Robert Schumann – Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 97 «Renana»

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Robert Schumann – Sinfonia n. 3 in mi bemolle naggiore po. 97 “”Renana””

Le composizioni per orchestra e in particolare sinfoniche di Schumann hanno avuto la sfortuna di imbattersi in una di quelle astratte petizioni di principio della critica assai difficili da sradicarsi di dosso: infatti, a partire dalle monografie ottocentesche francesi, fino alla decisiva tappa costituita dal libro del Calvocoressi (Parigi 1912), si è andato ripetendo fino alla noia quello che ai giorni nostri è divenuto un vero e proprio luogo comune: e cioè la presunta incapacità del compositore tedesco a cimentarsi con la grande forma della sinfonia, e la altrettanto generalizzata cattiva strumentazione che affliggerebbe la scrittura orchestrale schumanniana, rendendola priva di flessibilità, uniforme, statica, difettosa nelle sonorità e via dicendo. Si tratta di affermazioni che, al di là del loro stesso piú che dubbio valore, sottendono comunque una problematica reale, viva e presente ancora oggi sia nella sostanza delle opere in questione sia nella collocazione storica in cui si situa la personalità artistica di Schumann. È certo che egli senti in modo particolarmente drammatico il suo destino di musicista venuto dopo Beethoven, dopo colui che aveva espresso sotto tutti i punti di vista quanto di piú alto e di piú perfetto era possibile esprimere: tutta la prima parte della vita di Schumann, con la preponderanza dell’attività critica e l’interesse principale per la libera composizione pianistica, lo potrebbe confermare. L’impatto con le cosiddette «grandi forme» coincide per Schumann con la maturità, nel segno di una libertà creativa che intende rifarsi, seppure solo idealmente, all’esempio di Beethoven.

Se a Schubert era riuscito di stabilire un fertile contatto con il mondo dei classici riutilizzandone le forme tradizionali in un contesto di sconvolgente novità che pure esternamente appariva privo di fratture inconciliabili, già Schumann non poté piú, dal punto di vista della concezione formale, sottrarsi agli obblighi critici oltre che artistici che gli imponevano le audaci conquiste introdotte da Beethoven nella grande forma sinfonica; né d’altra parte la sua indole piú profonda era tale da consentirgli di approdare a quella misura, quella serena raffinatezza e compostezza, quella olimpica luminosità che erano caratteristiche tanto ammirate nell’amico e collega Mendelssohn. Per questo Schumann, rispetto a questi compositori, è il musicista della crisi, il cantore di esigenze nuove, l’annunciatore di una nuova epoca che si fa luce a poco a poco in un’alba tanto carica di eventi da risultare una svolta decisiva nella storia dell’umanità: è l’anima romantica che per la prima volta fa la sua apparizione cosciente di sé, coerente fino in fondo. Arcanamente sospeso in dimensioni di spazio e di tempo musicali ancora sconosciuti. Schumann è il primo compositore dell’Ottocento a perseguire, con la piena coscienza di compiere soprattutto un atto della volontà senza garanzie di riuscita, l’ideale della ricomposizione in unità della grande forma musicale. La sua stessa logica formale si rivela sotto un duplice aspetto: da una parte disorganica e non adatta a riempire di contenuti nuovi gli schemi di una tradizione a cui pure è strettamente legata, dall’altra apertamente sperimentale, percorsa da aneliti e slanci tipicamente romantici che ne scuotono ad ogni passo le ancora fragili fondamenta. In realtà quello stesso equivoco riguardante la strumentazione diviene cosí un tratto assolutamente pertinente: e cosí pure certe altre ricorrenze, come ad esempio il monotematismo o la tecnica della ripetizione variata, sono invece strumenti di strutturazione formale, che tentano di risolvere il problema di una superiore unitarietà garantendosi, nel tema, un saldo punto di appoggio.

D’altra parte è proprio nel tema, il principio unificatore della musica classico-romantica, che si fa evidente la divergenza da Beethoven cui Schumann approda nella sue Sinfonie: esso non è piú, come in Beethoven, sviluppo di un’idea che si realizza soggettivamente nel processo formale considerato come un tutto, ma, invece, illuminazione sempre diversa di una medesima idea principale, che si ripete ossessivamente pur senza rimanere mai uguale a se stessa. in questa divergenza sta il senso di tutto un cammino storico in divenire, alla ricerca di una nuova individualità che arrivi a porsi anche come una nuova identità: l’esperienza di Schumann, in sé cosí irripetibile e conchiusa nel suo straordinario fascino, è a questo proposito sotto tutti i punti di vista decisiva ed apre senza dubbio alcuno la strada verso la musica della seconda metà dell’Ottocento, sia come atteggiamento spirituale che come concreto punto di riferimento specificamente musicale.

Solo in questa ottica piú ampia e proiettata verso il futuro si può dunque arrivare a capire la portata delle «imperfezioni» di Schumann e ad assaporarne il gusto tutto particolare, con un’apertura verso due direzioni principali: da un lato Mahler, che si ricollegherà alla dissoluzione della forma sinfonica classica favorita da Schumann con la tendenza all’ampliamento progressivo del tema nei suoi ritorni ciclici; dall’altro Brahms, che, perfezionando la poetica schumanniana della variazione, ne trarrà grande partito proprio nella strumentazione, nel « suono » cioè di un’orchestra che ne è la diretta, e sia pur migliore, erede.

Nel settembre del 1850 Schumann si trasferí con la famiglia a D üsseldorf, dove era stato chiamato a ricoprire la ambita carica di direttore dei concerti: si apri cosí un breve periodo di serenità e perfino di insolito entusiasmo, a contatto di un ambiente accogliente, soprattutto nella semplice schiettezza della gente, qual’era quello della cittadina renana. Di questo clima interiore placato porta un riflesso la «Terza Sinfonia», composta appunto sullo scorcio di quell’anno e idealmente dedicata, tanto da essere nota come la «Renana», alla lieta spensieratezza della vita sulle sponde del fiume cantato da Heine.

Le interpretazioni piú o meno impressionistiche e descrittive, che si sprecano a proposito della «Renana» fino a farne una <<Sinfonia della Natura>> sull’esempio della «Pastorale», pretendono di giustificarsi sulla base di una indicazione dello stesso Schumann, che ebbe a definirla «un quadro di vita sul Reno». Ancora piú programmatico suonava il titolo originario apposto da Schumann all’inizio del quarto tempo, e in seguito deliberatamente soppresso: «come accompagnando una solenne cerimonia» (per l’esattezza storica si trattava della cerimonia di investitura a cardinale dell’Arcivescovo di Colonia, a cui Schumann assistette nel duomo di Colonia il 12 novembre 1850). Pur prescindendo da questi sempre restrittivi riferimenti extramusicali, su cui Schumann stesso ebbe a dire parole non certo tenere, è indubbio che la «Terza Sinfonia» ha un carattere apertamente festoso e solenne, quasi «giubiloso», in uno spirito di «inno alla gioia» che la pervade da cima a fondo. Certo, qui la gioia non è piú quella titanicamente metafisica di Beethoven; pure, in questa estroversione che si dispiega quasi come un canto popolare, ma che conosce anche i tratti piú severi dell’ufficialità, è da riconoscere una inclinazione tipica dell’anima romantica, non piú schilleriamente universale ma in tutto e per tutto nazionale, tedesca, o, meglio, renana: renana nel senso che essa acquista, come simbolo squisitamente nordico, nella poesia di Heine, il grande poeta nativo di Düsseldorf e morto nello stesso anno di Schumann.

Di questo carattere fortemente plastico e dinamico è un adeguato esempio il prorompente tema che apre,  “forte” e nello splendore della piena orchestra, il primo tempo, «Vivace», nella tonalità dell’«Eroica», mi bemolle maggiore. Questo tema, ripetuto con mutate destinazioni timbriche e in differenti piani sonori, domina incontrastato l’intero movimento; esso procede da se stesso, del tutto libero da un periodare rigidamente simmetrico, via via scomposto nei suoi elementi ritmici e intervallici, colorato armonicamente, in una struttura cosí robusta e compatta da richiamare alla memoria la grande polifonia barocca: esempio tipico del concetto di monotematismo in Schumann. Sul piano formale generale, la «Sinfonia» si articola in una costruzione architettonica in cui i due movimenti estremi, che si corrispondono sia per spirito («Vivace» in entrambi i casi) sia per somiglianze tematiche e armoniche, racchiudono come due pilastri i tre movimenti centrali. Dunque, anche esternamente Schumann si distacca qui con chiarezza dal modello della forma classica, sostituendovi una organizzazione formale in cinque movimenti autosufficienti, seppure coerentemente collegati fra loro. Questo carattere, che si riflette anche nella mancanza di un vero e proprio tempo lento centrale, si avvicina sensibilmente a quello che piú tardi sarà adottato da Mahler, soprattutto nell’uso di un criterio compositivo ciclico, che al senso dello sviluppo sostituisce la continua ripetizione e il ritorno circolare. Lo «Scherzo» (Molto moderato), in do maggiore, è, nel suo ritmo di Ländler, un delicato omaggio a Schubert; il tema, esposto da fagotti, viole e violoncelli, è ripetutamente variato e arricchito soprattutto dal punto di vista timbrico, tanto che perfino il «Trio», dai confini non nettamente delimitati, si impronta, anziché contrastare, allo spirito di una variazione dell’idea principale. Il terzo movimento, «Moderato», in la bemolle maggiore, è, secondo la stessa indicazione originaria di Schumann, un «Intermezzo», in cui predominano le tinte un po’ ombrose dei legni, in particolare dei clarinetti. Una zona di raccolta intimità che contrasta con la solennità del successivo «Maestoso», in mi bemolle maggiore, in cui ancora una volta un unico tema domina da capo a fine, questa volta variato soprattutto ritmicamente. L’uso che Schumann fa qui della sezione degli ottoni, con l’aggiunta nella costituzione per il resto tradizionale dell’organico orchestrale di tre tromboni a cui è affidato il tema in una sorta di inno polifonico, anticipa se si vuole una caratteristica che sarà peculiare dell’orchestra di Bruckner. Il «Finale» (Vivace) ritorna allo slancio del primo tempo, riprendendone alcuni spunti tematici: si tratta di una vorticosa danza che, per quanto improntata allo schema sonatistico, pure ha qualcosa del carattere del rondò, sul tipo di quello schubertiano. Nello spirito di una apoteosi, esso ha un marcato senso di chiusa, in un tono grandioso e affermativo che riesce a giustificare anche qualche passaggio inessenzialmente enfatico.

Riccardo Muti / Ileana Cotrubas
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Sinfonica d’autunno 1977

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