Johannes Brahms – Sinfonia in 4 in mi minore op. 98

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Johannes Brahms – Sinfonia in 4 in mi minore op. 98

«Johannes? Ma certo. Gliel’avevo predetto. Sta un po’ appartato nella sezione tedesca – volentieri sarebbe andato a stare piú vicino a Beethoven – ma ha trovato una sistemazione comoda, molto semplice: qualche morbido cuscino, alcuni corni alle pareti, triadi arpeggiate e una deliziosa collezione di sincopi…» Queste parole, che Busoni mette in bocca a Schumann in un suo scritto semiserio del 1908 in cui si immagina la sorte dei maggiori musicisti dell’Ottocento nell’Al di là – e qui naturalmente ci si riferisce a coloro che meritarono il Paradiso – potrebbero bene racchiudere, fra l’ironico e il bonario, uno dei giudizi piú ricorrenti che accompagnano la figura di Brahms e la sua opera di compositore: come di cosa che non si mette in discussione, ma che vive quasi ai margini della storia musicale ottocentesca, come un bel mondo perfettamente confezionato ma troppo chiuso nella sua individualità per fare testo e contare al di fuori. Accanto a questo, altri giudizi, oggi diventati veri e propri luoghi comuni, hanno messo l’accento, proseguendo per altro su una strada già abbondantemente aperta, su quegli aspetti che caratterizzerebbero Brahms come un accademico, un classicista, un formalista, un mucisista borghese per una società borghese, e cosí via: giudizi e prese di posizione che, pur realmente originatesi nel seno stesso della polemica fra innovatori e tradizionalisti di cui Brahms, quasi suo malgrado, fu al centro, non possono piú avere oggi il tono della invettiva senza remissione che ancora era comprensibile sulle labbra di uno sfortunato protagonista di quelle stesse lotte, Hugo Wolf: « Originalità, ecco ciò che manca del tutto a un Dr. Johannes Brahms. Brahms è un epigono di Schumann, di Mendelssohn… è soltanto un avanzo di antichissimi resti e non un membro vivo nel grande corso del tempo… Le note vengono ammucchiate nella buona, vecchia forma, soltanto badando a conformarsi alle regole, e ciò che cosí ne risulta, ecco, è una… Sinfonia ». E che invece è molto meno comprensibile e giustificabile, proprio perché fondata su un malinteso concetto di progresso (Schönberg lo insegna), nella condanna di un critico musicale francese nostro contemporaneo, Antoine Goléa: «Brahms ha arricchito la musica di opere… che non hanno il pregio intrinseco di rivestire una funzione storica, opere che sono belle ma inutili, come i giorni estivi in novembre…». Rovesciando i termini, verrebbe quasi la voglia di rilanciare, per Brahms, quella definizione di « inattuale » che a suo tempo fu coniata per Mahler, il musicista della crisi che significativamente oggi sentiamo a noi cosí vicino; a patto di riferire tale inattualità di Brahms non tanto alla fortuna che le sue musiche, specialmente quelle sinfoniche, hanno sempre avuto nei repertori concertistici di tutto il mondo, quanto, appunto, alla mancata comprensione o individuazione delle caratteristiche di quelle musiche, del loro significato e del loro ruolo nel contesto dell’evoluzione musicale. Perché Brahms è un musicista fondamentale proprio per capire tale evoluzione (del linguaggio, della forma, dello stile musicale ma anche di tutta una civiltà), un fiume sotterraneo in cui sono andate a confluire esperienze e novità anche contraddittorie ma mai intese come chiusura, come del resto Schönberg capi e dimostrò assai bene quando scrisse: «Intento di questo saggio è dimostrare che Brahms — il classicista, l’accademico — fu un grande innovatore nella sfera del linguaggio musicale. Che, in realtà, fu un grande progressivo ».

L’opera sinfonica, da intendersi come un tutto compiuto e autosufficiente (è noto che nei paesi tedeschi si suole, con serietà tutta teutonica, interpretare le quattro Sinfonie come i quattro tempi di una immaginaria, immensa, unica Sinfonia), pur non esaurendo tutti gli aspetti sottilmente proprii della personalità brahmsiana (quali sono presenti nella musica pianistica, in quella vocale e da camera), pure ne rappresenta senza dubbio un importante capitolo, fondamentale anzi per capire il senso di un richiamo alla tradizione che è superamento della tradizione stessa nel nome di conquiste formali ed espressive nuove quanto già nate costituzionalmente solide. AI suo interno, l’ultima Sinfonia si pone come il punto di arrivo e di massima concentrazione dello sviluppo, al cui divenire Brahms fu sempre molto attento e cosciente, della ricerca nel campo della grande forma sinfonica, con una forza che ne riassume allo stadio della maggior evidenza ed essenzialità tutti i tratti piú peculiari e significativi.

Scritta ad un anno soltanto di distanza dalla « Terza », la Quarta Sinfonia fu principalmente compiuta durante i due soggiorni estivi in Stiria del 1884 e del 1885: al 1884 risalgono infatti il primo tempo e l’Andante, mentre il Finale e il terzo tempo — in quest’ordine — all’anno seguente. Nel settembre del 1885 Brahms offrì l’opera ad Hans von Bülow, allora direttore della famosa orchestra di corte di Meiningen, perché ne curasse i preparativi per la prima esecuzione, che avvenne, dopo che Brahms stesso ne ebbe curato la concertazione, il 25 ottobre, con un successo tale da travolgere ogni scetticismo del compositore e da fare inserire senza indugi l’opera appena nata nel programma della seguente tournée all’estero dell’orchestra medesima. Il rapporto di Brahms con la grande forma sinfonica basata sul modello della forma-sonata classica, che egli impiega integralmente nelle sue Sinfonie, non può prescindere dalla riflessione del momento storico-musicale in cui egli si trovò ad adottarla: da un lato spintovi dall’esempio di Beethoven, che pure agiva come un potente freno e aumentava illimitatamente le difficoltà (« Tu non puoi nemmeno immaginare in che stato d’animo si trovi uno come me nel sentire incessantemente un tale gigante marciare alle sue spalle », cosí in una confessione al direttore Levi a proposito di Beethoven) ; dall’altro conscio che la stessa volontà di fondarsi sulla tradizione non poteva annullare l’influenza di tutte quelle esperienze che si erano dipanate nel corso dell’Ottocento nel florido alveo del romanticismo — esperienze, oltre tutto, che Brahms sentiva sue quanto e forse piú di quella stessa volontà di classicità e di chiarezza.

Anche per quanto concerne il rapporto di Brahms con la società, musicale e non, del suo tempo, niente è piú sbagliato che volerlo ridurre in una univoca definizione, senza tenere conto delle diverse dimensioni operanti al suo interno (anche il discorso sull’intimismo, borghese o no non importa, non può essere liquidato sul piano di un irrisolto dissidio interiore o di una crisi di identità). Non vi è niente in Brahms che oggi ci possa apparire cristallizzato, chiuso o relegato in un passato remoto: anche concedendo che egli non abbia contribuito in prima persona a creare il futuro, certo in nessun caso ne ha frenato o ritardato lo sviluppo: anzi.

La tecnica sinfonica brahmsiana e i suoi tratti compositivi principali, quali risultano in maniera paradigmatica dalla « Quarta », si fondano innanzitutto su una concezione della Sinfonia come di una costruzione dalle dimensioni monumentali, dove gli aspetti architettonici fondamentali prendono vita dall’interno stesso delle forme e del linguaggio in essa sviluppati; l’arco che ne sorregge la struttura deriva direttamente non soltanto dalla concezione formale globale, ma anche dall’uso in perpetuo divenire (si pensi soltanto alla ricchezza degli aspetti armonici) dei parametri costitutivi del linguaggio, in lampante antitesi dunque con la tendenza contemporanea al « programma « nella composizione sinfonica (cosí operante ancora perfino in Mahler). Questo addensare e racchiudere tutto all’interno del materiale compositivo e dello sviluppo formale non comporta necessariamente un esito di tipo formalista (come molti hanno equivocato), quanto la volontà di sfruttare fino in fondo tutti gli aspetti della organizzazione sinfonica edel linguaggio che ne sta alla base, fino al suo esaurimento che dialettica-mente coincide con una nuova vita. È significativo in questo senso che Brahms, in tutte le sue Sinfonie ma nella <<Quarta>> in particolar modo, orienti la grande forma sí da farla convergere e « risolvere » nel Finale, che acquista cosí un rilievo spiccato sia in sé (come sintesi nella forma a lui piú congeniale della variazione), sia in rapporto al primo tempo, a cui idealmente si contrappone, sia, infine, nel contrasto con la maggiore libertà di cui dal punto di vista formale godono i tempi intermedi, improntati quasi allo spirito di movimenti di una « suite » e delle sue movenze tipiche di danza.

Il tempo lento, conformemente all’esempio dei classici e a differenza di Mendelssohn e di Schumann, si trova al secondo posto: si tratta di un «Andante moderato » molto particolare, in cui balzano in primo piano alcuni dei piú tipici caratteri espressivi della vena romantica di Brahms, sospesi fra arcaizzanti atmosfere di sogno e squarci lirici di contenuta drammaticità. Se da un punto di vista formale è interessante notare che Brahms rinuncia qui al principio del Lied tripartito in favore di una continua elaborazione di motivi e di intrecci tematici guidata da un preponderante interesse melodico, non si può fare a meno di sottolineare l’uso personalissimo della strumentazione, orientata verso le finezze e le possibilità inesauribili della grande orchestra trattata « cameristicamente », già in un orizzonte sorprendentemente moderno e ardito.

Nel terzo tempo, « Allegro giocoso », l’organico si presenta viceversa insolitamente potenziato, non soltanto per raggiungere effetti di particolare potenza sonora, ma anche per permettere ulteriori combinazioni e differenziazioni timbriche (vi appare perfino, un « unicum » nella produzione sinfonica di Brahms, il triangolo). Pur non essendo indicato come tale, il terzo tempo sembrerebbe assimilarsi, fin dal balzo melodico iniziale, ai tratti tipici di uno Scherzo (uno Scherzo come derivazione immediata del Minuetto o addirittura del Ländler viennese) ; in realtà, lo schema formale riflette piuttosto quello di un tempo di sonata senza sviluppo, con una parte centrale (« Poco meno presto ») di contrasto, quasi un piccolo Intermezzo affidato alla calda voce dei corni. È interessante notare come questa anomalia, che non si riscontra altrove nelle Sinfonie di Brahms, può essere spiegata dal fatto che l’ultimo tempo è scritto nella forma del tema con variazioni, e che quindi questa assimilazione del terzo tempo a un tempo di sonata serve a compensarne l’architettura complessiva; senza contare che, originariamente, l’ordine dei due ultimi tempi fu forse pensato in termini invertiti.

Ma è soprattutto nei due tempi estremi che la tecnica sinfonica brahmsiana rifulge in tutta la sua sostanza di novità e di compiutezza, sotto ogni punto di vista: nel carattere dei temi, innanzitutto, ma anche nel rapporto che si instaura fra di essi e nella loro reciproca elaborazione.

Nel primo tempo, « Allegro non troppo », il complesso del materiale tematico — primo e secondo tema, temi principali e temi secondari — non si presenta infatti sotto la forma di unità autonome distinte fornite di una propria identità soggettiva (come accadeva nei temi sia classici sia romantici), ma è intimamente strutturato secondo una logica concordanza interna di pensiero. Ne deriva che anche i temi secondari non si oppongono per contrasto a quelli principali, ma agiscono come pensieri paralleli che ne chiariscono l’iter di elaborazione, come veri e propri excursus tematici che si susseguono senza soluzione di continuità, non portando ad alcun significato essenziale per lo sviluppo formale, che resta quello di un progressivo divenire monotematico. Questo si mostra appunto soprattutto nello « sviluppo » (la parte centrale e piú importante del tempo di sonata), che è condotto dalle trasformazioni successive del tema principale non nel senso di un lavoro tematico basato sulla messa in tensione dei contrasti fra i diversi soggetti, ma in quello della loro variazione e parafrasi all’interno, di un’unica idea. La diversità dal modo di procedere di Beethoven balza subito agli occhi, in una distanza che Brahms ha potuto colmare fondandosi sulle esperienze tecniche e formali compiute nelle composizioni pianistiche; è evidente e naturale a questo punto che la struttura del tema principale (quello che apre la Sinfonia, affidato ai violini e contrappuntato dai legni) sia organizzata in modo da contenere al suo interno il principio della variazione, sí da permetterne non soltanto ampie dilatazioni e mutazioni, ma tutta una serie di derivazioni e di aperture senza che la sua identità originaria vada perduta o distrutta (Schönberg ha osservato come questo tema sia in stretta relazione perfino con il tema delle variazioni dell’ultimo movimento). D’altra parte, l’uso dell’arte della variazione e della trasformazione è sempre stato universalmente riconosciuto come il punto centrale della tecnica compositiva brahmsiana: quest’arte, che Brahms conquistò a sé nello studio della scienza contrappuntistica dei grandi maestri del Barocco, si arricchi e si consolidò in lui con lo sviluppo di una personale concezione formale particolarmente attenta a dare alla composizione un orientamento in senso polifonico. Per Brahms la variazione è appunto il mezzo di strutturazione formale per eccellenza, che si fonda non già sulla distruzione o sul superamento del tema, ma sul suo mantenimento come identità che si autoanalizza trovando la sua sostanza solo alla fine del ciclo, quando tutte le possibilità sono state sfruttate per verificare la verità del punto di partenza, il tema che implicitamente le conteneva. In questo senso, ancora una volta Brahms si oppone a Beethoven, il cui concetto di variazione è strettamente collegato al superamento del tema, alla sua deformazione e al suo annullamento per divenire qualcosa di sempre nuovo e diverso; per Brahms, esso permette semplicemente di gettare lo sguardo sugli orizzonti sconfinati del linguaggio polifonico: quanto in realtà il suo sguardo fosse stato penetrante, lo si sarebbe potuto capire soltanto alla luce degli eventi musicali del nostro secolo.

È quindi tutt’altro che un puro caso il fatto che Brahms, dopo aver introdotto con le « Variazioni sopra un tema di Haydn » (1873) la forma delle variazioni nel dominio della grande orchestra basandosi sulla austera forma della « ciaccona » (o, estensivamente, « passacaglia » che dir si voglia), a questa stessa forma-base si sia rifatto nel Finale (« Allegro energico e passionato ») della sua ultima Sinfonia. Al tema di otto battute esposto dai fiati (un tema che significativamente Brahms mutuò con poche modificazioni dalla Cantata n. 150 di J. S. Bach <<Nach dir, Herr, verlanget mich>>), fanno seguito 32 variazioni che, senza alterare mai sostanzialmente la successione armonica del basso fondamentale, si aprono come un caleidoscopio sulle infinite possibilità combinatorie del linguaggio e dei suoi parametri, dove ogni variazione, certo non priva di sempre cangianti connotazioni espressive, è un raggio d’azione disposto a ventaglio intorno al centro che la racchiude: l’esempio massimo della originalità e della matura individualità artistica di Brahms.

Proprio in questa riduzione all’essenza del linguaggio e della forma all’interno di una grande costruzione architettonica, senza compromettere ma anzi potenziando i tratti espressivi caratteristici dell’arte musicale, sta il significato compositivo della Quarta Sinfonia, molto vicina al punto centrale di quel grande circolo concentrico con cui può essere simboleggiata l’opera complessiva di Brahms. Questo dogma generale della sua arte, visto nella <<Quarta>> ancora sotto l’aspetto puramente musicale, si rispecchia anche nella essenzialità inconfondibile della scrittura orchestrale, dove una volta di piú Brahms si pone come un indiscutibile quanto incompreso innovatore: il suono della sua orchestra è infatti la immediata conseguenza di una strumentazione non soltanto strettamente dipendente dalla concezione generale della forma (dove il timbro entra come parametro costitutivo del linguaggio), ma anche direttamente collegata con uno stile che, proprio per il suo orientamento polifonico che, fondandosi sulla variazione, richiede la circolazione della melodia nel suo divenire dalle voci principali a quelle secondarie, si basa espressamente sulla trasparenza delle voci intermedie; e rifiuta dunque non per ottuso tradizionalismo ma per necessità vitali la sonorità compatta e ricca di colori della orchestra « moderna » di Wagner e di Bruckner. La scelta dell’organico dell’orchestra classica con il semplice raddoppio dei fiati e con un uso parsimonioso di tromboni e strumenti affini, appare dunque del tutto conseguente, perché ciò non toglie che egli seppe sfruttarne al massimo le possibilità di combinazione e di distribuzione, in una valorizzazione assoluta dello spazio sonoro che, oltre a conferire quella pienezza e quella risonanza cosí tipiche, di fatto non escludevano l’uso delle piú sottili differenziazioni sonore, prefigurando anzi un aspetto decisivo nel futuro dell’orchestra. Certo, forse a qualcuno tornerà in mentre l’immagine della bellezza inutile dei giorni estivi in novembre: personalmente, riteniamo che anche uno solo di quei giorni possa alle volte rivelarsi utile e necessario quanto e forse piú di tutta la bellezza accecante dell’estate.

Carlo Maria Giulini / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
40° Maggio Musicale Fiorentino

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