Ludwig van Beethoven – Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92

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Ludwig van Beethoven – Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92

Composta quattro anni dopo la « Pastorale » (1808) e quasi contemporaneamente alla « Ottava », che difatti ne riflette in un orizzonte piú rarefatto lo spirito, la Settima Sinfonia fu portata a termine già nell’estate del 1812, ma eseguita per la prima volta soltanto 1’8 dicembre 1813 nell’aula magna dell’Università di Vienna in occasione di un concerto di beneficenza a favore dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau. Dato lo scopo patriottico, i migliori strumentisti allora presenti a Vienna vollero far parte dell’orchestra, che era diretta dall’autore: in un clima di comprensibile entusiasmo, la nuova opera ebbe un battesimo felicissimo, coronato da un successo che sarebbe rimasto senza eccezioni presso i pubblici di tutto il mondo e di tutte le età. Singolare destino, quello della « Settima »: opera che si direbbe la piú sfuggente e la meno conforme, insieme, appunto, alla « Ottava », alla immagine che da sempre ci è stata tramandata di Beethoven, del suo impegno prometeico e del suo titanismo di creatore, essa deve gran parte delle sue fortune, come e forse ancora piú della « Pastorale », alle interpretazioni letterarie in chiave impressionistica o didascalica che le sono state sovrapposte, da Wagner a Schumann, per dir solo delle più celebri; mentre oggi, al contrario, come è rispecchiato anche negli estremi limiti di una tendenza esecutiva e interpretativa permeata di implacabile rigore (di un Boulez, di un Abbado, per citare solo due nomi), sempre piú si tende, in sede critica e analitica, a valorizzarla su un piano strutturale o quanto meno a inquadrarla in una oggettività distaccata, priva del conforto di qualsiasi estroversione. Eppure, nell’uno come nell’altro caso, i conti sembrano tornare sempre, o meglio non tornare mai, perché la « Settima » continua a sembrarci inafferrabile nella sua meravigliosa ambiguità, segno del capolavoro piú autentico e assoluto, quello che non esaurisce mai le possibilità di lettura ed è sempre diverso pur rimanendo uguale a se stesso.

Questo carattere, che la « Settima emana e insieme trattiene in sé, è strettamente legato alla storia dell’evoluzione artistica di Beethoven: scritta nel periodo che si pone al culmine dell’esaurimento della ricerca tesa alla conquista di un dominio soggettivo sulla forma classica, quello che molti hanno chiamato « seconda maniera » ed altri (Carli Ballola) « fase cruciale dell’individualismo eroico e del sublime assillo dell’urgenza contenutistica», essa individua infatti un momento di passaggio nella produzione beethoveniana, in cui i tratti piú marcati di quel clima acceso e doloroso si sono già depurati senza ancora approdare alla riflessione coscientemente lucida del mondo a più dimensioni rivelato dalle sue tarde opere. Di qui quell’equilibrio assoluto della costruzione, fondata su un ordine che via via si ricompone e, quasi tirando le somme, riconosce i propri valori, legandosi nel contempo ad atteggiamenti spirituali piú contenuti e sereni come di chi, lasciatesi alle spalle le tenebre, si immerga con gioia nella luce aurorale di un nuovo inizio, di un nuovo ciclo: quella gioia che pur non essendo ancora la « figlia dell’Elisio della « Nona », ne è almeno una pronipote, una generazione intermedia nel lungo cammino di iniziazione, come ben intese ed espresse Wagner: « una deliziosa esuberanza della gioia che ci trascina con bacchica onnipotenza attraverso tutti gli spazi della natura, attraverso tutti i fiumi e mari della vita, sempre giubilando e con la perfetta coscienza del terreno sul quale ci inoltriamo al ritmo audace di questa umana danza celeste. La Sinfonia è l’apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza, la piú beata attuazione del movimento del corpo quasi idealmente concretato nei suoni ».

La grandiosa visione di Wagner della « Settima » come « apoteosi della danza » serve a introdurre il discorso in un contesto piú specificamente musicale: anche sotto questo aspetto la « Settima » (come, in formato ridotto, l’« Ottava ») costituisce un punto di arrivo e di passaggio nello stesso tempo, che dal punto di vista formale e stilistico corona in modo del tutto particolare la conquista beethoveniana del dominio sinfonico. La continua espansione della ricerca sulle possibilità della sinfonia, quale si era concretata nella seconda maniera, approda infatti nella « Settima » a una riduzione dell’ambito formale che in sintesi significa un passaggio di livello nel modo di considerare i rapporti e le funzioni all’interno dell’itinerario formale della « grande forma » sinfonica. Questo processo risulta evidente sia sul piano del carattere e del divenire dei temi, sia su quello delle loro funzioni nei rapporti di contrasto e di opposizione nello svolgimento dei quattro tempi, sia nella tecnica degli sviluppi e delle elaborazioni, sia, infine, nella ricerca sulle proprietà strutturali dei fondamenti del linguaggio; e questi non sono che alcuni, anche se i principali. Su un piano piú generale tale riduzione, che si arricchisce già dei connotati precipui che porteranno agli esiti massimi delle opere dell’ultimo periodo, condiziona anche l’ulteriore grado di appropriazione del modello della forma-sonata, che qui dà vita ad una concezione formale unica ed assoluta proprio in quanto è il risultato di un processo che, disimpegnatosi via via dalle strette dell’individualismo eroico in lotta, è giunto ad analizzare e ad oggettivare i termini stessi del proprio sviluppo. Non è quindi certo un caso se, dopo la « Settima » e la « Ottava » (la cui fisionomia ribadisce questo ordine di idee), dovranno passare molti anni prima che Beethoven faccia ritorno alla forma sinfonica, ormai sotto la spinta di tutt’altre proporzioni e trasformazioni, con la « Nona ».

Nella <<Settima>> dunque, Beethoven realizza un decisivo passo verso un modo nuovo di concepire la musica e, in particolare, la costruzione sinfonica, fondandosi unicamente sul contrasto nel fluire del tempo degli elementi puramente musicali organizzati al loro stadio primario: essenzialmente, come successione e opposizione di ritmi. Il ritmo è il fondamento strutturale che sta alla base della Sinfonia e che, materializzandosi, ne riempie di contenuto formale lo schema astratto che Beethoven derivava dalla tradizione (forma-sonata per i due tempi estremi, rondò e scherzo, rispettivamente, per quegli intermedi); il rilievo assoluto che il ritmo vi assume spiega fra l’altro l’origine della interpretazione di Wagner, la sua immagine poetica e figurativa: che cosa è infatti la danza se non sublimazione del ritmo musicale? Ma piú importante è forse ribadire come in questa Sinfonia sia superato ogni concetto di contrasto tematico (perché non esistono temi come individualità distinte e autosufficienti in lotta fra loro), e perfino sia abbandonata la traccia convenzionale dell’itinerario tonale, anch’essa come travolta nell’incessante divenire ritmico: lo sfruttamento delle possibilità connesse alla articolazione ritmica secondo un principio che si potrebbe definire di « variazione integrale », da una parte, la loro organizzazione in funzioni e relazioni che esse stesse concorrono a creare, dall’altra, questi sono i concetti fondamentali che in-formano la struttura della Settima Sinfonia.

La grande rivoluzione operata da Beethoven nel seno della musica del suo tempo poggia in gran parte proprio su questo progressivo spostarsi dell’interesse dagli aspri conflitti drammatici fra blocchi autosufficienti alla ricerca di una identità più alta nella sintesi delle funzioni che si vengono a creare nella globalità dell’opera. Di questa tendenza in fieri la « Settima » offre una testimonianza importantissima, nelle proprietà delle singole parti come nella natura del materiale compositivo: l’ampia sezione di Introduzione (« Poco sostenuto ») con cui si apre la Sinfonia, presenta un suo sviluppo autonomo con il senso di una costruzione che si allarga, anche spazialmente, culminando, come risultato di un vero e proprio processo di derivazione ritmica, nel motivo di giga che costituirà il tema principale di tutto il primo tempo (« Vivace »). Nessuna alternativa tematica degna di tal nome entrerà in contrasto con esso, che domina tutto il percorso del primo tempo pur mutandosi in infinite combinazioni e generando come per naturale sviluppo gli elementi non soltanto ritmici che via via si immettono nel discorso, ricchissimo per sfumature soprattutto sotto il punto di vista agogico e dinamico. Soltanto verso la fine, nella Coda, il movimento ininterrotto si sospende e si arresta: su un lunghissimo mi tenuto dai legni e dai corni, i violini disegnano una semplice frase sulle note fondamentali dell’accordo di la maggiore, mentre viole e bassi ripetono in un ostinato senza tempo una stessa figurazione cromatica. L’improvviso arresto della Coda introduce nell’atmosfera ineffabile dell’«Allegretto », uno dei momenti piú problematici di tutta la produzione beethoveniana: analisi e interpretazioni di tutti i tipi hanno cercato nei modi piú diversi di avere ragione della sua disarmante semplicità, serrata in una dimensione di incommensurabile grandezza. Incorniciato nello stesso accordo di quarta e sesta di la minore dei fiati che lo apre e lo conchiude, l’« Allegretto » ha ancora nel ritmo l’elemento preponderante, un ritmo rispetto a prima come trasfigurato nelle movenze di una marcia senza inizio e senza fine (l’eco della Marcia funebre dell’« Eroica » risuona ormai molto lontano). La sua matrice è quella di un dattilo alternato a uno spondeo, che si ripete ostinatamente ed è sempre presente anche là dove il discorso acquista spessori e caratteri contrastanti (il controcanto di viole e violoncelli all’inizio, la distensione dell’intermezzo centrale in maggiore accompagnato dalle terzine, il fugato e la catena di imitazioni dopo la ripresa). In esso si fa luce ancora una volta il principio della costruzione per successive aggiunte e sovrapposizioni, specialmente per quanto riguarda il trattamento dei gruppi strumentali, ma in un senso del tutto opposto rispetto al primo tempo, di cui I’« Allegretto appare la visione rovesciata, come in uno specchio.

Al carattere proprio del primo tempo si fa invece ritorno con il « Presto », in forma di « Scherzo » con doppia ripresa, anche per la contrapposizione di movimento e sospensione (quest’ultima rappresentata dal « Trio » – «Assai meno presto ») che vi riappare quasi con le stesse funzioni, oltre che con evidenti reminiscenze nel contrasto fra i tipi ritmici. Nel « Trio » sono questa volta i violini a intonare un la tenuto senza fine ma insidiato dal cromatismo, mentre legni e corni ripetono piú volte uno stesso, breve motivo. È questa una vera e propria sospensione della corsa a perdifiato che nel « Presto », su di un ritmo trascinante, si fraziona nelle piú diverse vesti strumentali con effetti timbrici inesauribili, ora alleggerendosi ora rafforzandosi; tale sospensione si ripresenta due volte: la terza volta, è inaspettatamente troncata da una frettolosa cadenza con cui il tempo si conclude.

L’ultimo tempo, «Allegro con brio», conferma ulteriormente la portata e il significato quasi simbolico del ritmo all’interno di questa Sinfonia. Qui finalmente esso si chiarisce come elemento strutturale, in una funzione che potremmo chiamare bipolare: da una parte esso rappresenta il divenire incessante nel tempo e nello spazio di un movimento che non conosce soste (la figura del primo tema con la sua energia vitale inarrestabile), dall’altra appare come fattore di contrasto e di sospensione che ne interrompe la linea orizzontale in espansione (figura tematica legata al secondo tema e figure secondarie in sincope). La storia del quarto tempo, e della « Settima » in generale, è tutta nell’alternarsi di questi due modi diversi di considerare il ritmo e le sue funzioni nel decorso del tempo musicale. È logico che Beethoven intendesse giungere alla fine ad operare una sintesi (verso la fine i due ritmi emblematici si presentano sovrapposti e fusi « gioiosamente »), ma bisogna anche considerare come tale sintesi racchiuda in sé tratti formali ambigui e sottili sfasature, certo coscienti, che sembrano rimetterne in discussione gli stessi risultati: ancora una volta, il tempo si apre e si conchiude con la stessa figurazione, non piú un accordo come nell’« Allegretto », ma, appunto, il ritmo originario del dattilo. Cosa significa tutto ciò? Un nuovo ciclo sta per iniziarsi? Quale la sua destinazione? La risposta, in modo chiaro e inequivocabile, Beethoven l’avrebbe data nella riflessione del suo ultimo stile, sotto diverse angolazioni: una di queste, che si diparte appunto dalle prefigurazioni della « Settima », sarebbe un giorno giunta a scoprire, proprio nella riduzione oggettiva della ricerca all’essenza del linguaggio musicale, le impronte divine della vera gioia, che è « figlia dell’Elisio ».

Carlo Maria Giulini / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
40° Maggio Musicale Fiorentino

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