Engelbert Humperdinck, il wagneriano incantato

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Quella di Engelbert Humperdinck, nato centocinquant’anni fa,  è una storia attraente da raccontare, istruttiva come il suo fine volto di ragazzo con folti baffoni spioventi da vecchio. Contava 36 anni, Humperdinck, quando iniziò a comporre Hänsel und Gretel, l’opera che gli avrebbe dato notorietà, successo e soldi, e aveva già una vita intensa e avventurosa alle spalle. Dotatissimo nella musica, ma fragile nella salute (un caso grave di etisia, con remissioni brevi e lunghe ricadute), era un tipico esempio di personalità sdoppiata, natura prodigiosamente assimilatrice e concretamente poco produttiva. Allievo per l’armonia di Ferdinand Hiller al Conservatorio di Colonia, studiò almeno una mezza dozzina di strumenti senza specializzarsi in nessuno, acquisendo però una certa pratica come arrangiatore di musica leggera e suonatore nei locali notturni. Nel 1873, a diciannove anni, assistette, di nascosto, perché i suoi insegnanti erano tutti furibondi antiwagneriani, alle rappresentazioni del Lohengrin, del Tannhäuser, della Walküre e dei Meistersinger dirette a Colonia da Wagner in persona. Fu una folgorazione, che venne però spenta con la forza dai Beckmesser che lo istruivano al rispetto delle regole, lui che avrebbe voluto essere uno Stolzing. Nel 1876 troviamo Humperdinck al Conservatorio di Monaco, grazie a una borsa di studio (in vita sua ne collezionerà parecchie, quasi a voler perpetuare lo status dell’eterno studente), allievo dell’arcigno Joseph Rheinberger e intento a ridiplomarsi, oltre che in composizione, in quasi tutte le materie musicali. La sua mania era conoscere personalmente quanti più artisti poteva (tra i musicisti incontrerà il vecchio Lachner, Verdi, Liszt e il suo allievo italiano Sgambati, oltre naturalmente all’uomo del fato), e sottoporre loro le proprie prove scolastiche, tutte dichiaratamente d’autore.
Nel 1878 la svolta, la chiamata del destino: Humperdinck aderisce a una confraternita di discepoli wagneriani (i “”Cavalieri del Graal””) e con questi celebra devotamente le prime monacensi del Ring. La passione wagneriana a lungo covata finalmente poté rompere gli argini per trasformarsi in fede attiva: grazie a una borsa di studio per un viaggio d’istruzione in Italia, Humperdinck incontrò a Napoli il Maestro (la data fatidica è il 2 marzo 1880) e si mise seduta stante al suo servizio per la realizzazione del Parsifal, collaborando ore e ore al pianoforte alle prove di composizione della partitura. Nella primavera del 1881 lo ritroveremo ovviamente a Bayreuth, intento a trascrivere in pulito la bella copia definitiva del Parsifal e a dirigere nel contempo i concerti della locale Lega dei Dilettanti, a lui confacente. A lui sarà affidata anche la preparazione dei cori sempre del Parsifal e quella delle cantanti nella scena delle Fanciulle-fiore (scherzosamente da lui ribattezzate “”le allegre comari di Klingsor””: il che dimostra che aveva anche senso dell’umorismo). Finita l’avventura del Parsifal (che come è noto andò in scena a Bayreuth il 26 luglio 1882), Humperdinck si recò a Parigi, grazie anche al sostegno economico mirato del Maestro, a cui interessava avere un uomo fidato nella capitale internazionale della musica. Qui fece la bella vita, accolto e vezzeggiato dai cenacoli wagneriani sempre più fiorenti, e incontrò nuovi artisti, tutti ovviamente illustri: Saint-Saëns, Chabrier, Dukas, la famosa cantante Pauline Viardot, lo scrittore Ivan Turgenev (con il quale passò notti intere a bere e a cantare canzoni russe), il dotto d’Indy, il fervente wagneriano Charles Lamoureux e l’affascinante, corteggiatissima Judith Gautier. La notizia ferale della morte del dio-Wagner (13 febbraio 1883) lo colse proprio a Parigi: fece solenne giuramento di smettere per sempre di comporre.
Non fu così, naturalmente. Anzi, se prima aveva composto ben poco, ora, come liberato dal peso di quel gigante, Humperdinck cominciò a poco a poco a pensare un po’ più anche a se stesso. Non gli pesava essere malvisto in Germania in quanto giudicato un fanatico wagneriano senza più protezione, ma fu costretto suo malgrado (o forse invece di buon grado, spinto dall’irrequietezza e dalla curiosità) a emigrare prima in Spagna e poi in Francia, ospite di riguardo nel leggendario castello di Chenonceaux sulla Loira: qui per sdebitarsi mise in scena – dietro lauto compenso – una versione per archi e due pianoforti del Parsifal a uso e consumo degli illustri invitati. Non sarà il suo solo exploit al riguardo: sua sarà infatti l’organizzazione della celebre rappresentazione esclusiva del Parsifal per un unico spettatore, re Ludwig di Baviera, che vi assistette da solo nascosto nel buio di un palco segreto. Nel frattempo il nostro era tornato nostalgicamente a Bayreuth, dove le cose non sembravano più le stesse dopo la morte del Maestro: più che alla vedova Cosima, lo legava l’amicizia con il piccolo Siegfried, di cui diventerà insegnante di composizione negli anni a venire.
Da questo momento la biografia di Humperdinck si fa meno avventurosa (non del tutto però: per esempio nel 1885 accettò l’incarico di musicista in residenza, generosamente stipendiato, dell’acciaieria Krupp, componendo piccoli pezzi d’occasione e suonando per il magnate dell’industria), mentre cresce il livello, qualitativo e quantitativo, della sua produzione. Nominato professore al Conservatorio di Colonia nel 1887, Humperdinck si creò una famiglia (sposando nel 1889 una compaesana di Siegburg, la cittadina renana in cui era nato il 1° ottobre 1854, Hedwige Taxer, che gli darà quattro figli) e si ritirò in un circolo familiare protetto, di cui l’amatissima sorella Adelheid e le sue figliolette costituivano una parte integrante: con lei e per loro si realizzò il progetto della fiaba drammatica Hänsel und Gretel. Con essa ebbe inizio un’altra storia favolosa, quella della fortuna mondiale di Humperdinck, cui quella sola opera bastò per vivere il resto della sua vita, se non felice e contento, almeno ricco e ben pasciuto.
In realtà, nei vent’anni che ancora lo separavano dalla morte, Humperdinck ebbe modo di fare numerose altre esperienze, da tutti onorato – proprio in virtù di quell’unica opera – come un sommo. Seppe però anche, in quel ventesimo secolo che non avrebbe più ammesso fiabe a lieto fine, continuare il suo magistero di insegnante (fra l’altro alla Hochschule für Musik di Berlino) e profondersi in protezioni di ogni tipo: di Strauss compositore di teatro, di Puccini, che aveva conosciuto a New York nel 1910 quando al Metropolitan le prime rappresentazioni della sua nuova opera fiabesca Königskinder (Figli di re) si erano alternate a quelle della Fanciulla del West, di Leoncavallo (come presidente a Milano della giuria del premio Sonzogno), di Hans Pfitzner, di Bruno Walter, di Max Reinhardt e perfino di Ferruccio Busoni, caldeggiandone, lui straniero, la venuta in Italia. Divenne accademico di Santa Cecilia nella stessa seduta in cui furono nominati anche Elgar, Debussy e Saint-Saëns. Né gli mancò un altro “”onore””, per così dire “”storico””, quello di diventare sordo, di una sordità quasi emblematica della sua personalità sdoppiata: sentiva le altezze dei suoni divergenti nelle due orecchie, e quindi orribilmente stonate. Quando serenamente si spense, il 27 settembre 1921 a Berlino, al suo capezzale accorsero molti allievi. Tra questi, quasi a rappresentare le epoche attraverso le quali era passato, il figlio di Wagner a lui devoto, Siegfried, e un impertinente alunno di composizione a Berlino che rispondeva al nome di Kurt Weill.
Proprio il suo capolavoro Hänsel und Gretel può aiutare a spiegare il fenomeno Humperdinck. Giacché l’opera, pur rappresentando un unicum, illustra assai bene la sua figura. Partendo da un progetto minimo, che contemplava quasi solo belle canzoncine infantili di stampo popolare, egli giunse a realizzare un lavoro teatrale di grandi dimensioni, ricco di effetti mirabolanti e scenicamente incalzante, tutto guizzi e slanci. Ciò gli riuscì per mezzo di un uso sciolto e sapiente dell’orchestra, uniformata, più che alla tecnica narrativa del Leitmotiv wagneriano, a quella evocativa, allusiva dei “”motivi di reminiscenza: motivi plasticamente individuati, che si ripresentano in situazioni diverse, ma sempre con alta capacità di definizione espressiva. Riallacciandosi al paesaggio incantato del naturalismo romantico alla Weber, Humperdinck aggiunge qui un tocco d’intimismo schubertiano, là una spruzzatina del favoloso Mendelssohn. Va da sé che poi s’incrociano i sacri territori di Wagner. Solo che questi incroci sono calibrati con controllo supremo e con cordiale buonumore, e non configurano affatto un caso di epigonismo, anzi: essi rappresentano uno sfondo coscientemente alluso, una sorta di lingua comune e nazionale nella quale l’ascoltatore – quello tedesco in primo luogo, ma non solo – si ritrova comodamente a proprio agio, e può quindi apprezzare la limpidezza e la freschezza delle invenzioni personali che vengono sovrapposte in primo piano.
In quale dimensione collocarlo dunque? Come Il flauto magico di Mozart, lo si potrebbe definire un testo per bambini e per adulti di ogni età. Componendolo, Humperdinck finì per identificare quel luogo mitico dell’infanzia, insieme reale e metaforico, nel quale siamo, o abbiamo creduto di essere stati, felici e contenti. L’atteggiamento di stupore fiabesco scioglie con l’incanto della musica tutti i nodi della nostalgia, del sogno, del ricordo di un’innocenza perduta e forse di una speranza; in essa riversando quel carico di felicità e di spensieratezza che esiste soltanto nella fantasia: l’immagine di un altrove dove rifugiarsi da vecchi concilianti e rivivere il “”c’era una volta”” che redima con tutti i bambini del mondo anche noi scettici adulti.    
                                                                                  

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