sua attività fu quasi completamente assorbita dalla stesura puntigliosa e acida di alcuni saggi teorici che svolgevano le sue idee non soltanto estetiche, dove arte era spesso sinonimo di rivoluzione e avvenire, fino al culmine di <<Opera e dramma>> che nel febbraio 1851 chiudeva in modo epico una ricerca tutto sommato propedeutica. Perché, come Wagner stesso confesserà piú tardi, quello era stato soprattutto un modo per tenere caldo il fuoco, in attesa che i tempi maturassero per tornare a pensare alla musica. Ciò che piú lo angosciava, come risulta dalle lettere a Liszt e all’amico Uhlig, era la coscienza della sproporzione fra quanto veniva intuendo ed elaborando sul dramma musicale e le possibilità concrete, materiali e ideali, di realizzarne una rappresentazione scenica; ed ecco, già nel settembre 1850, la folgorazione dell’idea di un teatro apposito per le sue opere, speciale per l’ubicazione (fuori dai grandi centri cittadini!), la costruzione e la decorazione, nel quale soltanto la grandiosa rappresentazione dei Nibelunghi avrebbe potuto aver luogo, egli pensava, in modo adeguato.
Rappresentazione che, a quel tempo, era ancora limitata al fastoso affresco della «Morte di Siegfried»; ma già all’inizio di maggio del 1851 Wagner sentì la necessità di farla precedere da un dramma che narrasse la giovinezza e le precedenti imprese di Siegfried, preparando cosí lo spettatore agli eventi della catarsi finale: in poche settimane, dal 3 maggio al 24 giugno 1851, il poema intitolato «Il giovane Siegfried» fu messo a punto, e Wagner contava in meno di un anno di consegnare a Liszt l’intera partitura per rappresentarla a Weimar.
Liszt! È difficile racchiudere in misere parole il ruolo che la sua entusiasmante figura sostenne non solo nella nascita della Tetralogia, ma in tutta la carriera di Wagner. Amico, confidente, soccorritore, ammiratore, maestro, sostenitore, primo grande interprete della sua musica… senza di lui mai Wagner sarebbe diventato quel che diventò. Liszt fu la levatrice di Wagner, e si perdoni la ridicola banalità di tale immagine. La lettera che Wagner gli indirizzò dall’esilio di Zurigo il 20 novembre 1851 è una delle tante testimonianze del rapporto fra due genii affratellati dalla devozione; per noi, segna anche la data di nascita della concezione definitiva della Tetralogia: «Nell’autunno dell’anno 1848 abbozzai tutta la leggenda dei «Nibelunghi», che da quel momento divenne mia proprietà poetica. La «Morte di Siegfried» fu l’ultimo tentativo per presentare la catastrofe principale in una azione drammatica pel nostro teatro. Dopo lunghe titubanze nell’autunno del 1850 fui in procinto di sbozzare la musica di questo dramma: ma me ne distolse la persuasione ch’era impossibile poterlo rappresentare adeguatamente. Per distrarmi da questo disperato proposito scrissi il libro “Opera e Dramma”. Nella scorsa primavera tu mi entusiasmasti in tal modo col tuo articolo sul «Lohengrin» che, per amor tuo, ripresi presto e lietamente l’idea di comporre un dramma. Te lo scrissi fin d’allora; ma la «Morte di Siegfried» — questo io lo sapeva — era cosa quasi impossibile. Compresi che bisognava prepararla con un altro dramma e mi attenni a un progetto, già da lunga pezza immaginato, di prendere per argomento «Il giovane Siegfried». In questo doveva svolgersi tutto ciò che nella «Morte di Siegfried» viene in parte narrato, in parte preveduto, perché noto per metà; e ciò dovrebbe svolgersi semplicemente, serenamente, mediante la vera rappresentazione. Il poema fu subito sbozzato e compiuto. Quando volli mandartelo provai a bella prima una strana titubanza. Mi pareva di non poterlo inviare cosí senz’altro, di doverti spiegare molte cose su di esso, in parte sulla maniera di eseguirlo, in parte sulla maniera necessaria di interpretarlo… Adesso qui, ponderando con piú calma, il mio progetto mi appare chiaro in tutte le sue conseguenze. Ascoltami!
Anche questo «Giovane Siegfried» è un frammento e non può far l’impressione giusta e sicura di cosa completa se non è collocato al suo posto nell’intera composizione, posto ch’io gli assegno, conforme al mio progetto, nella «Morte di Siegfried». In questi due drammi una quantità di rapporti necessari li affido alla narrazione e anche all’immaginazione degli uditori. Tutto quanto nell’azione e nei personaggi di questi due drammi è troppo toccante, è troppo forte, mi fu d’uopo esporlo visibilmente nella rappresentazione, ma solo al pensiero. Secondo il mio intimo convincimento un’opera d’arte – e perciò anche il dramma – può conseguire lo scopo se l’intenzione poetica è comunicata completamente ai sensi in tutti i suoi momenti importanti; e proprio io meno di qualunque altro non devo e non posso peccare contro questa verità da me riconosciuta. Io dunque, per essere ben compreso, debbo esporre la mia favola, in tutto il suo significato piú ampio e profondo, con la massima artistica chiarezza. Non si deve lasciare al pensiero e alla riflessione la cura di completarla in qualche modo. Ogni animo sensibile e ingenuo deve poter comprendere il tutto per mezzo del suo istinto artistico, perché allora saprà pure accogliere giustamente ogni particolare…
Di qui la necessità di tre drammi: primo «La Walkiria»; secondo «Il giovane Siegfried»; terzo «La Morte di Siegfried»; per completare questi tre drammi bisogna farli precedere da un prologo: «Il furto dell’Oro del Reno». In esso si espone, in forma di racconto, tutto ciò che si riferisce al furto, alla provenienza del talismano dei Nibelunghi, al rapimento di questo talismano per mano di Wotan, alla maledizione di Alberich nel «Giovane Siegfried». Mediante la chiarezza raggiunta con l’esposizione, guadagno sufficiente spazio per sviluppare le scene piú toccanti, lasciando affatto la forma narrativa o restringendola a brevi momenti, mentre nella mia primitiva esposizione quasi epica dovevo fare degli incresciosi tagli che toglievano nerbo all’azione…
Dove e in quali circostanze ciò sarà possibile, non mi curo per ora di sapere; perché prima di tutto devo compiere il mio grande lavoro, nel quale (avuto riguardo alla mia salute) impiegherò tre anni…
La risposta entusiastica e toccante di Liszt, come pure il commento a certi punti particolari del programma, debbono essere qui purtroppo sacrificati. Se la previsione di «tre anni» si rivelò presto illusoria, la strada della composizione poetica, nella direzione a ritroso dalla catastrofe finale agli antefatti remoti, prosegui spedita e senza intoppi: il 1 luglio 1852 la stesura poetica della «Walkiria» era ultimata, e al principio di novembre anche quella del prologo, ancora provvisoriamente intitolato «II furto dell’Oro del Reno». La Tetralogia, dopo opportuni ritocchi agli altri due ultimi drammi, poteva adesso anche vantare un titolo completo, «Der Ring des Nibelungen», «L’Anello del Nibelungo».
Nel febbraio del 1853, in edizione privata di soli 50 esemplari, Wagner fece stampare a sue spese l’intero poema (appena dieci anni dopo si sarebbe avuta la prima edizione pubblica dell’«Anello», dove per la prima volta apparivano ufficialmente i titoli definitivi di «Siegfried» e «Crepuscolo degli dei»), di cui dette anche, a metà nello stesso mese, una memorabile lettura in quattro sere consecutive, riservata ad amici ed estimatori. Con ciò si ribadiva l’importanza e il valore intrinseco del dramma letterario, che Liszt, assente da Zurigo, in una lettera da Weimar si affrettò a definire «certo la piú incredibile cosa che sia stata mai creata». Ma ora si doveva pensare alla musica, partendo, come era naturale, dall’«Oro del Reno». Alle esortazioni di Liszt, Wagner rispondeva con serena fermezza: «La musica mi riuscirà facile e la farò presto, perché non sarà che l’estrinsecazione del già fatto!» Ed era vero: solo che, ancora una volta, si sbagliava nel fissare i termini di tempo.
Un viaggio in Italia, compiuto nel settembre del 1853 alla ricerca di un «asilo che garantisse l’armoniosa pace necessaria alla nuova creazione artistica», fu l’avvenimento decisivo che consenti a Wagner, dopo cinque anni e mezzo di completa astinenza da qualsiasi produzione musicale, di iniziare la composizione del suo poema nibelungico. Indisposto, depresso e inquieto, come narrerà nella sua autobiografia, si dibatteva, senza riuscire a trovare pace, nell’urgenza di dare espressione musicale all’esordio dell’opera. Il compito terribile aveva piú volte minacciato di travolgerlo; poi, all’improvviso, mentre si trovava alla Spezia, l’illuminazione bramata: «Dopo una notte insonne e febbrile, il giorno dopo mi costrinsi a passeggiare attraverso le colline dei dintorni, rivestite di boschetti di pini. Tutto mi pareva nudo e deserto, e non capivo che ci stessi a fare. Tornato a casa nel pomeriggio, mi distesi stanco morto sopra un duro giaciglio, aspettando il sonno lungamente agognato. Esso non venne; caddi invece in una specie di dormiveglia, nel quale ebbi improvvisamente la sensazione di sprofondare in una forte corrente d’acqua. II suo romorío mi determinò ben presto come un suono musicale, e precisamente l’accordo di mi bemolle maggiore, dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti; questi arpeggi si configurarono in forme melodiche sempre piú mosse, ma senza mai uscire dalla triade pura di mi bemolle maggiore, che con la sua continuità pareva prestare una significazione infinita all’elemento in cui io sprofondavo. Con la sensazione delle onde che ora rumoreggiavano alte su di me, mi destai bruscamente atterrito dal mio dormiveglia. Tosto riconobbi che mi si era rivelato il preludio orchestrale dell’«Oro del Reno», quale io lo portavo in me senza pure averlo potuto distinguere esattamente. E rapidamente compresi anche qual’era la mia condizione: non dall’esterno, ma soltanto dall’animo mio doveva fluire a me la corrente di vita».
Ritornato a Zurigo, il 1 novembre Wagner cominciò la vera e propria composizione musicale dell’«Oro del Reno», che terminò il 15 gennaio 1854, data anche di questa impressionante comunicazione a Liszt: «L’“Oro del Reno” è al termine, ma sono al termine anch’io!… Adesso è finito, piú finito ch’io non credessi. Con quale fede, con quale gioia mi accinsi a musicarlo! Con un vero furore disperato ho proseguito e finalmente compiuto il lavoro: ah! come il bisogno dell’oro soggiogava me pure! Credimi, in tali condizioni nessuno mai ha composto; mi pare che la mia musica sia terribile; è una palude di cose spaventevoli e sublimi!».
Restava ancora la strumentazione, resa piú difficile dalla insolita tecnica usata, che consisteva in succinti abbozzi messi giú a matita, nel modo piú rapido, che avrebbero richiesto fin dal principio una elaborazione immediata in piena partitura. Ma anche quei fogli volanti trovarono ben presto la loro sistemazione, e il 28 maggio la strumentazione dell’«Oro del Reno» era terminata. Il giorno dopo… «invece di mettere in bella copia la partitura dell’« Oro del Reno», cominciai subito la composizione della ‘Walkiria’».
Quel furore disperato non poteva placarsi; ma a questo punto, compiuto l’«Oro del Reno», invece di seguire l’ansia divoratrice di Wagner alle prese con la sua opera, il nostro cammino si arresta. Ventidue anni separavano allora Wagner dalla meta finale della esecuzione che sola dà vita alla musica, né lui lo sapeva ancora. E, nel mezzo, quanti travagli! Wagner, nell’estate del ’57, dovette credere che mai sarebbe giunto a tale meta: e il 28 giugno di quell’anno, interrompendo a metà del secondo atto la composizione del «Siegfried», buttò giú un biglietto che, accanto al testamento di Heiligenstadt di Beethoven, è quanto di piú straziante e commovente musicista abbia mai scritto. Nella lunga interruzione, durata quasi nove anni, Wagner compose il «Tristano» e i «Maestri cantori», ma niente avrebbe potuto distoglierlo dal pensare a quel punto lontano che all’orizzonte segnava la sua strada. La meravigliosa avventura fiorentina, che darà l’occasione di ascoltare a distanza ravvicinata tutta la Tetralogia, permetterà altresí di ripercorrere tutte le tappe del suo sviluppo; per ora, sia pure a malincuore, gioverà accomiatarsi da Wagner e dai suoi personaggi nell’«augusto, magnifico castello», dove si troveranno alla fine dell’«Oro del Reno».
L’«Oro del Reno», la «vigilia» della trilogia drammatica, non dovette attendere fino al 1876 per ricevere il battesimo della scena: il 22 settembre 1869 fu eseguito infatti a Monaco, nel teatro di Corte consacrato allo spirito di Mozart, e dunque cosí lontano da quel mondo di dei, nani e giganti ancora in gestazione. Il successo, allora, risultò mediocre: ma Wagner non potè dispiacersene. Egli era assente: come avrebbe potuto assistere e gioire della nascita di un’opera ancora incompiuta, della venuta alla luce di una creatura mentre altre tre erano ancora in pericolo di vita? Egli, novello buon pastore, la abbandonò alla sua sorte, e continuò a ricercare le altre.
Nella celebre conferenza «Dolore e grandezza di Richard Wagner», Thomas Mann indicava nei poli solo apparentemente opposti di psicologia e mito le forze originarie della concezione poetico-musicale wagneriana; anzi, proprio nella riscoperta e nell’approfondimento del mito come mezzo piú alto per esprimere in musica il «solamente e unicamente umano», il fondamento ideale della idea stessa della Tetralogia: «Dall’opera storica al mito, Wagner aveva ritrovato se stesso, e ascoltandolo vien fatto di credere che la musica non sia creata per altro, non possa mai porsi altro compito fuorché servire il mito. Sia che ci appaia quale messo di una sfera di purezza, inviato a soccorrere l’innocenza e costretto purtroppo, non essendo salda la fede, a ritornare là donde è venuto, sia che ci riveli nella parola e nel canto l’inizio e la fine del mondo, con filosofia cosmogonica e fiabesca: sempre son colti la sua essenza, la sua natura, il suo tono con incomparabile sicurezza, con affinità ed intuizione istintiva, sempre vi si parla il suo linguaggio con una innata immediatezza che non trova altro esempio nell’arte».
Cosí Thomas Mann. Se nei precedenti lavori, dal «Rienzi» al «Lohengrin», storia e mito convivevano in equilibri sempre piú instabili, si trattava ora di compiere l’ulteriore passo, dettato da «inconscia necessità», per staccare completamente il mito dalla storia, e tendere a valori universali: «perché solo ciò che è assolutamente umano, al di fuori di qualsiasi definizione temporale, gli sembra capace della vita dell’arte».
Non contento delle leggende eroiche narrate nella «Mitologia tedesca» del Grimm, Wagner era risalito fino alle fonti prime, all’antico «Nibelungenlied»; di lí, alle saghe alto-islandesi e ai canti scaldici, e, infine, all’«Edda» poetica e prosastica, documenti letterari di remote tradizioni orali dove si custodivano le storie della mitica nascita del mondo, dell’origine degli dei e del loro tramonto, dell’era degli eroi e degli uomini: con la ferma e lucida coscienza che quel ritorno alle origini significasse in sostanza un ritorno dell’uomo in se stesso, un viaggio immaginario all’interno dell’anima affondante le proprie radici nel tutto cosmico. Un passo della autobiografia è a questo proposito significativo: «Trovavo qui una confusa costruzione, innalzata sui poverissimi frammenti d’un mondo scomparso, del quale non restavano tracce fornite di qualche evidenza: a prima vista si presentava come un rozzo ammasso di rocce screpolate, cosparse di miseri cespugli. Non incontrando mai nulla di compiuto, solo qua e là qualche cosa di somigliante a una linea architettonica, mi sentivo spesso tentato di abbandonare la disperata fatica di cavarne una costruzione qualsiasi. Eppure vi ero incatenato da un incanto meraviglioso: anche la piú insignificante delle tradizioni mi parlava con la voce d’una patria primigenia, e presto la mia fantasia fu tutta occupata da immagini che sempre piú distintamente si presentavano a me come indizi di riconquista d’una coscienza da lungo tempo smarrita e sempre nuovamente ricercata. Davanti all’animo mio non tardò a edificarsi un mondo di figure riconosciute con cosí inattesa evidenza ed affinità primordiale, che, quando me le vidi innanzi distintamente e le udii parlare in me, alla fine non potevo nemmeno comprendere di dove loro venisse questa quasi materiale intimità e sicurezza di contegno. Non saprei designare altrimenti questo risultato della mia interiore disposizione d’animo, che come una completa rinascita, e cosí come nei bambini ammiriamo commossi la gioia inebriante delle prime, nuove, fulminee percezioni giovanili, qualche cosa di simile infiammava d’entusiasmo il mio sguardo, come per miracolosa ricognizione d’un mondo nel quale finora io m’ero soltanto aggirato in cecità presaga, come il bimbo nel seno materno».
Piú specificamente, è altresí significativo che nella concezione globale della Tetralogia il ritorno agli antefatti piú remoti, dunque all’«Oro del Reno», avvenisse in buona parte per ragioni musicali, e cioè per la impossibilità, coerentemente avvertita da Wagner, di svolgere dal punto di vista musicale, senza un inizio» adeguato, la fitta rete di intrecciate relazioni che ne doveva derivare: se perciò in quella sua ambizione massima della sintesi di tutte le arti che è la poetica del «Wortton-drama», la Tetralogia non presenta aspetti di rivoluzionaria novità (come invece accade per esempio nel «Tristano»), è nell’uso e nella tecnica dei «Leitmotive» che si riscontra il centro ispiratore di tutta l’opera, a ribadire che la Tetralogia, come forse nessuna altra creazione di Wagner, si risolve esclusivamente, oltre la teoria e la poesia e l’azione, in valori e simboli «musicalmente» significanti.
Infatti: il «Leitmotiv», che accanto al concetto di motivo-conduttore (centrifugo) implica anche quello assai piú complesso di motivo-ricordo (centripeto), serve anzitutto per promuovere un sistema elaborato di raffinato virtuosismo, che rende la musica, come mai in passato, strumento di chiarificazioni e di sviluppi, ma anche di allusioni, di riferimenti e approfondimenti psicologici; ma non solo: pochi hanno messo abbastanza l’accento sul fatto che i celeberrimi temi del-l’«Anello», che dalla famigerata guida del Wolzogen in poi sono la croce e la delizia di ogni ascoltatore wagneriano che si rispetti, non nascono in realtà come figure a sé stanti (ogni motivo è legato indissolubilmente a un dato concetto, diceva Wolzogen, sbagliandosi di grosso!), ma acquistano senso solo nella continuità del processo musicale attraverso rapporti e associazioni sempre mutevoli, spesso ambigui e contraddittori, mai comunque passibili di irrigidimenti schematici. E poi: in tale incredibile caleidoscopio musicale, essi, all’inizio, non sono altro che materiale sonoro allo stato puro. Nell’«Oro del Reno», che pone e sviluppa il nodo centrale della vicenda, risiede come è naturale la fonte dei simboli e del materiale dell’intero ciclo, e le figure musicali o motivi o temi si presentano per la prima volta, la maggior parte, se non tutti. In realtà tali figure musicali derivano tutte dall’una o dall’altra di due classi fondamentali: l’arpeggio (ascendente e discendente) e la scala (diatonica e cromatica) , e piú precisamente dai simboli della triade arpeggiata ascendente (il Reno come purezza primordiale e immacolata) e della scala diatonica discendente (la lancia di Wotan come legge del mondo e del diritto). Wagner, dunque, pone alla base della sua immensa architettura musicale i fondamenti stessi del linguaggio: sarà nel divenire musicale che questi semplici suoni melodicamente articolati o aggregati in accordi, allacciandosi e separandosi in inesauribili relazioni, acquisteranno la pienezza simbolica di valori poetico-musicali e drammatici.
Se i «Leitmotive» sono le matrici dell’«Anello», non può sorprendere che la sua vera intelaiatura si collochi nel tessuto sinfonico che lo permea da cima a fondo, e in cui persino il testo poetico finisce per annullarsi. Certo l’unità stilistica della composizione musicale non sarebbe stata possibile senza l’unitarietà e flessibilità di un testo poetico in cui Wagner, oltre a dimostrarsi letterato finissimo (il gioco delle allitterazioni e degli arcaismi è solo un aspetto, e neanche il piú importante), riversa la miglior parte della sua forza psicologica, con esiti, soprattutto nell’«Oro del Reno», fulgidi assai: basterebbe l’esempio della caratterizzazione della perfida astuzia di Loge, gioiello di descrizione psicologica fra i piú rari e fantastici di tutto il teatro in musica. Esiti tali che anche il canto se ne avvantaggia, sorgendo con immediatezza e penetrazione assolute; ma, appunto, anche il canto non è per Wagner che una voce fra mille, la principale e piú espressiva se si vuole, sempre comunque nascente o riconfluente nell’orchestra, quasi fosse un’estensione particolare degli strumenti. Cosí, ancora una volta, ci accorgiamo che il termine di riferimento torna ad essere la musica, che sola anima gli spunti pur compiuti letterariamente, e la perfetta tenuta del tessuto sinfonico, tanto inaudito ai tempi di Wagner quanto profondamente radicato nella tradizione tedesca, soprattutto quella del suo dilettissimo Beethoven.
Disse una volta Wolfgang Sawallisch, cui sono legate le ultime grandi interpretazioni di Wagner in Italia, di pensare alla Tetralogia come a una enorme sinfonia in quattro tempi, e che proprio nella ininterrotta scansione in quattro scene dell’«Oro del Reno» sopravvivevano i criteri e le forme della struttura sonatistica classica; Karajan ha scritto di vedere nell’«Oro del Reno» un ciclopico «Scherzo» sinfonico di un Rivoluzionario intriso di spirito classico e romantico: che i moderni maghi della direzione d’orchestra esagerino nel rivendicare a Wagner quasi una dimensione di musicista «assoluto», assecondati da quei registi che, dimesso ogni apparato mitico e nibelungico orpello, hanno puntato tutto sulla penetrazione psicologica del dramma musicale? Può darsi: mai come oggi si ha la sensazione di essere vicini a comprendere la vera essenza della musica wagneriana, della sua arte prodigiosamente in equilibrio fra psicologia e mito, e nello stesso tempo ancora cosí lontani dal possedere la chiave che ne apre tutti i sigilli.
Che il mito cosmogonico, quale Wagner, romantico tedesco dell’Ottocento votato al pessimismo di Schopenhauer, conobbe e fece suo, sia un coacervo di concezioni spesso contrastanti, imparentate con le piú antiche tradizioni del pensiero greco, del misticismo cristiano e perfino buddista, non è questione su cui occorra insistere: quel che importa è invece cercare di sciogliere l’ordito di quel mito che Wagner ha tessuto nella sua architettura drammatico-musicale.
La cosmogonia nordica individua nella pura innocenza della monade acquea l’elemento originario di uno stato di natura primordiale e incontaminato, cui si era opposto, in successiva apparizione, l’elemento terrestre, fonte della prima individualizzazione e quindi del distacco da quell’unità originaria. Nel divenire dell’esistenza come vita, i primi abitatori del pianeta terrestre, la stirpe degli dei, originata dal mitico gigante Ymir per riproduzione agamica, perduta l’originaria identità si era venuta sempre piú differenziando, cercando invano di trasfondere nel mondo la legge di natura, che necessariamente, per la sua stessa sussistenza, si era dovuta .mutare in legge di diritto, in gerarchia di valori. Cosí, ai vittoriosi dei della luce, capeggiati da Wotan, che in eterna gioventú e beatitudine d’amore comandavano il mondo da loro stessi fondato sul diritto e sulle leggi, si erano contrapposti i giganti, che, in quanto solo forza bruta, pur anelando al potere erano incapaci di puntare coscientemente ad esso; e, soprattutto, gli dei delle tenebre, guidati da Alberich e Mime, i nani abitatori del ventre della terra, il favoloso Nibelheim, donde il nome di Nibelunghi: i quali nani nibelunghi, rosi dall’invidia per quella gioventú e beatitudine d’amore loro negata, avevano dichiarato minacciosamente guerra agli dei, aspirando a un nuovo ordine del mondo fondato su paura e schiavitú.
Dal cosmo originario, che si era venuto stratificando in sfere sempre piú particolari, era nato il mondo: e centro e anima del mondo era Erda, la saggia terra-madre di tutte le cose, che in sonno cosciente presiedeva al suo corso e alle sue vicende senza prendervi direttamente parte, in simbiosi con le Norne, che tessevano il filo del destino, e con le figlie del Reno, che in gioiosa innocenza incosciente custodivano il tesoro dell’oro del Reno, simbolo della bellezza della natura incontaminata e primigenia.
Un altro personaggio agiva in ambiguità nel rapporto con gli dei, ed era Loge. Loge, il dio del fuoco, l’elemento primo della creazione e, come tale, già implicitamente distruttore, era stato accolto fra gli dei per la fratellanza giurata con Wotan, ma in quanto spirito errabondo e inquieto, per sua stessa natura, costituiva il loro perenne stimolo e il loro tormento: «l’esca che li induce, li trascina all’azione, ed al medesimo tempo il rimorso, il pianto, il dolore, che miseramente trovano nel fondo dell’azione stessa».
Questo l’albero genealogico dei personaggi fondamentali che, venendo fra loro in contatto, mettono in moto il dramma nibelungico, ed essenzialmente quello dell’«Oro del Reno». Invano dei e nibelunghi, una volta compiuta la loro missione sempre piú intricata di colpe e di peccati, cercheranno nella creazione delle stirpi di semidei, eroi e uomini una impossibile salvezza, cui dovrà soccombere anche il piú puro di tutti, Siegfried. Perché se tutti, per il fatto stesso che sono nati e vivono come volontà individuali contro la volontà universale, sono condannati all’errore e alla sofferenza, la loro colpa smisurata è nell’azione negatrice della volontà, nel disconoscimento dell’amore per fame di potenza e di sopraffazione, nella macchia indelebile di una impurità congenita e immanente che si esplica nell’oltraggio infamante della consapevole rinuncia all’amore e del furto dell’oro del Reno: atto veramente osceno cui per primo Wotan, il guardiano della legge e della vita, empiamente soggiace. Cosí, come in un circolo infinito, l’opposizione si fa inconciliabile, e sempre piú sprofonda: al principio c’era unità, quiete, innocenza, amore silenzioso, l’oro puro nel fondo dell’acqua, nel fondo, germanicamente, del Reno; nel mezzo, molteplicità, mobilità, peccato, odio e dolore, disarmonia dell’universo: cosa sarà dopo, alla fine?
Il tratto più marcato nella visione di Wagner rispetto alle fonti sta proprio nell’aver accentuato il senso dell’incombente minaccia di un annientamento totale del mondo e degli dei, sotto forma di un «crepuscolo» (ma quanto piú pregno e sottile è il significato del tedesco «Dämmerung»!) logorante, spaventoso, indeprecabile; e di avere nello stesso tempo, nella figura titanica di Wotan, contrapposto al destino di espiazione dopo la «caduta» nella selva oscura, l’idea di una redenzione, che appare chiara, sia pure solo come intuizione, già alla fine della «vigilia»: a Siegfried, alla sua spada, toccherà il compito di redimere il mondo e di riscattarlo da ogni colpa. Mera illusione, «vanitas vanitatum»: ché Siegfried, pur spezzando con la sua spada la lancia corrotta di Wotan, soccomberà a sua volta, trascinando seco nelle fiamme tutto e tutti, in una catastrofe immane… Pessimismo amaro, desolato, disperato!… Un giorno, un giorno ancora lontano, dai frammenti di quella lancia e di quella spada purificate si costruirà la lancia di Parsifal, che verrà a sanare le orribili piaghe di Amfortas: ma quanti potranno ancora veramente rallegrarsene?
La trama delle contraddizioni, delle speranze e delle delusioni, delle gioie e dei dolori nella eterna valle di lacrime, è l’argomento delle tre «giornate»; l’«Oro del Reno», che ne è soltanto la grande vigilia, presenta in una sorta di flashback la preistoria del mondo e i primi passi di una nuova epoca del mondo. Coerentemente, dunque, si svolge in un unico spazio temporale come astratto e sospeso sul vuoto, quattro scene ossia quadri articolati senza soluzione di continuità, uniti da brevi interludi sinfonici. Ma prima che i personaggi entrino in azione, altro è quello che troviamo all’inizio: il Reno. Perché in principio era il Reno.
In principio era il Reno. Le 137 battute del preludio orchestrale, della cui origine già dicemmo con le parole stesse di Wagner, sono non soltanto la descrizione della natura vergine e innocente nella quiete primordiale, il paradiso acqueo incarnato nel Reno, che a poco a poco «diviene»: esse sono anche la rappresentazione della creazione della musica. Dapprima un solo suono, il mi bemolle grave dei contrabbassi, poi la sua quinta ai fagotti, infine lo sviluppo dell’accordo di mi bemolle secondo la successione degli armonici naturali del suono fondamentale, in ritmo uguale, appena articolato, suddiviso fra otto corni a entrate ravvicinate; quando i violoncelli e poi le viole, in sonorità che sempre piú si allargano spazialmente fino a investire l’orchestra tutta, definiscono la figura della prima articolazione del movimento, prima ancora che il sipario si alzi, prima che le figlie del Reno ravvivino col canto il rumore sonoro delle onde, ci accorgiamo che una nuova epoca del mondo è cominciata.
«Alberich esce dalle profondità della terra e si presenta alle tre figlie del Reno; le perseguita con le sue antipatiche proteste d’amore; respinto da una si rivolge all’altra; tutte disprezzano, scherzando e motteggiando, lo spirito maligno. Allora l’oro del Reno comincia a brillare. Esso alletta Alberich che chiede: a che serve? Le fanciulle gli spiegano che serve per piacere e per trastullo, che il suo splendore rischiara con raggio soave la profondità dei flutti; ma colui che sapesse costringere quell’oro a prendere la forma di un anello, potrebbe compiere cose mirabili, ottenere forza e potere, e ricchezza e domini; questo potrebbe farsi solo da colui che rinunciasse all’amore. Affinché l’oro non venisse rubato, esse erano là in qualità di custodi; chi si avvicinava ad esse non desiderava certo l’oro. Alberich almeno non ne aveva l’aria, mostrandosi innamorato. Di nuovo lo deridono. In quella il Nibelungo monta su tutte le furie, rinuncia all’amore, ruba l’oro e lo trasporta seco negli abissi».
Cosí, con fanciullesca naturalezza, Wagner narra a Liszt l’argomento della prima scena, nel fondo del Reno. In essa i contrasti acquistano subito, nella musica, un’evidenza emblematica: all’elementare motivo dell’oro del Reno, una semplice fanfara sulla triade di do maggiore, si oppone il tortuoso motivo della maledizione all’amore perpetrata da Alberich; e tosto trasmuta nella figura dell’anello di potenza, che, forgiato da Alberich, diventerà simbolo di terrore, dominando come un’ombra ancora oscura e minacciosa l’interludio strumentale fra prima e seconda scena.
L’atto di empietà compiuto da Alberich maledicendo l’amore ha riscontro in un atto altrettanto empio commesso nel rinnegamento dell’amore stesso, di cui il dialogo fra Wotan e Fricka, all’inizio della seconda scena, ci mette al corrente: Wotan, il giovane dio delle imprese luminose, ha stretto un patto malvagio coi giganti Fasolt e Fafner, promettendo loro, in cambio della edificazione di una reggia maestosa, la dea dell’amore e dell’eterna giovinezza, Freia. Il sogno di potenza concepito da Wotan, pronto a sacrificare l’amore di cui Freia è dispensiera pur di accrescere il suo imperio, coincide con la folle decisione di Alberich; ed è la musica a chiarire l’identità sostanziale di significato di rocca e anello: il motivo della rocca-Walhalla è identico a quello dell’anello, solo il cromatismo straziato e angosciante che deforma il secondo si sublima, e si distende, nei solenni accordi diatonici che formano il primo. Ecco un esempio illuminante e diretto dei vertici espressivi cui la tecnica compositiva wagneriana perviene.
Esiste però una differenza fondamentale nel tradimento che li accomuna, se pur su piani diversi, per volontà di potenza, che si renderà oltremodo evidente allorché Wotan, sempre piú preso nei lacci, bramerà lui stesso la conquista e il possesso dell’anello. Wotan, il dio degli dei, ha fondato il suo dominio sul mondo sottomettendosi alle stesse leggi di cui è difensore, e che a monito perpetuo sono state incise come «rune del patto» sulla sua lancia, quella lancia che Wotan ha sempre con sé come suggello della sua autorità ma anche della sua schiavitù) (la figura musicale che ricorda la santità del patto, una scala diatonica discendente, avrà da questo momento una grande importanza nello sviluppo della partitura) ; se dunque Alberich col furto dell’oro colpisce in realtà soprattutto se stesso, accettandone volontariamente tutte le conseguenze, Wotan, nel tradire se stesso abusando della legge fondata sull’amore, tradisce tutto e tutti, macchiandosi di una colpa che si riverserà su «tutto ciò che fu, è e sarà». Analogo concetto è ripetuto anche dai giganti, di fronte a uno sfacciato tentativo di rompere il patto: se il dio delle leggi si sottrarrà con l’ingango all’ordine di diritto alla cui protezione è preposto, la sua autorità cesserà immediatamente, e con essa la potenza degli dei, mentre il mondo precipiterebbe nel caos avviandosi a una fine rovinosa. La motivazione centrale di tutta la Tetralogia, nella evoluzione del dramma, sta in fondo tutta in questa modernissima intuizione psicologica di Wagner, che pone Wotan all’epicentro di un conflitto che lo trascende e lo rende, come individuo, impotente: e difatti, dopo la creazione del puro eroe Siegfried, la sua sorte lo porterà ad assumere le fattezze scrutatrici del Viandante, ad errare sulla terra senza nulla potere fino alla fine ineluttabile e desiata.
Nella seconda scena Fricka, la sposa di Wotan, sembra l’unica a rendersi conto della gravità della situazione: anche Fricka è la legge, ma burocraticamente intesa, come garanzia di un’esistenza borghese, agiata, ritirata dal mondo, chiusa in se stessa, donde le sua comica gelosia e le sue ire uterine, in cui Wagner par quasi divertirsi a insistere. Se Fricka è il costume rigido e inflessibile, labili figure sono Donner e Froh, gli altri dei che assistono come automi alla contesa. Non cosí Loge, la carta segreta in cui Wotan spera per togliersi dall’intricata situazione, che già minaccia di precipitare. Loge è il dio del fuoco, ma anche della menzogna; è altresí un tipo particolare, infido, astuto e malizioso, lo spirito che beffardamente nega, come Mefistofele, amico e nemico di tutti. Come per i giganti Wagner escogita un tema plasticamente descrittivo, rude e pesante, quasi onomatopeico, cosí Loge è contraddistinto da un cromatismo mobile, avvolgente e subdolo, quale egli è. È stato infatti Loge a consigliare il patto scandaloso coi giganti, assicurando Wotan che l’avrebbe tolto lui d’impiccio: questo spiega la relativa sicurezza di Wotan, su cui le colpe delle azioni di Loge non ricadono direttamente, e dunque nemmeno quelle di una eventuale inadempienza al patto promossa da Loge stesso.
Tutta la parte centrale della scena seconda è dominata dal racconto di Loge del furto dell’oro del Reno, primo esempio di un procedimento sistematico molto caro a Wagner nella Tetralogia: la reminiscenza delle vicende accadute. Che non si tratti mai di semplici ripetizioni, come tanto spesso viene equivocato da chi lamenta l’inutilità dell’insistenza su fatti già noti allo spettatore, parrebbe ovvio solo a ripensare che non è tanto l’azione in presa diretta che interessa Wagner (come avviene in Verdi, tanto per intenderci), quanto gli effetti che tale azione esercita sui diversi personaggi, ognuno coinvolto «dal suo punto di vista»; e, naturalmente, sul processo stesso dei fatti. In questo senso, la memoria e la riflessione, perfino l’autocitazione, assumono una importanza artistica decisiva, come in un romanzo, nel romanzo di Zola e Tolstoi, o di Proust, è stato detto. È stato anche detto che la Tetralogia potrebbe essere interpretata come un ricordo che rivive fatti già avvenuti, se non addirittura come un sogno (di Erda, di Wotan, di Wagner stesso?) ; e certo lo potrebbe essere, a maggior ragione, l’«Oro del Reno». Ma non solo: musicalmente, ciò permette a Wagner di sfruttare al massimo grado la tecnica dei «Leitmotive», intesi come semi di un processo organico infinito, nel cui ritorno, nelle cui perifrasi di figure e caratteri sempre sotto nuove angolazioni e relazioni, il divenire musicale stesso si vivifica e si sviluppa.
II passaggio alla terza scena, la discesa di Wotan e Loge a Nibelheim, è descritto da un possente interludio sinfonico di furore quasi espressionistico, nel cui terrificante crescendo si stagliano i colpi di martello sulle incudini del lavoro fabbrile dei Nibelunghi, ora sottomessi all’inesorabile potere di Alberich (ma non si insista, per favore, nel vedervi l’allegoria del lavoro capitalistico: ogni naturalismo, in Wagner, è trasceso nel simbolo, irriducibile ai minimi termini). Anche Mime, suo fratello, è schiavo: lo imparerà a sue spese quando Alberich, divenuto invisibile per virtú dell’elmo magico, lo batterà con la frusta deridendolo impietosamente. Mime è il primo di quei personaggi votati loro malgrado alla sconfitta, lui cosí maldestro ma anche simpatico, che si realizzano soltanto partecipando ad eventi di cui non sono protagonisti diretti, in cui non trovano posto né realizzazione, ma il cui corso fatalmente abbatte.
Proprio il sortilegio dell’elmo magico ci permette fuggevolmente di porre l’accento su un momento altissimo dal punto di vista timbrico, uno dei tanti piccoli capolavori di cui la forbita partitura è costellata (e anche Strauss lo cita con parole di ammirazione) : 4 e poi 6 corni con sordina, sul silenzio dell’orchestra, evocano l’atmosfera di magia in cui Alberich diventa invisibile. Ancora non sa che proprio l’elmo sarà la sua rovina, quando, spinto dalle abili parole di Loge, si lascia andare, con meravigliosa intuizione di Wagner circa la psicologia di Alberich, al gioco ingenuo degli incantesimi… un drago gigantesco, un rospo… che Wotan tosto afferra e Loge smaschera disarmandolo dell’elmo magico.
Il ritorno alla luce, nello stesso paesaggio della seconda scena, avviene ripercorrendo in salita verso l’alto il cammino dal ventre della terra; l’interludio sinfonico, che ripresenta il battito delle incudini, è però ora dominato dal cupo tema dei Nibelunghi in una allucinata atmosfera come di attesa. Alberich, prigioniera, è costretto a barattare la propria libertà con il tesoro aureo che i Nibelunghi accumulano ai suoi piedi. La sua angoscia cresce a dismisura fino al momento in cui Wotan, dopo l’oro e l’elmo magico, chiede per sé l’anello; a! diniego di Alberich, glielo strappa colla forza — la sua intenzione è chiara: da tutore della legge diventa ladro. La atroce maledizione di Alberich, il suo spaventoso saluto alla libertà, segnerà definitivamente la sorte dell’anello, consacrandolo, come simbolo della volontà di potenza (mentre anche Freia, dea dell’amore, è costretta a súbire lo smacco di un baratto con l’oro), alla distruzione inevitabile di ogni vivente: perché se chi possiede l’anello è maledetto, chi non lo possiede sarà roso dal rovello di impadronirsene, per sempre.
Wotan stesso sta per perdersi: è l’apparizione di Erda a ricondurlo alla ragione, sia pur solo per differire l’imminente crepuscolo del mondo e degli dei. Provenendo dal profondo dell’imperscrutabile, le sue parole di ammonizione suonano oscure a Wotan, che invano cerca di trattenerla dall’eterno silenzio della trascendenza in cui dimora. Principio immutabile della causalità naturale nel divenire del mondo, il motivo di Erda è simbolicamente identico a quello delle profondità primordiali dell’acqua del Reno, ma già il suo semplice rivolto degli intervalli annuncia il motivo del crepuscolo, approfondendo ulteriormente la natura del personaggio: Erda, pur sapendo tutto, non può operare per cambiare e trasformare il mondo, il cui destino è affidato alle Norne, che ne tessono il filo senza nulla potere, se non, come apprenderemo nel «Crepuscolo», domandarsi ansiosamente: «Weisst du, wie das wird?» (Sai tu, che cosa accadrà?).
Wotan cede, e getta l’anello ai giganti; dopo che la feroce scena dell’abbattimento di Fasolt da parte di Fafner, ora padrone del tesoro del Reno che custodirà in una caverna sotto le spoglie di un drago, ha reso evidenti i presagì di morte contenuti nelle parole di Erda, Wotan per la prima volta sente dentro di sé l’angoscia e il carico del suo destino, ormai segnato: non potrà piú agire in prima persona, ma potrà però partorire un pensiero e un atto di libertà che spezzi la ferrea catena delle necessità e riscatti la colpa, creando una stirpe di spiriti liberi, di uomini-eroi, che possano, meglio degli dei, non solo difendere contro nani e giganti il Walhalla, cui daranno il nome, ma anche e soprattutto stornare da se stessi e dagli dei la condanna ineluttabile. E già si annuncia in orchestra, ai tromboni, ancora incerto, il piú puro di questi spiriti: Siegfried, la libertà assoluta, l’agire che riscopre il fuoco dell’amore, l’eroe redentore, che, obliando e riscattando la caduta, provocherà il ritorno alla purezza originaria. Siegfried è annunciato per ora dal tema dell’arma che dovrà rendere possibile la redenzione, la spada Nothung, che in un primo momento significativamente Wagner indicava come un lacerto del tesoro aureo dimenticato dal gigante e raccolto da Wotan; un tema che, prima di acquistare forma e risplendere in fortissimo alle trombe nella tonalità accecante di do maggiore, si presenta collegato, e quasi come cosciente conseguenza, al tema dell’anello, causa dell’angoscia di Wotan, e poi a quello di Erda, come se fosse la conclusione delle riflessioni di Wotan: il suo sogno di meravigliosa potenza, un sogno di miseranda vanità.
Ma l’episodio che chiude l’«Oro del Reno», l’ingresso degli dei nel Walhalla, uno dei piú famosi di tutta la Tetralogia, riporta, dopo tanta angoscia e oscurità, come per incanto (l’incanto del temporale purificatore di Donner) nel clima rasserenato di una mirabile visione: un arcobaleno traccia dalla valle del Reno la via verso la rocca sublime e lucente, sottolineato da un’ampia e distesa frase dei violoncelli, nella tonalità appena velata di sol bemolle, che a poco a poco si impossessa dell’orchestra, per placarsi solo nella luminosa solennità del re bemolle maggiore finale. Il saluto di Wotan alla rocca è l’ultimo della sua illusoria felicità, ché il giubilo e il clangore del motivo della spada è subito increspato dal timido lamento che giunge dal fondo del Reno, dove si piange una triste solitudine (e a Wagner basta far sentire ora questo canto avvolto nel modo minore per dare i brividi a chi ascolta). È Loge che si incarica di tacitare le figlie del Reno, schernendone l’ingenuo lamento, mentre, avviandosi su per il ponte, gli dei non possono piú udire le loro ultime profetiche parole: «Schietto, fedele solo è nel profondo: falso e vile è quel che lassú trionfa!».
Il giorno dopo – ricordate? – Wagner già pensava alla composizione musicale della Walkiria.
Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica Invernale 1979/80