La prima parte di questa problematica, per quanto cioè si riferisce al rapporto fra Schumann e la «grande forma» della sinfonia, può trovare una risposta piú facilmente individualizzabile: è indubbio che egli senti in modo particolarmente drammatico il suo destino di musicista trovatosi a dover comporre dopo Beethoven, dopo colui che aveva espresso sotto tutti i punti di vista quanto di piú alto e di piú perfetto era possibile esprimere: tutta la prima parte della vita di Schumann, con la preponderanza dell’attività critica e l’interesse principale per la libera composizione pianistica, lo potrebbe confermare. L’impatto con le cosiddette «grandi forme», di cui era un modello ormai svuotato di realtà e di vita la «forma sonata», coincide per Schumann con la maturità, nel segno di una libertà creativa che intende rifarsi, seppure solo idealmente, all’esempio di Beethoven.
Se a Schubert era riuscito di stabilire un fertile contatto con il mondo dei classici riutilizzandone le forme tradizionali in un contesto di sconvolgente novità che pure esternamente appariva come privo di fratture troppo inconciliabili, già Schumann non poté piú, dal punto di vista della concezione formale, sottrarsi agli obblighi critici oltre che artistici che gli imponevano le audaci conquiste introdotte da Beethoven nella grande forma sinfonica; né d’altra parte la sua indole piú profonda era tale da consentirgli di approdare a quella misura, quella serena raffinatezza e compostezza, quella olimpica luminosità che erano caratteristiche tanto ammirate nell’amico e collega Mendelssohn. Per questo Schumann, rispetto a questi grandi compositori, ci appare come annunciatore di una nuova epoca, che si fa luce a poco a poco in un’alba tanto carica di eventi da risultare una svolta decisiva per la storia del suo secolo e anche del nostro: tutto ciò che per comodo si suole riunire nel termine Romanticismo, liberato, se possibile, da tutte le retoriche incrostazioni e riabilitato a una nuova, pura capacità di esprimere qualcosa di concreto, fa in Schumann la sua prima apparizione totale e coerente fino in fondo.
Arcanamente sospeso in dimensioni di spazio e di tempo musicali ancora sconosciuti, Schumann è il primo compositore dell’Ottocento a perseguire, con la coscienza di compiere un atto della volontà senza garanzie di riuscita, l’ideale della intuizione unitaria della grande forma musicale. La sua logica formale si rivela quindi sotto un duplice aspetto: da una parte disorganica e non adatta a riempire di contenuti nuovi gli schemi di una tradizione a cui pure è strettamente legata, dall’altra apertamente sperimentale, percorsa da aneliti e slanci tipicamente romantici che ne scuotono ad ogni passo le ancora fragili fondamenta. In realtà quello stesso equivoco riguardante la strumentazione diviene cosí un tratto assolutamente pertinente; e cosí pure certi altri luoghi comuni, come ad esempio il monotematismo o la tecnica della ripetizione variata, sono invece strumenti di strutturazione formale, che tentano di risolvere il problema di una superiore unitarietà garantendosi, nel tema, un saldo punto di appoggio.
D’altra parte è proprio nel tema, l’«anima» della musica classico -romantica, che si fa evidente la divergenza da Beethoven a cui Schumann approda nelle sue Sinfonie: esso non è piú, come in Beethoven, sviluppo di un’idea che si realizza soggettivamente nel processo formale considerato come un tutto, ma, invece, illuminazione sempre diversa di una medesima idea principale, che si ripete quasi ossessivamente senza rimanere mai uguale a se stessa. In questa divergenza sta il senso di un cammino storico in divenire, alla ricerca di una nuova individualità che arrivi a porsi anche come una nuova identità; l’esperienza di Schumann, in sé cosí irripetibile e conchiusa nel suo straordinario fascino, è a questo proposito sotto tutti i punti di vista decisiva ed apre senza dubbio alcuno la strada verso la musica del secondo Ottocento, sia come atteggiamento spirituale che come concreto punto di riferimento specificamente musicale.
Solo in questa ottica piú ampia e proiettata verso il futuro si può dunque arrivare a capire la portata delle «imperfezioni» di Schumann e ad assaporarne il gusto tutto particolare, con un’apertura verso due direzioni principali: da un lato Mahler, che si ricollegherà alla dissoluzione della forma sinfonica classica ottenuta da Schubert con la tendenza all’ampliamento progressivo del tema nei suoi ritorni ciclici; dall’altro Brahms, che, perfezionando la poetica schumanniana della variazione, ne trarrà grande partito proprio nella strumentazione, nel «suono» cioè di un’orchestra che è la diretta, e sia pur migliore, erede di quella intuita da Schumann.
Ouverture in do min. per « La Sposa di Messina », op. 100
Fra le composizioni « minori » per sola orchestra la «Ouverture in do minore» è quella forse meno conosciuta e meno frequentemente eseguita: composta nel 1850-51, nel periodo trascorso da Schumann a Düsseldorf, essa doveva figurare come introduzione al dramma di Schiller (1759-1805) « La Sposa di Messina » (Die Braut von Messina), un testo che nella produzione schilleriana occupa un posto determinante sia dal punto di vista drammaturgico che da quello poetico. Per esso, composto a Weimar e rappresentato per la prima volta nel 1803, Schumann aveva l’intenzione di scrivere le intere musiche di scena, sull’esempio di quelle per il « Manfred » di Byron, a cui stava in quegli anni ancora attendendo. Tale intenzione, per altro non sicuramente testimoniata, non giunse ad effetto, e la « Ouverture » venne pubblicata da sola a Bonn in quello stesso 1851.
La «Ouverture in do minore» non si discosta dal modello tipico delle «ouvertures» schumanniane se non per una minore plasticità formale e originalità melodica che la delimita rispetto a quelle ben altrimenti emergenti della «Genoveva» e del «Manfred». L’ammirazione che Schumann nutriva per le «ouvertures» di Mendelssohn, veri capolavori di finezza in questo genere, ci è largamente nota anche sulla scorta della sua attività di critico militante, e ad esse è necessario riferirsi per comprenderne certi lati compositivi. Pure, dal punto di vista formale, esse rimandano essenzialmente a Beethoven, soprattutto a quello delle «Leonore», di cui condividono la stessa concezione volta a farne più una sintesi e un riassunto che una semplice introduzione al dramma. Anche qui, infatti, la sostanza musicale si presenta per cosí dire concentrata, quasi a voler distillare in una sorta di totalità autosufficiente tutte le diverse idee contrastanti che si susseguono pur mantenendo ognuna una sua autonomia di atmosfera e incisività di azione.
Cal Stewart Kellogg / Jean-Bernard Pommier
39° Maggio Musicale Fiorentino