Serata burrascosa, alla Scala, per il debutto del nuovo allestimento di “”Un ballo in maschera””. E pubblico protagonista in negativo di un killeraggio che neppure quello dei congiurati in scena Samuel e Tom. Cattivi presagi già prima dell’inizio, con voci di una laringite di Maria Guleghina (ufficialmente taciuta) e di una indisposizione di Ambrogio Maestri (invece comunicata dall’altoparlante): ques’ultimo, preferito nel ruolo di Renato a Bruno Caproni, sarebbe stato poi sostituito dal collega nel terzo atto. Freddezza alla fine del primo quadro, con nubi minacciose addensate su Salvatore Licitra (Riccardo) al termine della sua prima aria. Rimostranze nel secondo per un acuto spezzato e un cantabile faticoso della Guleghina: imperfetti, ma non tali da giustificare le urla belluine (“”Tornatene in Russia””, “”Vergogna””). E poi bagarre piena, nel secondo atto, alla fine del duetto d’amore più appassionato e disperato di Verdi: già accompagnato nel suo corso da sibili, ronzii e commenti ad alta voce del loggione. Il resto è facilmente immaginabile: nervosismo in sala, spiccata reazione d’orgoglio in orchestra e sul palcoscenico, spaccatura tra applausi e fischi alle uscite finali. Nell’election-day la peggiore Italia delle tre I (inciviltà, ignoranza, isteria) sembrava essersi data convegno alla Scala per uno spettacolo triste e vile. Non solo nei Paesi tedeschi, dove il teatro viene chiamato familiarmente “”Haus”” (casa), si va all’opera con rispetto e amore. Se i cantanti sono in difficoltà, soprattutto se indisposti fisicamente, li si aiuta, senza terrorizzarli. E si aspetta la fine per giudicare. Alle prime della Scala, con titoli popolari, è invalsa ormai un’altra abitudine: si impedisce proditoriamente agli artisti di mostrare il lavoro che hanno fatto. C’è in questo atteggiamento una perversione sottile, un sadismo volgare: la sensazione che a qualcuno non dispiaccia creare un clima di confusione. Si tratta di un problema reale, che la Scala deve cercare di affrontare con lucidità e profondità. Un pubblico incline alla freddezza, all’ostilità preventiva, come quello di ieri sera, segna un punto di non ritorno. Perché tutto questo? Il Verdi di Muti alla Scala (e dunque anche questo “”Ballo in maschera””) è il risultato di un affinamento interpretartivo e di una riflessione di altissimo profilo artistico e culturale: è oggi nel suo complesso (serietà, affidabilità, equilibrio, consapevolezza stilistica) il Verdi di riferimento in assoluto. Che ciò possa dispiacere, è insieme comprensibile e stupido. Che si possa intendere Verdi anche in altro modo (senza rinunciare a tale rifinitura orchestrale), è perfino legittimo: a patto però di non contrapporgli un secolo di arbitrii e di pessime abitudini, che peraltro Muti non è il solo a combattere (ma a lui, chissà perché, non lo si riconosce). Capitolo cantanti. Muti sta cercando con grande senso di responsabilità di formare una generazione di intepreti per i quali il canto sia mezzo di realizzazione compiuta del testo, non fine di esibizioni a sé stanti: Licitra, Maestri, Caproni, Pentcheva (Ulrica), Sala (Oscar) e gli altri ne erano qui un esempio, non ancora perfetto, ma chiarissimo. Essi fanno parte di un progetto che dovrebbe essere sostenuto con forza, come un investimento per il futuro del teatro. Si vorrebbe semmai che alla Scala questo progetto, nel quale la centralità della figura del direttore d’orchestra è presupposto fondamentale, venisse esteso sempre di più anche alle scelte registiche. Nel nostro caso Liliana Cavani, pur giovandosi di scene fascinose e di costumi bellissimi (Ferretti e Pescucci al loro meglio), non mostra altrettanta decisione nello scegliere una strada (l’ambientazione cinematografica alla “”Via col vento””) e nel perseguirla con coerenza osando un’interpretazione. Ma, paradossalmente, questo non produce reazioni nel pubblico, mentre si attacca chi ha il coraggio di rischiare e di mettersi in gioco.
Il Giornale della Musica, a. XVII, n. 171, maggio 2001