Friedrich Rückert (1788-1866), poeta tedesco fra i piú emblematici interpreti del romanticismo, compose fra il 1833 e il 1834 una serie di quattrocentoquarantotto poesie che traevano tutte origine da un luttuoso avvenimento: la tragica morte dei suoi due bambini. Gustav Mahler, da sempre e ripetutamente attratto dal fascino ambiguo della lirica di Rückert, trasse da questo ciclo sei poesie, fondendone poi due in una sola (il terzo Lied include un’intera strofa di una poesia in un’altra) e mettendole in musica nel corso di un periodo di tempo relativamente lungo (dall’estate del 1901 al 1904). Alla storia esterna della nascita della raccolta dei « Kindertotenlieder (Canti dei bambini morti), per voce e orchestra, si suole aggiungere un altro impietoso dato: la morte, avvenuta pochi anni dopo che Mahler aveva composto la sua opera, della bambina dello stesso compositore, in circostanze altrettanto tragiche di quelle che aveva dovuto vivere, molto tempo prima, Rückert: quasi a ribadire la inestricabilità del destino presagito e cantato da Mahler. Pubblicati con questo titolo nel 1905 come ciclo autonomo e con l’assoluta prescrizione di essere eseguiti come un tutto indivisibile, i « Kindertotenlieder » furono composti in un lasso di tempo che comprende la creazione della Quinta e della Sesta sinfonia e la stesura degli abbozzi della Settima, oltre alla parallela messa in musica di altri Lieder su testi dello stesso Rückert: e questo fatto conferma la nota convergenza nella produzione di Mahler dei suoi interessi per la forma sinfonica e quella liederistica, una convergenza che si realizza assiduamente anche sul piano specificamente musicale, con ripetizioni e trasposizioni non solo stilistiche dall’una forma all’altra. La maggiore differenziazione è in questo caso costituita dall’organico orchestrale, che qui si presenta notevolmente ridotto rispetto a quello tipico dell’orchestra sinfonica mahleriana, quasi a voler praticamente evidenziare la dimensione lirica e cameristica, di una evocazione tutta interiorizzata e raccolta su se stessa, che caratterizza la fisionomia ed accompagna il canto struggente dei « Kindertotenlieder ». La particolare forma in cui i « Kindertotenlieder» vengono in questa occasione eseguiti, come musica collegata alla danza a dar vita a un balletto, richiede alcune precisazioni di non facile esposizione, e non soltanto per la eccezionalità di una circostanza che ha ben pochi anche se illustri precedenti (ad esempio, i « Lieder eines fahrenden Gesellen » con la coreografia di Béjart), ma anche per le intenzioni del suo autore, il giovane coreografo ora ospite di Firenze, Geoffrey Cauley. Cauley si dichiara cosciente del fatto che fare un balletto sulla musica di Mahler costituisce un’operazione assai delicata, e probabilmente non condivisa dalla maggior parte degli appassionati di musica, musicisti e non. Pure la sua realizzazione riveste per Cauley un significato particolarmente importante che non intende tuttavia sacrificare o peggio ancora snaturare l’integrità (in tutti i sensi) della musica di Mahler. In altre parole, la sua coreografia dei «Kindertotenlieder » intende essere innanzitutto al servizio della musica, e non viceversa, per dare vita a un pezzo di teatro in una sorta di coinvolgimento globale fra il testo di Rückert, la musica di Mahler e una realizzazione in termini coreografici.
Alla luce di questo rispetto per la musica che si rifiuta programmaticamente al cattivo gusto, Cauley ha evitato qualsiasi tipo di sovrapposizione dal di fuori o impianto narrativo che dir si voglia (il suo balletto dunque non ha una storia da raccontare o da spiegare), cercando invece di dare corpo a una serie di suggestioni, di atmosfere, di spazi e di tempi derivati dal rapporto preferenziale fra parola, evocazione sonora e danza. La coscienza della pienezza di umanità della musica ha portato Cauley a riconoscere anche nell’assoluta negatività della morte un ideale di speranza (il nero non è dunque il colore base del balletto che anzi è avvolto nella luce), interpretando semmai la figura della morte che domina tutto il balletto come ineluttabilità del destino. Per questo, senza determinare un ambiente preciso (la scena ad anfiteatro di Raffaele Del Savio), il balletto non contempla solisti o protagonisti, ma impegna tutto il corpo di ballo ad esprimersi in uno stile che, sulla base della tradizione classica, è continuamente aperto alle suggestioni piú diverse.
Bruno Rigacci, Orchestra e Corpo di Ballo del Maggio Musicale Fiorentino
Ente Autonomo del Teatro Comunale di Firenze, 1975