Johannes Brahms – Concerto n. 2 in si bemole maggiore op. 83
Nel periodo in cui videro la luce le quattro Sinfonie, apparse a coppie nel 1877-78 e nel 1884-86, e piú precisamente negli anni che separano le prime due dalle altre, Brahms compose alcune opere per orchestra destinate ad occupare, nella sua produzione, un posto di grande rilievo: le Ouvertures « Accademica » e « Tragica » (1880), il Concerto per violino e il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra. Non è certo un caso che queste due opere somme della letteratura concertistica siano state scritte a pochi anni di distanza (l’una è del 1878, l’altra del 1881), in un ambito di sostanziale unità di intenzioni nel pur ricco fervore di interessi della estrema fase creativa brahmsiana; e forse non è un caso che la presente stagione sinfonica del Teatro Comunale le abbia volute presentare entrambe nei programmi di due concerti contigui, quasi a voler ribadire l’importanza di tappe decisive che esse rappresentano per la conoscenza sia di Brahms sia della sua posizione nel contesto della musica del suo secolo.
Se sul versante del Lied si trova la fonte che avrebbe fatto scaturire la grandezza matura di Brahms nel campo vocale (corale) e anche, almeno in parte, strumentale da camera, è attraverso il pianoforte che egli giunse alla composizione strumentale di grandi dimensioni, secondo un processo che può essere ben esemplificato dal duro e lungo travaglio necessario per portare a compimento il (Primo) Concerto in re minore per pianoforte e orchestra (1854-58), dapprima abbozzato come sinfonia e poi come sonata per due pianoforti. Attraverso il pianoforte, con il mutarsi di quella familiarità con lo strumento cosí spontanea e naturalmente posseduta fin dalla giovinezza in conquista razionale e solidamente radicata nel passato, Brahms aveva imparato di volta in volta a risolvere i problemi pratici della tecnica strumentale e quelli di gran lunga piú complessi della forma di ampio respiro, fino al raggiungimento della completa padronanza di tutti i mezzi espressivi, al di là degli ostacoli e delle preoccupazioni, cosí sentite per tutta la vita, di ordine tecnico: il mondo della sinfonia, affrontato soltanto nella piena maturità, si identificava appunto con il traguardo della consapevolezza di essere non piú alle spalle, ma accanto ai grandi classici del sinfonismo tedesco.
Due opere cosí prossime fra loro come il Concerto per violino e il Secondo Concerto per pianoforte rendono perfettamente conto del significato, per Brahms, dell’accesso al mondo delle grandi forme. Un significato che può essere riassunto emblematicamente in un solo nome: Beethoven. Beethoven, infatti, era stato su questo terreno la sua guida, non soltanto dal punto di vista dell’apparato tecnico e formale: come osserva Hans Gal, « il suo stesso modo di concepire la musica strumentale è beethoveniano: si pensi alla distinzione fondamentale fra lo spazio intimo, limitato, del materiale della musica da camera e i fini epici, monumentali della sinfonia». Nel Concerto per violino aveva già operato, certo accanto al fine affettivo di dedicare all’amico carissimo Joseph Joachim una composizione adeguata al suo virtuosismo di interprete, la volontà di cimentarsi in un lavoro che potesse porsi con autorità sulla scia del modello beethoveniano (una volontà denunciata non soltanto dalla scelta della stessa tonalità — re maggiore — in cui Beethoven aveva scritto il suo Concerto per violino, ma anche da ben piú significativi rapporti strutturali); ma è con il Concerto per pianoforte che l’anelito a toccare i vertici delle altezze a cui era giunto Beethoven si esalta nel’accettarne la lezione, rivivendola dall’interno delle ricchezze del proprio individuale mondo poetico e sentimentale. Si esalta e, dal punto di vista formale, si esaurisce in un’opera che lega alla orchestra le possibilità infinite dello strumento solista per eccellenza, in una dimensione destinata programmaticamente ad essere monumentale e in un certo senso definitiva. Proprio questa aspirazione a raggiungere qualcosa di definitivo una volta per tutte, che del resto è caratteristica dell’ultimo Brahms e non soltanto come reazione alle polemiche pro e contro Wagner che tanto lo avevano angustiato, trova nelle architetture straordinariamente ampie del Concerto forse piú lungo di tutta la storia della musica una delle sue massime espressioni: quasi la volontà di riconoscersi, nel dopo Beethoven, come l’unico erede di un immenso patrimonio non soltanto musicale, e il suggello, da parte di Brahms, della presa di possesso del proprio posto nella storia.
Scritto, come si è detto, nel 1881 e dedicato al « caro amico e maestro Eduard Marxsen », l’istruttore solerte e austero degli studi giovanili ad Amburgo, il Concerto appare fin da un primo sguardo più vicino per la sua grandiosità a una Sinfonia che al modello del Concerto classico-romantico: contrariamente alla norma, infatti, comprende quattro tempi invece di tre, e il secondo tempo adombra le funzioni dello Scherzo nella sinfonia; e se con ragione si è voluto paragonarlo a una « sinfonia concertante » vera e propria, pure occorre rilevare che il peso specifico della presenza del pianoforte, come portatore di autonome e compiute pro-poste espressive, costruttive o timbriche, insieme con l’alto virtuosismo e la varietà della scrittura pianistica, è tale da emergere nettamente anche su un impianto sinfonico cosí complesso e possente; mentre d’altra parte l’architettura formale dell’opera, soprattutto nel microcosmo dei singoli tempi, sembra proporre semmai una ricerca nella direzione della libertà sia stilistica, sia formale che Brahms a quel tempo sentiva innanzitutto come necessità interiore, e che avrebbe trovato i suoi massimi esiti nel turbine vorticoso dell’ultimo tempo della Quarta Sinfonia.
Il primo tempo, « Allegro non troppo », dimostra a sufficienza quanto Brahms sia giunto ad ampliare nello schema classico le categorie della forma sonata, investendole totalmente dei contenuti piú essenziali della propria poetica in instabile equilibrio fra aspirazioni classiche e incontenibili urgenze romantiche. La sua concezione formale si realizza infatti in spazi e tempi dilatati, in cui alla tecnica dello sviluppo di ascendenza beethoveniana si sostituisce quella di una continua elaborazione, guidata da un sapiente uso dell’arte della variazione. Le arditezze linguistiche e formali sono direttamente proporzionali alle atmosfere e alle sfumature espressive: il clima incandescente dell’«Allegro appassionato», che deriva dal veemente movimento della prima idea tematica, si intensifica progressivamente fino a dilatarsi nella sezione cantabile centrale – «largamente» -, risultando, proprio per questa sospensione, ancora piú carico di tensione quando si ripresenta nella ripresa.
L’«Andante», di forma tripartita, è introdotto da un a solo del violoncello, che domina tutta la prima parte, mentre quella centrale, condotta in prima persona dal pianoforte, sembra perdersi in orizzonti sconfinati: Brahms ottiene questo senso di allontanamento attraverso una ricchezza straordinaria dal punto di vista armonico, mentre la scrittura pianistica appare qui davvero come la piú diretta erede di quella beethoveniana. Infine, l’«Allegretto grazioso» non si discosta dal tipico finale di sinfonia, con reiterati dialoghi fra pianoforte e orchestra e passaggi di grande virtuosismo del pianoforte su un vivace ritmo di danza che ricorda le movenze piú tipiche del Brahms «ungherese».
Pier Luigi Urbini / Stephen Bishop-Kovacevich
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione sinfonica di primavera 1977