Robert Schumann – Concerto in la minore op. 54

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Schumann e la “”Grande Forma””

Le composizioni per orchestra e in particolare sinfoniche di Schumann hanno avuto la sfortuna di imbattersi in una di quelle astratte petizioni di principio della critica assai difficili da sradicarsi di dosso: infatti, a partire dalle monografie ottocentesche soprattutto francesi, fino alla decisiva tappa costituita dal libro del Calvocoressi (Parigi, 1912), si è andato ripetendo fino alla noia quello che ai giorni nostri è divenuto un vero e proprio luogo comune: e cioè la presunta incapacità del compositore tedesco a cimentarsi con le grandi forme, di cui la sinfonia è appunto una delle massime espressioni e la altrettanto generalizzata cattiva strumentazione che affliggerebbe la scrittura orchestrale schumanniana, rendendola priva di flessibilità, uniforme, statica, difettosa nelle sonorità e via dicendo. Quel che piú stupisce è il fatto che nessuno di coloro che si sono occupati di tali questioni abbia mai portato a conforto di simili tesi lo studio e l’analisi del testo, delle singole partiture cioè, per cercare almeno di spiegare in che cosa consistano questa peculiarità e non ortodossia rispetto ai canoni tradizionali, o se non altro la novità di una determinata logica formale e linguistica, del « suono » dell’orchestra di Schumann.

La prima parte di questa problematica, per quanto cioè si riferisce al rapporto fra Schumann e la «grande forma» della sinfonia, può trovare una risposta piú facilmente individualizzabile: è indubbio che egli senti in modo particolarmente drammatico il suo destino di musicista trovatosi a dover comporre dopo Beethoven, dopo colui che aveva espresso sotto tutti i punti di vista quanto di piú alto e di piú perfetto era possibile esprimere: tutta la prima parte della vita di Schumann, con la preponderanza dell’attività critica e l’interesse principale per la libera composizione pianistica, lo potrebbe confermare. L’impatto con le cosiddette «grandi forme», di cui era un modello ormai svuotato di realtà e di vita la «forma sonata», coincide per Schumann con la maturità, nel segno di una libertà creativa che intende rifarsi, seppure solo idealmente, all’esempio di Beethoven.

Se a Schubert era riuscito di stabilire un fertile contatto con il mondo dei classici riutilizzandone le forme tradizionali in un contesto di sconvolgente novità che pure esternamente appariva come privo di fratture troppo inconciliabili, già Schumann non poté piú, dal punto di vista della concezione formale, sottrarsi agli obblighi critici oltre che artistici che gli imponevano le audaci conquiste introdotte da Beethoven nella grande forma sinfonica; né d’altra parte la sua indole piú profonda era tale da consentirgli di approdare a quella misura, quella serena raffinatezza e compostezza, quella olimpica luminosità che erano caratteristiche tanto ammirate nell’amico e collega Mendelssohn. Per questo Schumann, rispetto a questi grandi compositori, ci appare come annunciatore di una nuova epoca, che si fa luce a poco a poco in un’alba tanto carica di eventi da risultare una svolta decisiva per la storia del suo secolo e anche del nostro: tutto ciò che per comodo si suole riunire nel termine Romanticismo, liberato, se possibile, da tutte le retoriche incrostazioni e riabilitato a una nuova, pura capacità di esprimere qualcosa di concreto, fa in Schumann la sua prima apparizione totale e coerente fino in fondo.

Arcanamente sospeso in dimensioni di spazio e di tempo musicali ancora sconosciuti, Schumann è il primo compositore dell’Ottocento a perseguire, con la coscienza di compiere un atto della volontà senza garanzie di riuscita, l’ideale della intuizione unitaria della grande forma musicale. La sua logica formale si rivela quindi sotto un duplice aspetto: da una parte disorganica e non adatta a riempire di contenuti nuovi gli schemi di una tradizione a cui pure è strettamente legata, dall’altra apertamente sperimentale, percorsa da aneliti e slanci tipicamente romantici che ne scuotono ad ogni passo le ancora fragili fondamenta. In realtà quello stesso equivoco riguardante la strumentazione diviene cosí un tratto assolutamente pertinente; e cosí pure certi altri luoghi comuni, come ad esempio il monotematismo o la tecnica della ripetizione variata, sono invece strumenti di strutturazione formale, che tentano di risolvere il problema di una superiore unitarietà garantendosi, nel tema, un saldo punto di appoggio.

D’altra parte è proprio nel tema, l’«anima» della musica classico -romantica, che si fa evidente la divergenza da Beethoven a cui Schumann approda nelle sue Sinfonie: esso non è piú, come in Beethoven, sviluppo di un’idea che si realizza soggettivamente nel processo formale considerato come un tutto, ma, invece, illuminazione sempre diversa di una medesima idea principale, che si ripete quasi ossessivamente senza rimanere mai uguale a se stessa. In questa divergenza sta il senso di un cammino storico in divenire, alla ricerca di una nuova individualità che arrivi a porsi anche come una nuova identità; l’esperienza di Schumann, in sé cosí irripetibile e conchiusa nel suo straordinario fascino, è a questo proposito sotto tutti i punti di vista decisiva ed apre senza dubbio alcuno la strada verso la musica del secondo Ottocento, sia come atteggiamento spirituale che come concreto punto di riferimento specificamente musicale.

Solo in questa ottica piú ampia e proiettata verso il futuro si può dunque arrivare a capire la portata delle «imperfezioni» di Schumann e ad assaporarne il gusto tutto particolare, con un’apertura verso due direzioni principali: da un lato Mahler, che si ricollegherà alla dissoluzione della forma sinfonica classica ottenuta da Schubert con la tendenza all’ampliamento progressivo del tema nei suoi ritorni ciclici; dall’altro Brahms, che, perfezionando la poetica schumanniana della variazione, ne trarrà grande partito proprio nella strumentazione, nel «suono» cioè di un’orchestra che è la diretta, e sia pur migliore, erede di quella intuita da Schumann.

Concerto in la min. op. 54 per pianoforte e orchestra

– Allegro affettuoso – Intermezzo (Andantino grazioso) -Allegro vivace

 

« Quanto al concerto, ti ho già detto che si tratta di un che di mezzo fra sinfonia, concerto e grande sonata. Mi rendo conto che non posso scrivere un concerto da ‘virtuoso’ e che devo mirare a qualcos’altro »: questo brano, tolto da una lettera del 1839 a Clara Wieck, testimonia quali fossero le intenzioni del compositore nei confronti di un’opera e di una idea (un «grande» concerto per pianoforte e orchestra) che già da tempo lo occupavano. Pur giunto nella sua piena maturità, Schumann esitò assai prima di dare corso al suo progetto, tanto che per scrivere quello che sarebbe diventato uno dei piú celebri concerti di tutta la storia della musica, gli occorsero ben cinque anni: dal 1841, anno a cui risale il primo movimento, al 1845, per il secondo e il terzo.

Il «Concerto in la minore op. 54» è una delle opere piú complesse di Schumann e, al di là della sua notorietà e del suo indiscutibile fascino, rappresenta il tentativo piú ardito di fondere in una singola composizione tutte le suggestioni e le ansie espressive che lo assillavano nei confronti di una creazione di vaste proporzioni. Conseguentemente, certi difetti di misura sono da attribuire non tanto alla presunta incapacità di Schumann nel padroneggiare la «grande forma» della tradizione classica fino a Beethoven, quanto alla sua volontà di superarla e trascenderla in una inquietudine che non conosce limiti ben definiti. La caratteristica di «unicum» che il «Concerto in la minore» riveste nella letteratura del suo genere deriva in parte proprio da questo accavallarsi di intenzioni che ne sovraccarica la struttura e ne esaspera le tensioni che risultano non sempre formalmente risolte.

La scrittura pianistica, per esempio, che in un virtuosismo di ardua definizione riassume tutte le possibilità tecniche ed espressive già

«inventate» e utilizzate da Schumann, tende ad accentrare su di sé il peso del dialogo con l’orchestra, anche se in molti passaggi il rapporto si distende in rari equilibri nello spirito di una reciproca, feconda libertà. D’altra parte, tutto il «Concerto» è dominato da un calore che ci rimanda allo stile dello Schumann piú estroverso, in un impeto appassionato che si dispone, in sbalzi vertiginosi di umori, su una vasta gamma di gradazioni e che non è alieno da intimismi di profonda poesia.

Il primo movimento, «Allegro affettuoso», si apre con una potente introduzione del pianoforte solo, a cui fa seguito la esposizione del tema principale che, in un giuoco di mutamenti e di scambi fra solista e orchestra, circolerà per tutto il movimento. Questo monotematismo è reso ancora piú evidente dal fatto che Schumann, contraddicendo totalmente l’itinerario tonale prescritto dal modello della «forma sonata», presenta come secondo tema lo stesso primo tema in maggiore (do maggiore) ; e questa non è certo la sola divergenza dal modello, che anzi risulta formalmente piegato a favore di piú libere intersecazioni delle successive sezioni. Nel cuore dello sviluppo tematico si innesta il dialogo fra pianoforte e orchestra, particolarmente con flauto, oboe e clarinetto; generalmente il pianoforte ne accompagna l’arco melodico con arpeggi, secondo una tecnica prediletta qui da Schumann e che non manca di conferire all’insieme una cangiante mutevolezza di armonie e di colori.

Il secondo movimento, <<Intermezzo>> (Andantino grazioso), è avvolto in una atmosfera di delicata intimità in cui il pianoforte si sprofonda dialogando sommessamente con l’orchestra. Quando dai violoncelli si innalza un canto spiegato, che a poco a poco si propaga a tutta l’orchestra, il pianoforte da solo sembra sottrarsi a questa nuova idea tematica, quasi proseguendo a parte un suo itinerario segreto. Ed è proprio il pianoforte che conduce, attraverso un passaggio di straordinaria suggestione armonica e timbrica non immune dal ricordo di analoghi trapassi beethoveniani, all’ultimo tempo, «Allegro vivace», caratterizzato da un tema che deriva chiaramente dal materiale dei precedenti movimenti. In uno sviluppo condotto tutto ad alta temperatura, il Finale si slancia in audaci figure affidate al pianoforte, concludendosi, con una poderosa Coda, in un tripudio di sonorità.

Cal  Stewart Kellogg / Jean-Bernard Pommier

39° Maggio Musicale Fiorentino

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