La prima giornata
(Richard Wagner ad Antonio Pusinelli, il 28 aprile 1856)
Concepito fin dal lontano 1848 come approfondimento del mito nibelungico, imperniato sulle gesta e la morte di Sigfrido, il progetto wagneriano di fare di quella epopea nibelungica una grande e composita opera – quasi la summa di un nuovo pensiero drammatico-musicale – si era venuto strada facendo sempre piú ampliando fino ad abbracciare una grandiosa azione drammatica in quattro parti che, partendo dalla catastrofe finale, risaliva agli antecedenti piú prossimi (le origini e le imprese di Sigfrido) e piú remoti (il furto dell’oro del Reno e la maledizione del nibelungo Alberich, argomento del prologo L’Oro del Reno). La necessità obiettiva di tale ampliamento, legata a ragioni drammaturgiche prima ancora che musicali, si rileva in una importante lettera a Franz Liszt del 20 novembre 1851, che è utile richiamare qui per quanto attiene in modo particolare La Walkiria. Wagner, dopo aver steso in versi il dramma della Morte di Siegfried (il futuro Crepuscolo degli dei) e successivamente quello del Giovane Siegfried (poi semplicemente Siegfried), nell’accingersi al lavoro musicale si era reso conto con lucida chiarezza artistica che in essi erano contenuti troppi riferimenti poetici (e virtualmente anche musicali) agli antefatti delle vicende che vi si narravano, tanto da non dare l’impressione di cosa unitaria e completa, nel senso piú ampio e profondo del termine. «In questi due drammi» – scrive Wagner a Liszt «una quantità di rapporti necessari li affido alla narrazione e anche alla immaginazione degli uditori. Tutto quanto nell’azione e nei personaggi di questi due drammi è troppo toccante, è troppo forte, mi fu d’uopo esporlo visibilmente nella rappresentazione, ma solo al pensiero… Nella mia favola mancano solo due momenti principali da rappresentare e sono entrambi indicati nel mio Giovane Siegfried. Uno nel lungo racconto di Brünnhilde dopo il suo risveglio (III atto), l’altro nella scena fra Alberich e il Viandante nel Il atto e tra questo e Mime nel I atto(1). – Ti puoi di leggeri figurare che non solo la riflessione artistica, ma specialmente la magnifica situazione, materia adatta per eccellenza alla scena, mi vi decisero, come vedrai esaminando minutamente quell’argomento. Immaginati lo strano, fatale amore di Siegmund e Sieglinde; Wotan in rapporto profondamente misterioso con quest’amore; poi quando nella dissensione con Fricka, nel suo represso furore condanna a morte Siegmund – a tutela del costume. – Infine la sublime Walkiria Brünnhilde, quando indovina l’intimo pensiero di Wotan, si ribella al dio e viene da lui punita. – Figurati questa ricchezza di motivi come li accenno nella scena fra il Viandante e Wala, poi in modo piú esteso nel suaccennato racconto di Brünnhilde, presi per argomento d’un dramma che precede i due Siegfried, e allora comprenderai che non solo la riflessione, ma particolarmente l’entusiasmo mi fecero concepire questo disegno». Fa seguito, nella lettera, lo schema del poema che solo piú tardi avrebbe assunto il nome L’anello del Nibelungo, nella forma definitiva che conosciamo: un prologo e tre giornate, prima delle quali Die Walküre (La Walkiria).
Se cronologicamente la stesura poetica della Walkiria precedette quella dell’Oro del Reno (impegnando Wagner, abbozzo a parte, dal 1 giugno al 1 luglio 1852 la prima, da metà settembre al principio di novembre dello stesso anno il secondo), ciò si inquadrava perfettamente nella singolare gestazione «a ritroso» dell’intero ciclo; ove da un unico ceppo, per progressiva ricostruzione di antefatti, erano nate quattro diverse creature, in stretto rapporto di derivazione e discendenza. Provvisto cosí di un solido testo, dopo opportune modificazioni agli ultimi due drammi Wagner poté passare, acceso di nuovi entusiasmi, alla composizione musicale, partendo naturalmente dal prologo. Composto in poco piú di quattro mesi (dal 5 settembre 1853 al 14 gennaio 1854), l’Oro del Reno fu finito di strumentare il 28 maggio 1854, per cedere subito, senza nemmeno essere messo in bella copia, alla tempestosa passione della Walkiria.
Le tappe che segnano la nascita della Walkiria ci sono narrate fin nei minimi dettagli dallo stesso autore. La composizione vera e propria (una legione di « selvaggi scarabocchi indecifrabili » buttati giú a matita, su fogli singoli, con la melodia e l’accompagnamento pianistico, e alcuni appunti per l’orchestrazione) lo occupò sei mesi esatti, un arco di tempo incredibilmente breve, se si pensa alla smisurata complessità dello spartito, per Wagner non insolito come mole (basti ricordare Rienzi o Lohengrin), ma senz’altro affatto nuovo quanto ai problemi di tessitura e di sviluppo che presentava, in sé e rispetto al contesto globale. Sappiamo cosí che alla fine di luglio (1854) Wagner aveva terminato la prima scena («che strano contrasto la prima scena d’amore della Walkiria con quella dell’Oro del Reno!», scriveva a Liszt) e il 1 settembre l’abbozzo di tutto il primo atto. La fine del secondo atto reca la data del 18 novembre; dopo appena cinque settimane, l’opera poteva dirsi schizzata da cima a fondo (27 dicembre).
Durante questo periodo, due avvenimenti molto importanti si accompagnano al lavoro creativo: la conoscenza e lo studio profondo, appassionato, di Schopenhauer (della sua opera capitale Il mondo come volontà e rappresentazione, apparsa nel 1818) e la prima idea, evidentemente nata sull’onda di quell’entusiasmo, di un’opera su Tristano e Isolda(2 ). Seppur indirettamente e per cosí dire a posteriori, la scoperta di Schopenhauer (« un dono del cielo nella mia solitudine», commentò Wagner) si fuse strettamente con il clima poetico e musicale della Walkiria, portando a maggior chiarezza concettuale certi caratteri sostanziali già intuiti e realizzati da Wagner nella sua opera, come risulta da questo passo di una lettera a Liszt (della fine dell’anno) importante anche per illuminare lo stato d’animo del musicista in quel periodo della sua vita: « Il pensiero principale di Schopenhauer, l’ultima negazione della volontà di vivere, è terribilmente austera, ma d’un sollievo unico. Per me, ben inteso, non è nulla di nuovo e nessuno può concepire tal pensiero se non si è trovato nelle circostanze. Ma solo questo filosofo lo ha risvegliato in me con tanta chiarezza! Se ripenso alla tempesta del mio cuore, al terribile spasimo col quale esso — contro la volontà — si aggrappava alla speranza della vita, anzi, se anche in questo momento essa infuria come un uragano, ho ritrovato un calmante che alla fine procura il sonno nelle lunghe veglie notturne, cioè l’intimo, cordiale desiderio della morte, completa incoscienza, totale annullamento, scomparsa di tutti i sogni — finale unica liberazione!
Wagner parla qui piú con gli accenti del suo Wotan che con quelli, assai piú asciutti, di Schopenhauer; scriverà però molti anni dopo, a mente fredda, nella autobiografia: « Solo attraverso Schopenhauer compresi ora io stesso per la prima volta il mio Wotan! «.
« Brunilde dorme! Io… purtroppo veglio ancora! » Con queste parole Wagner salutava l’arrivo dell’anno nuovo (1855). Lo attendeva ora la strumentazione della Walkiria. Iniziata nel gennaio, essa fu subito interrotta per un lavoro occasionale, intrapreso su suggerimento di Liszt: la rielaborazione della Faust-Ouverture, composta quindici anni prima a Parigi. Non era la prima volta (né sarebbe stata l’ultima) che Wagner abbandonava sul piú bello un compito che lo assorbiva completamente per cercare ristoro, e nuove forze, in un lavoro di piú circoscritto impegno. Fu in quel tempo che gli giunse un invito per recarsi a Londra a dirigere otto concerti della locale Società Filarmonica (non si dimentichi che egli era allora soprattutto celebre come direttore di orchestra). Wagner accettò e parti il 26 febbraio, fermandosi a Londra quattro mesi, durante i quali il lavoro alla Walkiria progredí assai poco e con fatica. La pena si mescolava alla rabbia: «Lasciatemi finire i miei Nibelungi! Ecco tutto quanto bramo. Se i miei nobili contemporanei non me lo consentono, il diavolo se li porti con tutta la loro gloria e con tutti i loro onori! — A causa di Londra sono rimasto molto indietro col mio lavoro; appena ieri finii l’istrumentazione del primo atto… sarà difficile che qui io vada piú avanti del secondo atto » (a Liszt, fine marzo 1855). Intanto leggeva Dante, quasi identificando la propria situazione londinese con l’Inferno. E il futuro si prospettava, nella migliore delle ipotesi, solo come un lungo Purgatorio! Ritornato a Zurigo il 30 giugno, Wagner si era appena rimesso all’opera con nuova lena quando una malattia infettiva, probabile conseguenza degli strapazzi del viaggio, lo costrinse a letto per un lungo periodo. A complicare ancor piú le cose, Io stato dell’abbozzo risentiva in modo particolare di quelle continue interruzioni: «Un grande intralcio mi veniva anche dal fatto che gli schizzi sui quali dovevo elaborare la strumentazione erano stati buttati giú sommariamente, non certo in previsione d’un interruzione così lunga nel mio lavoro creativo. Sovente mi trovavo di fronte ai miei foglietti a matita come ad astrusi geroglifici che non ero piú in grado di decifrare». Non fu certo un inverno felice per Wagner. Impicciato nei soliti, eterni guai familiari e finanziari, impossibilitato a lavorare come desiderava, al lavoro anelava come all’unica consolazione, scopo supremo della vita: «il lavoro — questo lavoro — è l’unico che mi faccia sopportare la vita», scriveva e ripeteva di continuo. La partitura della Walkiria fu terminata soltanto il 23 marzo 1856, alle miti aure della entrante primavera. Wagner se ne separò con dolore, nella orgogliosa certezza di aver composto la sua «cosa piú bella». Oltre che la piú bella, la piú intima, profonda e tragica, della sua piena maturità di uomo e di artista.
Al pari dell’Oro del Reno, anche La Walkiria non dovette attendere fino al 1876, anno della storica prima rappresentazione integrale dell’Anello del Nibelungo a solenne apertura del nuovo teatro di Bayreuth, per ricevere il battesimo della scena. Venne infatti rappresentata a Monaco di Baviera il 26 giugno 1870 sotto la direzione di Franz Wüllner, riscuotendo un «inaspettato successo», preludio a quel successo mondiale che già alla fine del secolo l’avrebbe resa l’opera piú amata ed eseguita del Maestro. Wagner si era battuto fino all’ultimo per non darla, ma aveva dovuto cedere alle insistenze di un regale ammiratore e mecenate amico: Ludwig Il, cui la partitura della Walkiria era stata nell’ottobre 1864 «regalata», con una lunga e affettuosa poesia a mo’ di dedica. A Ludwig, «regali» come quello erano costati già mezzo milione di marchi. E il peggio doveva ancora venire.
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Fra l’azione del prologo e quella della Walkiria, prima giornata della trilogia drammatica, passa molto tempo. Forse migliaia di anni. Un lungo tempo senza tempo, divino, non ancora umano, simile a una traversata immobile e silenziosa, durante il quale la maledizione che ha colpito gli dei per il colpevole concorso nel furto dell’oro è rimasta, anch’essa immobile, sospesa minacciosamente sulle loro teste. Wotan, che a capo degli immortali abita malsicuro lo splendido, superbo Walhalla circondandosi dei valorosi eroi caduti in battaglia che a lui recano le Walkirie, si logora nella attesa di nuove imprese e spia angosciosamente i segni premonitori del crepuscolo che Erda, la madre Terra, ha profetato imminente e inesorabile.
In una caverna, nel cuore della selva, il gigante Fafner – dopo l’uccisione del fratello Fasolt unico possessore del tesoro e dell’anello del Nibelungo -, mutatosi in drago, consuma la sua matta bestialitate custodendo in oziosa contemplazione il bottino maledetto del fratricidio.
Altrove, nel ventre della terra, il nano Alberich medita oscuri disegni, per recuperare quel che, conquistato con la rinunzia e la maledizione all’amore, altri ha poi a lui con la frode sottratto; e spera nell’aiuto di una stirpe ancora non nata, ma di prossima creazione, originata dalla violenza e dalla paura, madre dello scellerato Hagen che incontreremo nel Crepuscolo degli dei: l’uccisore di Sigfrido.
La rete del destino, filata ciecamente dalle Norne e governata con impotente saggezza dalla madre di tutte le cose, Erda-Wala, avvolge ormai tutti.
Come Alberich, contro Alberich, Wotan non è rimasto nel frattempo inoperoso. Se la redenzione dalla colpa è a lui negata (non potendo il padre degli dei assolvere se stesso né recuperare l’anello), sarà una stirpe nuova e coraggiosa, i Welsunghi, frutto di un pensiero di libertà e di un atto d’amore, a ottenerla per sé, squarciando la trama malefica e impedendo cosí la rovina che già incombe… una stirpe di uomini mortali generata da Wotan in una ardita discesa sulla terra, da cui sorgerà trionfante l’eroe puro che non conosce la paura e la colpa, Sigfrido, l’argomento delle giornate che seguiranno.
Questi gli antefatti e gli sviluppi, come li apprenderemo nel corso dell’opera. Risuonato solennemente in orchestra alla fine dell’Oro del Reno nel simbolo musicale della spada apportatrice di vittoria che il padre ha destinato ai suoi discendenti, il pensiero di Wotan diventa azione nella Walkiria. E lo diventa anzitutto col racconto dell’origine e dei primi passi della stirpe dei Welsunghi, attraverso la storia dolorosa di una coppia di gemelli ricongiunti dall’amore e votati alla morte. La triste storia di Siegmund e Sieglinde occupa l’intero primo atto. Si tratta già di un vertice assoluto dell’arte wagneriana, per economia e forza drammatica, un piccolo dramma all’interno del dramma piú vasto: solo in rapporto ad esso comprensibile appieno, eppure autosufficiente e distinto, musicalmente grandissimo di una grandezza, come vedremo, tutta speciale.
Ma una volta avviata, l’azione di Wotan gli si ritorcerà contro. E Wotan diventerà egli stesso, con le contraddizioni, i nodi insolubili della sua anima, dell’azione il centro, il catalizzatore del dramma. La peripezia, quale si compie nel secondo atto, è data dalla raggiunta coscienza della necessità di un duplice vincolo: desiderare ardentemente ciò che è proibito, per dover poi proibire ciò che si è desiderato. Apertamente lo riconosce Wotan, alla fine, quando chiede a se stesso e alla Walkiria: «Dunque tu facesti quel che cosí volentieri io desideravo di fare… e che pure a non fare un doppio fatto mi costringeva?» – Troppo tardi: sempre piú preso nei lacci di un dissidio interiore irreparabile, Wotan dovrà infierire, suo malgrado, su una ferita che sanguina come carne viva piagata in eterno. Di qui, la sua tragedia, vera e grande.
Cosí, il disperato tentativo di liberarsi del dio, all’inizio gioioso e fidente, conducendo inevitabilmente all’errore e al male, si muta in dolore, vero e grande; poco importa se passando attraverso la collera, il furore, la smania di rivolgere contro altri quella lancia onerosa che impugna. Si muta in dolore e, altrettanto inevitabilmente, nel desiderio di perdersi definitivamente, di annullarsi nella completa incoscienza della morte. Se a un dio fosse concesso il suicidio, Wotan si impiccherebbe a quello stesso frassino del mondo da cui un giorno lontano aveva tratto la sua luminosa potenza? Dopo tutto, siamo a teatro. E invece no. Immedesimandosi nei suoi personaggi, Wagner vuole additare altri orizzonti, ragioni umane e artistiche piú vere e profonde, non melodrammatiche: sublimare il teatro nella vita, cosí come aveva fatto della propria vita una ininterrotta finzione teatrale. Per questo, molto piú tragicamente, il suicidio di Wotan si identifica con la definitiva rinunzia alla vita e all’azione – vivendo e accettando il proprio destino; anzi costringendosi, vestiti gli abiti del Viandante, a seguirne passo dopo passo, con rassegnata impotenza, il corso: morte della volontà, non morte dell’amore per la vita che è dell’uomo, del Dio.
Nella Walkiria, la statura tragica della figura di Wotan domina su tutti, ma non incontrastata. La moderna grandezza di Wagner drammaturgo sta proprio nell’aver esteriorizzato sulla scena la lotta intima di Wotan con se stesso (un vero monologo interiore) in un contrasto fra Wotan e i suoi «doppi», tutte diverse «parti di sé» che in lui convivono, siano esse proiezione di sue aspirazioni oppure presenze oscure che tendono a imporsi autonomamente. Tali, rispettivamente, Siegmund e Sieglinde da una parte, e Fricka dall’altra; in mezzo a questi due poli, in posizione emergente e ambigua al massimo, Brunilde, la Walkiria che dà il titolo alla prima giornata. Anche Brunilde, infatti, figlia prediletta di Wotan e di Erda, è una parte di Wotan, l’espressione pura e profonda della sua volontà contrapposta, in certo modo, al suo sapere: «Al volere di Wotan tu parli, se tu a me dici quel che tu vuoi; chi sarei io, se il tuo volere non fossi?» – riconosce ella stessa all’inizio della seconda scena del secondo atto. Ma quando la fiamma d’amore, che in lei splendeva di luce riflessa, alimentata dalla pietà (che è la forma piú alta d’amore), si accende di luce propria, e Brunilde disubbidisce a Wotan per compiere quel che a lui, pur desiderandolo, non è concesso di compiere, cosí facendo ella non soltanto aiuta inconsapevolmente (o consapevolmente?) il corso del destino, che tutto sovrasta; con quell’azione assume anche un corpo e un’anima propri, umani in tutti i sensi: un carattere completamente individuale. Da «parte», sia pur «eterna», di Wotan, diviene creatura viva e autosufficiente, «l’Altro, non piú me stesso» a cui Wotan stesso aspira. Il ritrovarsi al fine di due personaggi cosí profondamente mutati e diversi – un padre che deve punire e una figlia in rivolta innocente, quale spaventoso abisso di sentimenti, di turbamenti e rovina! – innalza a proporzioni veramente gigantesche la scena conclusiva dell’opera. Brunilde non ritroverà mai piú davanti a sé il padre; ma per comprendere appieno le terribili conseguenze della sua scelta, dovremo attendere la terza scena del primo atto del Crepuscolo degli dei, il racconto straziante di Waltraute e il dialogo fra le due sorelle. Solo allora il dramma di Wotan potrà dirsi compiuto. La sua epigrafe potrebbe suonare cosí: «Lottò contro il principio femminino che era in lui, sotto triplice forma: Erda (la saggezza e lo spirito del mondo) – Fricka (la legge della necessità che tutto limita) – Brunilde (l’amore generoso e sublime). Ne usci sconfitto come dio, come marito, come padre. Sigfrido, figlio della sua carne, ne decretò la fine, con gioiosa incoscienza. Ma non visse né soffrì inutilmente».
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Fra il linguaggio musicale dell’Oro del Reno e quello della Walkiria, le differenze sono sostanziali, l’evoluzione evidente. Non si tratta di un divario nelle qualità estetiche (supreme, è persin inutile dirlo, qui come là), bensí di una differente complessità della materia musicale, che richiedeva mezzi diversi e diversa utilizzazione di questi. Cadono dunque, sotto molti aspetti, quelle straordinarie audacie rappresentative, plastiche, di grande forza evocativa che caratterizzano la partitura dell’Oro del Reno (si pensi alla discesa a Nibelheim, alla maledizione di Alberich, all’abbattimento del gigante, tanto per fare alcuni esempi); e al loro posto subentra un linguaggio piú continuo, piú morbido, piú sottile, piú compatto anche stilisticamente, dove quelle angolosità sembrano sciogliersi, gli stessi procedimenti tematici e armonici dissimularsi in una trama piú occulta, meno univoca. In altre parole, la musica prende atto dell’avvenuto passaggio dalla sfera del mito alla sfera della psicologia: se nell’Oro del Reno, prologo in cielo e negli abissi, essa doveva rappresentare un dramma originato da forze elementari che si scontravano come realtà esterne e giustapposte, nella Walkiria, dove accanto agli dei fanno la prima comparsa uomini e semidei, il contrasto da esterno diventa interno, interiore, psicologico appunto. Ma proprio nell’adeguamento a questi nuovi fini (che già di per sé travalicano la stessa cornice ottocentesca e romantica in cui nacquero), la musica acquista una capacità nuova e perfetta di farsi veicolo di emozioni, stati d’animo, pensieri e finanche azioni, sviluppandosi dàl dramma ma in pari tempo conglobando il dramma nella unità superiore del linguaggio a lei peculiare.
La unità del linguaggio musicale wagneriano non deriva soltanto dalla indissolubile e magistrale coesione di tutti i suoi elementi, nelle grandi come nelle piccole forme, persino nelle infinitamente piccole (un inciso, una cellula, una pausa), quanto dalla rete di mutevoli rapporti e stratificazioni continue che si instaura all’interno della totalità dell’opera. Quella «forma riflessa» che è alla base del dramma si estende anche alla musica potenziandosi nella prismatica pregnanza di un linguaggio ove tutto è rispecchiamento: concentrazione, pur nella identità del divenire musicale, di passato, presente e futuro. Se Alfred Lorenz (ma quando le ricerche di questo grande studioso viennese verranno rese accessibili anche da noi?) lo ha dimostrato dal punto di vista del processo tonale (con sorprese incredibili per chi stancamente continua a vedere in Wagner l’annientatore della tonalità; al contrario, la sua carriera fu un inno — solo nel Tristano un epicedio — al valore assoluto del sistema tonale!), è sul terreno piú evidente dei cosiddetti Leitmotive (ovvero motivi conduttori) che si è soliti evidenziarlo. Rispetto a tutte le prove precedenti, la tecnica wagneriana del Leitmotiv accede definitivamente nella Walkiria a quella sintesi drammatico-musicale che di Wagner fu aspirazione massima, perseguita con chiarezza concettuale estrema e realizzata con ardimento pari al magistero compositivo. Come? Accrescendo, anche là dove il ruolo semantico dei motivi rimane fondamentale, anche là dove spuntano tracce di letterarietà o di puro virtuosismo, la necessità strettamente musicale degli elementi tematici (o ritmici o timbrici o armonici); rendendoli cioè strutturalmente essenziali e conferendo loro una responsabilità funzionale in seno al complesso dell’opera.
Ma non solo: anche il tempo musicale è qui profondamente rinnovato. Non piú un modo di procedere per blocchi, scandito da cesure che separano parti chiuse e autosufficienti, rigorosamente simmetriche ed equilibrate (come ancora accadeva, per ovvi motivi, nell’Oro del Reno); ma spazi aperti a dismisura, che si perdono in lontananze irraggiungibili, nel succedersi di regioni senza frontiere; sabbie mobili, per riprendere la bella immagine del Boucourechliev, che scompaiono nelle infinite pieghe e contropieghe del gioco orchestrale. E, parallelamente, un tempo senza misura, incalzante, che ora spinge furiosamente in avanti (si pensi solo al secondo atto), ora si consuma come fiamma viva nel momento stesso in cui è (come nel primo atto), ora rimanda al passato (donde il grande valore delle reminiscenze, della poetica della memoria) o anticipa il futuro, in una continuità circolare che annulla, o ricrea su altri piani, il concetto stesso di tempo.
Quel che rende difficile (ed esaltante) l’ascolto di questa musica è proprio la sua doppia dimensione formale e temporale: la contemporaneità svolta in un processo lineare e irreversibile. Si vuoi dire che nessuna ricorrenza, nessuna simmetria, nessuna ripetizione significa mai, neppure allusivamente, ritorno in una zona già conosciuta, identica a se stessa, a noi familiare. Esiste un centro, ma questo centro cambia continuamente, e deve essere continuamente, con sforzo, ricercato per comprendere tutti i fili che in un intreccio inestricabile da esso si dipartono, in molteplici direzioni. Cosí, all’ascoltatore è richiesto io stesso itinerario spirituale di Siegmund, di Wotan (o di Brunilde e Sigfrido, alla fine del Crepuscolo degli dei): perseguire la propria identità ripercorrendo tutta intera l’esistenza, propria e altrui. Questa, in fondo, è la Tetralogia, questo è Wagner.
Parrà incredibile che tale miracolo del cuore e della mente si realizzi qui nel rispetto scrupoloso dell’unità di tempo della tragedia classica? Da un tramonto a un altro tramonto, là dove il giorno cede alla notte, racchiuso in tre atti e undici scene, l’arco drammatico dell’opera segue una parabola che, ora lo possiamo intendere, è guidata da una unità anzitutto spirituale: dolcemente eppure violentemente conducendoci dalla dimora di Hunding, dove si consuma il disperato atto d’amore di Siegmund e Sieglinde, alla selvaggia montagna rocciosa ove due altri atti d’amore, ancor più disperati, hanno luogo: il doppio sacrificio di Siegmund e Brunilde. Ma altre vicende si compiono nel frattempo: in luoghi che non sono piú luoghi di un’azione, ma momenti dello spirito eterno.
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Fra l’azione dell’Oro del Reno e quella della Walkiria, dicemmo, intercorrono migliaia di anni. Ma è come se non ne fosse trascorso alcuno. Cosí invita a pensare !a musica, nel preludio che apre l’opera: l’uragano che spezza la quiete orrorosa dell’attesa. Il suo compito è infatti quello di ritrarre naturalisticamente una tempesta, dalla quale un uomo solo, smarrito, inseguito e ferito cerca disperatamente riparo. Ancora non sappiamo che egli è Siegmund, il giovane wälside perseguitato da nemici implacabili — i Neidinge — per aver difeso una delle loro fanciulle costretta a nozze infami, e che ora giunge stremato proprio nella casa di Hunding, il piú feroce dei suoi avversari. Ma se prestiamo orecchio alla musica, la figura della tempesta che squassa la scena, coi suoi realistici crescendo e diminuendo, forte e piano, sullo sfondo immoto di un lungo pedale di re minore, non è altro che una trasformazione del motivo della lancia di Wotan, simbolo del potere e allo stesso tempo della schiavitú del dio, su cui si inarca possente, tale e quale, ripetuto in progressione armonica, il tema di Donner che verso la fine dell’Oro del Reno aveva evocato il temporale purificatore. Riallacciandosi a un materiale tematico già pregno di significati, Wagner non soltanto ottiene lo scopo di conferire continuità all’azione, ma rende anche piú profondi i nessi interni del dramma attraverso la musica, su un piano di doppia, intuitiva simultaneità: quel che Wotan alla fine dell’Oro del Reno avverte e vuole (l’infamia cosciente della colpa e il desiderio di riscatto) si pone immediatamente in atto all’inizio della Walkiria. Quando dalla figura della tempesta, che poco a poco va calmandosi, nasce, come per naturale filiazione, il motivo di Siegmund in fuga (violoncelli), un altro particolare si palesa in virtú della sola musica: Siegmund è una prima incarnazione del pensiero di Wotan, suo padre, ma non è ancora un pensiero libero, come sarà invece Siegfried. La differenza, semplificando, sta tutta nella opposta funzione di due simboli musicali già risuonati allo stato elementare nell’Oro del Reno e ora immessi nel divenire del dramma: la lancia (una scala discendente), simbolo della santità del patto che rende schiavo Wotan, e a cui è strettamente connesso il motivo di Siegmund; e la spada (un arpeggio ascendente), pegno, nella mente di Wotan, della redenzione, e nucleo originario del tema di Siegfried. Necessità del patto e necessità della redenzione (ancora una volta, una duplice necessità!) sono i poli di attrazione intorno ai quali ruota l’intera Tetralogia. E si ricordi: in tutta la Tetralogia non esiste una sola scena (tolte la prima dell’Oro del Reno e quella delle Norne nel prologo del Crepuscolo degli dei, che infatti si pongono al di fuori del dramma) in cui o la lancia o la spada o entrambe non siano materialmente sempre presenti ai nostri occhi. Con evidente, diretto significato.
L’apparizione, all’inizio della prima scena, di Sieglinde, sposa infelice di Hunding, il conforto e il ristoro che ella offre allo straniero esausto con atti di ieratica nobiltà in una atmosfera arcana e di mistero (è inevitabile stabilire una mirabile, non casuale corrispondenza con Elettra che accoglie il fratello Oreste a lei ancora ignoto), sono contrappuntati in musica da un inquieto motivo che si ripete ossessivamente uguale, statico e circolare (primi e secondi violini), espressione della sua pietà ma anche della sua ansia di amore. Wolzogen per primo, ci pare, ha fatto una osservazione solo apparentemente banale: questo motivo, egli afferma, compare sempre a due parti (procedenti in terza, aggiungiamo noi), « quasi a voler legare sotto il segno della compassione le figure di questa coppia gemella ». E quando si presenta a una sola parte, sottolineato con accento particolare, ciò avviene in momenti di grande significato: quando Siegmund vuole ripartire (e allora è spinto verso l’acuto, gridato quasi, su un basso fremente), quando Sieglinde deve lasciarlo solo e quando ella ritorna presso di lui. Lo segnaliamo come un esempio, volutamente semplicissimo, della cura meticolosa e finissima con cui Wagner costruisce la sua musica, punto dopo punto. Sottigliezze a cui egli teneva assai, e di cui la partitura della Walkiria è costantemente piena.
Nel dialogo della prima scena, riempito piú di sguardi e di silenzi che di parole, il motivo di Siegmund si congiunge a quello della compassione di Sieglinde. Tali motivi, nella loro ineluttabile fissità, non hanno nulla di eroico, come invano ci aspetteremmo: la flessione verso il grave del primo, con la ossessiva presenza del modo minore e la sospensione ritmica quasi fisicamente dolorosa; il tenero ondeggiare del secondo, che si innalza verso l’acuto solo per spegnersi in un piano improvviso, sono figure musicali che non hanno avvenire. Esse caratterizzano vittime predestinate, personaggi nati per espiare colpe altrui, promessi alla morte. Già all’esordio (e poi è un continuo crescendo, tanto piú amaro perché ammantato di fugace illusione d’amore), un presagio di sventura racchiude la storia di Siegmund e Sieglinde come in un bozzolo che mai si aprirà alla luce e alla vita. Una storia che, anche nella musica, si consuma senza svolgersi, accade senza divenire, dilacerata tra passato e futuro, senza un presente che non sia la fuga. Quando essi giungono ad affermarsi come persone nuove e vere, attraverso la compassione prima, l’amore poi, nell’attimo sublime del riconoscimento (dove per la prima volta si chiamano con il loro vero nome, svelandosi reciprocamente l’intero mistero della loro identità), in quel momento stesso si consegneranno nelle braccia della morte. Un’aura tristaniana avvolge come un sudario gran parte di questo primo atto. Tristano viveva già nella mente di Wagner, lo sappiamo; ma è di estrema importanza che di qui piú d’uno spunto tematico passi direttamente in esso, già nel preludio (il famoso salto di sesta), per esservi sviluppato e compiuto in nuova ricchezza di forme.
Questa capacità di caratterizzazione della musica, questo suo inabissarsi in un simbolismo di inaudita pregnanza per poi riemergere rigenerata e piú temprata, raggiunge nel primo atto della Walkiria vertici supremi. Si prenda il passaggio dalla prima alla seconda scena: spentasi l’eco dell’appassionato canto d’amore di Siegmund, culminato nel nostalgico assolo del violoncello, un motivo rude annuncia l’arrivo di Hunding, attraverso due gradi successivi: prima piano, quasi velato, come una minaccia incombente, poi in tutta la forza di uno spessore fonico massiccio. È facile notare che Wagner ottiene l’effetto desiderato affidando quel motivo, la seconda volta, alla compagine delle tube. Un improvviso squarcio degli ottoni dopo una lunga sezione dominata dal canto melodioso degli archi è espediente in sé abbastanza consueto, al pari di tanti altri bruschi contrasti di cui è capace la musica. Quel che conta è l’intuizione espressiva e l’uso del materiale che simili contrasti governa. Vi è qui in esso stillato come un veleno mortale, simbologia della morte che comprenderemo appieno solo quando quel ritmo inesorabile e l’accordo ribattuto che lo caratterizza riecheggeranno nella marcia funebre del Crepuscolo (nella tonalità della morte, do minore, qui come là). La relazione è ancora una volta sotterranea, ma precisa, sapiente: ché Hunding, qui, è l’angelo della morte di Siegmund, come Hagen lo sarà, là, di Siegfried.
Siegmund inizia, subito dopo, il lungo racconto delle proprie e altrui sventure, dove temi già uditi e ben noti si intrecciano in rapida successione ad altri di nuovo conio, seppur da essi derivati. Segnaliamo, fra i primi, quelli che rammentano la onnipresenza di Wotan, padre e protettore della razza dei Welsunghi, la cui ombra si espande in tutta la rievocazione di Siegmund; e, fra i secondi, uno solo, ma di fondamentale importanza per comprendere il risvolto psicologico dell’azione: allorché Siegmund, interrogato da Sieglinde su chi egli sia, esita un attimo a rispondere («solleva lo sguardo, la fissa profondamente negli occhi e incomincia gravemente», indica la didascalia), prima delle sue parole (che potranno dire solo chi egli non è: non Friedmund – apportatore di pace -, non Frohwalt – uomo gioioso -, ma solo Wehwalt – letteralmente colui che vive nel dolore e di dolore; sarà Sieglinde, piú tardi, a nomarlo Siegmund, che significa angelo di vittoria), risuona in orchestra (ancora violoncelli soli) una melodia che poco a poco, dopo un lancinante salto ascendente di settima, si estingue nel nulla. Non è solo, come spiegano le guide tematiche, il «motivo della razza dei Welsunghi», quella a cui Siegmund, unica sua certezza, sa di appartenere. La sua costituzione, il suo ritorno associato a Brunilde nel terzo atto, ci dicono anche che a esso è legata l’ansia di identità individuale di Siegmund, come incarnazione vivente di un bisogno d’amore; di piú, la sua storia (racchiusa in poche note isolate, ma cariche di valore semantico se riflesse su tutto il resto) di tristezza e di solitudine. È il peso insostenibile di tanta tristezza e solitudine che spaventa Hunding ed esalta Sieglinde, che squarcia il velame delle tenebre e spalanca davanti ai loro occhi la verità delle cose. Per il vincolo del sacro diritto di ospitalità, Hunding è obbligato a risparmiare per una notte il nemico disarmato: ma l’indomani sarà guerra e vendetta mortale.
La terza scena, che si apre sul pianissimo dei timpani soli, quasi un richiamo che si spenga nella notte, dopo un passaggio orchestrale di sgomentante bellezza, porta a compimento la vicenda con ritmo serrato. Nella solitudine notturna Siegmund ripensa con angosciosa speranza alla spada apportatrice di vittoria promessagli un giorno dal padre. Quella spada si trova là: prima ancora del famoso racconto di Sieglinde («Der Männer Sippe », uno dei rari pezzi chiusi della Tetralogia), lo apprendiamo inequivocabilmente dall’eroica fanfara del suo tema (prima piano, in minore, poi nell’animato fulgore di uno sfavillante do maggiore, quando Siegmund la scorge infissa nel tronco). Col racconto di Sieglinde, in cui torna solenne il tema del Walhalla, i due si riconoscono fratelli gemelli, ma si sentono attratti da un legame piú forte, quello dell’amore. Un tocco poeticissimo giunge a questo punto dall’esterno: una brezza lieve apre la porta, lasciando entrare un tranquillo raggio di luna. Come la primavera subentra all’inverno e la serenità alla tempesta, con la stessa forza naturale, lo stesso affiato cosmico che manda in frantumi le catene della legge e del costume esaltando un amplesso adulterino e incestuoso, Siegmund e Sieglinde vanno incontro al loro destino inebriati dall’incantesimo dell’amore. Nel duetto che segue – tutto un rifrangersi di ombre e di luci, di ricordi, nostalgie e speranze – Siegmund intona sull’identica melodia con la quale Alberich aveva rinunziato all’amore maledicendolo, parole fatali e decisive: «D’un sacro amore suprema angoscia, d’un ardente amore consumante angoscia, chiara mi brucia nel petto, mi spinge ad agire e a morire». Poi, al culmine dell’esaltazione, estratta dal tronco del frassino Nothung, la spada in esso conficcata da Wotan, fugge con Sieglinde nella foresta, sotto la luna, invano inseguito dal vorticoso slancio dell’orchestra, dove si mescolano estasi e affanno. Deciso ad agire per poter morire.
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La meravigliosa capacità della musica wagneriana di rappresentare col suo proprio linguaggio (proiettando come in un caleidoscopio magico diversi complessi tematici nel centro focale di una simultaneità contrappuntistica in perpetuo, rapido movimento) eventi drammatici diversi che si svolgono nel medesimo spazio di tempo in luoghi lontani l’uno dall’altro e nascosti ai nostri occhi, tocca un virtuosismo stupefacente nell’impetuoso preludio del secondo atto. Giú, sulla terra, la fuga della coppia ebbra d’amore e fidente nella spada appena conquistata, sulle cui tracce già corre Hunding con i suoi uomini e la muta dei cani, implacabile come una belva ferita; in alto, nel mondo « superiore « degli dei, sulla cima di una montagna rocciosa, l’incontro luminoso e felice fra Wotan e la figlia Brunilde. A sipario chiuso, noi non vediamo tutto questo, ma lo sentiamo distintamente attraverso la musica. Questa potente concentrazione drammatico-musicale del preludio, rispecchiandosi nella trasformazione tematica come nelle tensioni armoniche, nelle relazioni ritmiche come nella scelta, importantissima, di registri e timbri, si distribuisce nell’arco di cinque scene accomunate da una profonda unità linguistica, di tipo affatto nuovo rispetto a tutti i precedenti lavori del compositore. Non v’è dubbio: è col secondo atto della Walkiria che comincia la vera, cosciente evoluzione di Wagner.
In un ottimistico clima sonoro, stridente di contro alla tenebrosa oscurità delle due scene successive, la Walkiria appare per la prima volta nelle sue vesti di vergine guerriera (Brünnhilde, per noi Brunilde, significa « colei che combatte con la corazza »). È una apparizione breve, drammaticamente necessaria solo per muovere le future contraddizioni di Wotan, ma caratterizzata splendidamente dal grido di guerra («Hojotoho!»), nucleo tematico della celebre cavalcata del terzo atto, tutto contesto di terribili audacie (a freddo, per di più!) nella tessitura vocale che, con salti amplissimi, dal registro grave si spinge fino al do acuto.
Con l’arrivo di Fricka, venuta a reclamare i diritti della legge e del costume violati dai gemelli incestuosi, Wotan comincia ad assumere quei contorni che ne faranno il protagonista indiscusso dell’opera. Questa lunga « scena di vita coniugale « statica e grigia, con da una parte Fricka, dea del focolare domestico, del matrimonio e della famiglia, eppure sposa esacerbata, sterile, tradita e sovente abbandonata, e dall’altra Wotan, padre degli dei, custode delle leggi ma di fatto assertore ardito della libertà dell’eros, è quasi da ognuno giudicata una caduta dall’elevato stile tragico che permea tutta la Walkiria. Vedendovi uno spaccato di vita e di contrasti borghesi, piú ottocenteschi che mitici, alcuni spettacoli accentuano una ambientazione datata all’epoca di Wagner, con risultati affascinanti ma rischiosi e forzati. Non sta comunque a noi sbrogliare simili nodi. Certo è che la ricchezza tematica, le sottigliezze armoniche, i trapassi psicologici e la incisività del dialogo, evidenti già nel testo nelle continue metamorfosi della materia musicale, non giustificano affatto l’ipotesi di una caduta d’ispirazione né, come si è tentato, una lettura univocamente autobiografica di questa scena. Basterebbe por mente alla necessità drammatica di essa come passaggio graduale verso la presa di coscienza di Wotan, verso la tremenda esplosione di una elementare grandezza tragica quale ci appare nel grande monologo della seconda scena. Monologo, come già dicemmo, anche se realizzato nel dialogo con Brunilde: dove Wotan, novello Edipo, apprende fino in fondo l’intimo inganno cui la sua ansia di liberazione e di riscatto soggiace. Scena davvero fondamentale e terribile, come sembrò allo stesso Wagner in una rivelatrice lettera-confessione a Liszt: « Nelle mie ore di scoraggiamento, al cessare dell’estasi, mi sgomentava piú di tutto la gran scena di Wotan, massime nella sua terribile rivelazione a Brunilde; cosicché a Londra ero giunto perfino al punto da rinunciare affatto a tale scena. Per prendere una decisione in proposito, pigliai l’abbozzo ed eseguii al pianoforte la scena con tutta la necessaria espressione; per fortuna trovai che il mio spleen era ingiustificato, e con una esecuzione acconcia fa un puro effetto musicale ed incantevole ».
Alle ragioni di Fricka, che esce trionfante, Wotan non può ormai opporre che una cupa meditazione, mentre dall’orchestra tre tromboni fanno impietosamente udire il tema della maledizione di Alberich. Ora in orchestra, su un prolungato pedale di re grave di fagotti e clarinetto basso, si staglia, ripetuto cinque volte di seguito dai violoncelli, un nuovo motivo, tortuoso e pesante, emerso dal precedente dialogo con Fricka: espressione della collera, della disfatta e infine dell’angoscia che attanaglia il dio sulla soglia del declino. Wotan «lascia cadere il braccio con gesto d’impotenza e abbassa il capo»: «nel mio stesso laccio mi sono preso, io il meno libero di tutti!» — sono le sue prime parole. È chiaro che siamo al momento della verità. Nel canto di Wotan l’elemento predominante è l’intensità, in oscillazione costante fra sussurro e grido, accento brutale ed estrema dolcezza di pianissimi al limite dell’udibile. Brunilde, il capo appoggiato sulle ginocchia del padre, ne ascolta la confessione con trepido interesse. Nel lungo recitativo ritornano i momenti salienti della storia passata, accompagnati dai temi che li videro accadere: e sono reminiscenze già avvolte nel rimpianto, ricordi di un tempo perduto. Ecco le origini del male che rode gli dei, la maledizione dell’anello che tutto corrompe; ecco l’origine di Brunilde e delle sue sorelle Walkirie generate da Erda; ecco, al culmine della rievocazione, il grido lancinante a esprimere la folle speranza in un eroe che liberi gli dei dal patto funesto: grido che tosto si muta in disperazione, angoscia, desiderio di morte. Das Ende, das Ende, la fine, la fine! E là, quando la seconda volta il grido si attorce nelle spire di un mortale do minore (pianissimo, contro il violento fortissimo della prima volta su un inatteso, svettante accordo di mi maggiore), risuona il tema di Erda, figura del destino alfine compreso, alfine ammesso, alfine desiderato: quel destino che Alberich, ben piú operoso di Wotan per la potenza dell’odio, si incaricherà di compiere. Ma non basta. Il furore del desiderio di una catastrofe, già al suo vertice, si acuisce ancora in un crescendo orchestrale spaventoso allorché Wotan giunge a benedire l’opera di annientamento del figlio del Nibelungo, mezzo di distruzione finale di tutto e di tutti. Carattere, è stato osservato, tipicamente e pericolosamente tedesco, e fors’anche un po’ paranoico: la distruzione, anzitutto la autodistruzione, come panacea di ogni male. Ha ragione chi ha ambientato questa scena in un bunker di Berlino tristemente famoso, in pieno 1945? È questo il senso della rinuncia ad agire con cui Wotan, accettando il destino, compie l’unico atto di libertà a lui possibile?
Alla figlia che invano ha tentato di opporsi, il padre comunica l’esito
di un groviglio inestricabile di destini: Siegmund morrà, reo di colpe che trascendono il suo stesso agire. A Brunilde sia ora affidato il compito di apprestargli morte sul campo, come è dovuto a un eroe. A questo punto i temi, nella tragica caduta delle linee melodiche, dei registri tesi fino a spezzarsi, dell’intensità che si abbatte dal fortissimo al mormorio, sembrano straziarsi in brandelli. Poi, improvvisamente, in orchestra si fa silenzio, un silenzio rotto appena dal richiamo dei timpani. Da questo silenzio, da quei brandelli, dopo le ultime parole di una Brunilde rassegnata, sorgeranno nuovamente il tema del crepuscolo in violoncelli e contrabbassi, e quello dell’amore dei Welsunghi, sospirato dal corno inglese. Un’agitazione via via crescente segna il passaggio dalla seconda alla terza scena, preparando l’ingresso di Siegmund e Sieglinde in fuga. Al canto tenero e appassionato di Siegmund la donna risponde con parole di terrore e visioni allucinate. Il ritmo di Hunding incalza con la sua minaccia di morte, la tensione si fa febbrile. Uno stesso accordo di settima diminuita si ripete otto volte, fisso e selvaggio, quando al massimo del delirio Sieglinde crede di non vedere più l’amato. Una ferrea maglia di successioni cromatiche attanaglia come in una morsa i due amanti. Sieglinde, nella sua cecità veggente, predice la fine del fratello. Poi sviene.
La stupenda quarta scena (la famosa Todesverkündigung o annuncio di morte) si apre col motivo del destino (tube) prolungato dal ritmo funebre dei timpani e legato da pause dense di espressione allo straziante canto di morte (trombe sostenute dai tromboni) che dominerà tutta la scena. Ma rilevare le audacie armoniche o in assoluto i miracoli della tecnica compositiva wagneriana significherebbe cogliere solo l’involucro esterno di una pagina mistica e umanissima, dove genio e commozione, enigma quasi insondabile e massima chiarezza di accenti si mescolano a un senso di attesa e di inquietudine dolorosa. Brunilde si avvicina lentamente, scortata dal tema del Walhalla; posa un lungo sguardo su Siegmund, lo chiama per nome e gli annuncia il destino di morte. Egli risponde assumendo su di sé la melodia che all’inizio era risuonata in orchestra come canto di morte, quasi a voler accettare spontaneamente quel destino. Tre temi funebri si concentrano a questo punto contemporaneamente, ognuno affidato a un elemento specifico del linguaggio musicale: armonia (accordi del destino), melodia (canto di morte) e ritmo (pulsazione dei timpani). Quando però Siegmund apprende che nel Walhalla, cui è destinato, non potrà seguirlo Sieglinde, in un repentino moto di ribellione minaccia di uccidere la sorella con la spada Nothung, alla quale Wotan ha tolto ogni potere in battaglia. È allora che Brunilde, in un’impennata di amore e di pietà per l’eroe che cresce nel grembo di Sìeglinde, decide di trasgredire l’ordine ricevuto e promette di salvare i fratelli, accordando a Siegmund la vittoria.
Un breve interludio sinfonico che sembra riassumere, potenziato piú che placato, tanto tumulto drammatico e musicale, conduce alla quinta e ultima scena dell’atto. Siegmund ritorna verso Sieglinde addormentata, e i temi del « vero » amore terreno ripassano, dolci come un raggio di sole prima delle tenebre, per l’ultima volta. Tutto converge ormai sui colori e sul mondo sonoro individuati dalla Walkiria: la sua pietà, i suoi ritmi guerreschi. Non solo: d’un tratto ci accorgiamo che Sieglinde dorme vegliata da un motivo che prefigura il sonno di Brunilde alla fine dell’opera.
L’azione, che si è svolta con logorante lentezza nelle prime quattro scene, precipita, nell’ultima, in catastrofe fulminea. Tutto, nel corrusco paesaggio musicale, si fa adesso concreta minaccia. Si ode, fuori scena, lo squillo del corno di Hunding, mentre Siegmund si avvia alla battaglia. Sieglinde, rimasta sola, si risveglia come da un incubo, rivivendo allucinata il trauma della sua infanzia, il rogo della casa, la violenza subita. Violenza chiama violenza. Sul tema del patto e della schiavitú all’anello la lancia di Wotan spezza la spada di Siegmund che, disarmato, cade trafitto da Hunding. I due simboli originari e fondamentali della Tetralogia, la lancia e la spada, cozzano qui per la prima volta l’uno contro l’altro (dai frammenti raccolti da Brunilde, Nothung risorgerà forgiata da Siegfried. E nel Siegfried sarà la spada a mandare in frantumi la lancia di Wotan). Siamo all’epilogo dell’atto: mentre Hunding muore folgorato dal gesto sprezzante di Wotan, Brunilde con una cavalcata selvaggia ha portato via Sieglinde. In preda a terribile furore, il dio si slancia all’inseguimento per punire colei che ha osato trasgredire l’ordine ricevuto, seguito, come un presagio funesto, dal tema del crepuscolo che si dispiega ora in un ampio arco, in tutta la sua interezza.
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L’inizio del terzo atto riporta al clima tempestoso, spazzato dalla furia degli elementi, del preludio del primo e della fine del secondo atto. A sipario chiuso, non un preludio questa volta, ma già un’azione musicale colta nel suo svolgersi: è la famosa, famosissima cavalcata delle Walkirie. Qui Wagner si fa ammirare una volta di piú come scaltrito manipolatore di effetti musicali: spessore fonico inaudito, intrecci contrappuntistici fittissimi, ma anche metamorfosi di colori e di timbri sulla fissità di un’unica cellula ritmica ternaria. In tale groviglio orchestrale svettano le otto voci delle Walkirie, spinte audacemente verso l’acuto, fra spasimi di cromatismi, trilli e contrappunti ritmici, ma soprattutto, nel corso della scena grandiosa, combinate a formare degli insiemi, un vero coro. Ed è la prima volta che nella Tetralogia accade qualcosa di simile. Senza soluzione di continuità, la cavalcata si muta nella fuga di Brunilde, inseguita da un tremendo uragano dentro il quale è Wotan stesso. Invano Brunilde invoca la protezione delle sorelle, non per se stessa, ma per Sieglinde prostrata che chiede solo di morire. Il canto della donna, nobile e semplice, intriso di estrema malinconia, sembra venire di lontano. Anche il passato, per lei, non è che vano rimpianto. Ma alla rivelazione di Brunilde (« un wälside ti cresce in grembo »), uno scoppio di gioia improvvisa e il grido: « salva mio figlio! salva la madre! » Tutto si svolge in un attimo, in una concitazione frenetica. Sieglinde fuggirà da sola verso oriente, dove Fafner custodisce il tesoro dei Nibelunghi e Wotan non ardisce inoltrarsi; Brunilde, intanto, lo tratterrà. L’addio fra le due donne raggiunge vertici di sublimità indicibile: nel canto di Brunilde, che svela la grandezza del futuro eroe, risuona per la prima volta nella forma completa il tema di Siegfried, e il nome di Siegfried.
Sieglinde, prima di benedire la Walkiria con quanto ha di piú caro, il suo dolore, intona accenti di toccante riconoscenza su un motivo nuovo, un gioiello infuocato di pura, naturale bellezza. Si ricordi questo motivo: riapparirà una volta soltanto, alla fine del Crepuscolo degli dei, per celebrare la redenzione d’amore. Esso non guarda piú a Tristano, ma a Parsifal, ultima giornata nel lungo cammino del dramma musicale wagneriano.
Con effetto teatralissimo, la voce di Wotan tuona fuori campo, mentre Brunilde si nasconde dietro le sorelle. Le parole del dio, nel furore brutale che lo acceca, sono come inchiodate dal motivo della collera alternato a quello della lancia custode dei patti (scena seconda). Quando Brunilde gli comparisce davanti, Wotan comunica la punizione: la vergine, ripudiata e degradata dal suo rango di Walkiria, addormentata in sonno inerme, sarà svegliata e posseduta dal primo uomo che la troverà sulla sua strada. I temi « oscuri » si addensano annunciando le piú paurose minacce. Le Walkirie, che hanno tentato una poco convinta difesa della sorella in un episodio fugato curiosissimo, quasi ironico, vengono rudemente scacciate. Wotan e Brunilde si ritrovano nuovamente soli, l’uno di fronte all’altra. Una grande linea melodica (una vera « melodia infinita » wagneriana) sorge dal profondo nel clarinetto basso, passa poi nel corno inglese e nel fagotto, introducendo la terza scena, l’ultima e piú commovente dell’opera.
Disperazione e silenzio, ancora. Nella quiete che ha seguito l’uragano, il crepuscolo vespertino cede poco a poco alla notte. Brunilde, mentre l’orchestra tace, chiede a se stessa, prima ancora che a Wotan, dove risieda in realtà la colpa di cui si è macchiata. Nell’aver disubbidito a un comando empio, imposto da Fricka? O nell’aver ubbidito alla voce del cuore, alla volontà piú intima di Wotan? In questo dialogo, nonostante la profondità dei concetti e l’alto virtuosismo della forma poetica, la musica trascende di gran lunga il testo, raggiungendo una dimensione veramente sinfonica, puramente musicale. Sotto questo aspetto, siamo di fronte al piú grande finale d’opera di Wagner. Perfino il canto non è piú qui veicolo del dramma, ma valore musicale astratto, melodia assoluta. Ciò è evidente non soltanto nel punto di massima concentrazione sinfonica (l’addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco), ma anche prima. Basterà citare due esempi: il ricordato canto solo di Brunilde all’inizio della scena (formato di due parti: un antecedente che si innalza dal grave verso l’acuto sulla spinta del salto ascendente di settima che era appartenuto a Siegmund nel primo atto; e, dopo una lunga pausa, un conseguente che ripercorre il cammino inverso, dall’acuto al grave, sulle parole: «cosí nel profondo tu mi abbassi»); e, verso la metà, il meraviglioso canto di Brunilde in mi maggiore, con cui ella, imponendosi a Wotan, rivela le ragioni del suo agire: l’amore come giustificazione della disubbidienza.
Ma è nella parte finale dell’opera che la musica celebra il suo trionfo, con intensità espressiva ancor maggiore. Wotan, cedendo alla richiesta di Brunilde, ha acconsentito a recingere la rupe, dove ella dormirà il lungo sonno, con una cortina di fuoco che la protegga dall’uomo vile e comune. L’addio alla figlia amatissirna nasce da una intima, disperata rinuncia (duplice rinuncia: verso se stesso e verso Brunilde), ma si volge in estatica commozione al pensiero radioso del venturo Siegfried, « il solo piú libero di me, dio! ». A questo punto un oceano smisurato di chiarore pervade l’orchestra, per suggellare, nella definitiva consacrazione alla luce della tonalità di mi maggiore, la vittoria dell’amore. Dopo quell’ultima, sconvolgente esplosione sinfonica, ritorna la pace, in una trama musicale piú distesa, sovrastata dalla melodia ipnotica e cullante del sonno fatato di Brunilde, fino all’episodio delicatissimo del bacio che addormenta la Walkiria. Poi, l’incantesimo: Loge, dio del fuoco, evocato dalla lancia sul tema del patto, si mostra per compiere l’opera. La magia del fuoco, il guizzare di Loge a noi ben noto dall’Oro del Reno, diventa magia sonora in orchestra, un vero miracolo di scrittura strumentale (all’organico della grande orchestra wagneriana si aggiungono anche un Glockenspiel e sei arpe: con quale scintillante trasparenza!). Fuoco magico e sonno magico sono ormai tutt’uno. Le ultime, solenni parole di Wotan («Chi della mia lancia teme la punta, mai non traversi il fuoco!») risuonano sul tema di Siegfried. È un comando o una profezia dell’eroe senza paura che, dopo aver spezzato la lancia, verrà a risvegliare Brunilde? Con un lampo di sconcertante ambiguità Wagner ci congeda dalla prima giornata della Tetralogia. Mentre gli ottoni amplificano, grandioso, il tema di Siegfried, i violoncelli indugiano accorati sul canto dell’addio di Wotan. Ed ecco, come a un richiamo, ma perso nelle faville del fuoco, ancora una volta appare il motivo del destino. Cosí nel tumulto, nel dolore della rinuncia e della impotenza, volgendosi indietro nella notte, Wotan sparisce dalla nostra vista.
Da questo delirio che incendia intorno a noi la notte silenziosa, sorgerà un giorno l’amore?
1. In queste scene del <<Giovane Siegfried>> (rispettivamente l’ultima del terzo, la prima del secondo e la seconda del primo atto), si narravano in forma di esteso racconto vicende, precedentemente accadute, legate alle imprese di Sigfrido: quelle vicende che saranno appunto svolte in forma drammatica nella <<Walkiria>>. Lo stesso vale per la scena fra il Viandante e Wala (cioè Wotan e Erda), prima del terzo atto, cui Wagner fa riferimento più sotto. Che fossero « veri tesori di materiale artistico che sarebbe un delitto lasciare inufilizzati .., Wagner lo ribadiva anche in una lettera del 12 novembre 1851 all’Uhlig, aggiungendo: << Pensa a tutto questo dal mio punto di vista, con la straordinaria ricchezza di situazioni riunite in un dramma coerente e tu avrai una delle più commoventi tragedie; una tragedia che presenta agli occhi e alle orecchie tutto ciò che il mio pubblico deve apprendere in modo da intendere facilmente, nella più larga accezione, la <<Giovinezza>> e la <<Morte di Siegfried>>.
2. “Poiché in mia vita non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un ‘Tristano e Isolda’; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!”. Wagner scrisse queste parole a Liszt nella stessa lettera della fine del 1854 in cui comunicava di aver scoperto Schopenhauer. Come è noto, egli iniziò la composizione del ‘Tristano’ nel 1857, subito dopo aver interrotto (il 27 giugno) a metà del secondo atto il ‘Siegfried’, e lo finì il 6 agosto 1859.
Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica Invernale 1979/80