Tra i vantaggi delle riedizioni in compact disc di vecchie incisioni monoaurali o stereofoniche c’è, oltre alla migliore qualità tecnica, quello di poter riconsiderare certi documenti sotto una luce diversa. Ciò che venti o trenta anni fa era scivolato via senza trovare uno spazio di diffusione adeguato (e i motivi possono essere svariati), riproposto oggi desta un interesse nuovo e può addirittura essere, per molti, una scoperta. Se è vero che il disco ha principalmente due funzioni, quella di far conoscere sempre nuove interpretazioni del repertorio e quella di estendere il repertorio facendo conoscere opere che si sentono raramente in concerto o a teatro, da questo secondo punto di vista il suo ruolo viene acquistando oggi sempre più importanza, soprattutto per quanto riguarda la musica del nostro secolo: soprattutto quando lavori poco frequentati ci vengono presentati in esecuzioni esemplari.
È il caso dell’opera di Benjamin Britten, che la Decca, con l’etichetta London, ha appena ripubblicato in cd in modo quasi integrale. Il valore di queste incisioni è dato prima di tutto dal fatto che si tratta di esecuzioni storiche compiute quando il compositore inglese era ancora in vita (Britten è morto nel 1976), con la sua partecipazione o sotto la sua diretta supervisione. Il che significa con interpreti della sua cerchia, come per esempio l’onnipresente, grandissimo tenore Peter Pears, o legati a Britten da vincoli di stretta comunanza artistica (come Rostropovič o Richter).
Ciò non esclude naturalmente che altre esecuzioni possano raggiungere esiti interpretativi altrettanto alti; ma qui siamo di fronte alla più piena e completa espressione di ciò che Britten, come musicista e non solo come compositore, ha rappresentato nell’arte del nostro tempo, e non solo in quella: giacché sempre più la sua figura, ai nostri occhi, s’innalza al rango del classico, fuori d’ogni limitazione di tendenze e di epoche, anche se con tutte le caratteristiche artistiche della musica del Novecento, volte in positivo e guidate da una genuina volontà di fare sempre dell’arte un mezzo di espressione e di comunicazione fra gli uomini.
Riascoltare oggi le sue musiche, le sue straordinarie interpretazioni (come pianista non meno che come direttore d’orchestra), ce lo conferma; ancor più se andiamo a pescare fuori dalle acque dei suoi capolavori riconosciuti: Peter Grimes, Il giro di vite, la Serenata o Le illuminazioni, o il Requiem di guerra. Prendiamo per esempio la musica per Il principe delle pagode (1956), la sua prima e unica partitura concepita espressamente per la danza. Colui che ancora in quegli anni era considerato dalle avanguardie un epigono, un cauto amministratore della tradizione con tracce sospette di eclettismo, inventa con questo balletto una meravigliosa fiaba orientale, riecheggiando la musica di Bali e traendone con stupefacente ricchezza di motivi materia d’ispirazione per il rinnovamento del linguaggio, senza mai cascare nell’esotico o nell’illustrativo. Il fatto è che Britten sapeva rendere naturale ogni mezzo che impiegava: e ciò era evidentemente una colpa agli occhi degli esteti del negativo.
Da fonte analoga nacque un altro lavoro che il disco ci fa conoscere con una certa emozione: Il fiume Curlew, la prima opera di quel genere chiamato «parabola da Chiesa» che Britten derivò dal teatro Nô giapponese.
Questa versione inglese del dramma medievale Sumidagawa ha accenti semplici e toccanti; l’economia dello stile, l’intensa lentezza dell’azione, l’intreccio poetico di cori, recitazione e canto immersi nel rito musicale ne fanno una maniera completamente nuova di intendere l’opera, con la quale Britten sembra anticipare e compiere nello stesso tempo la prospettiva di un teatro assoluto, ridotto all’essenza e spiritualizzato. Senza contare che l’interpretazione del Folle alla ricerca del figlio perduto diviene qui con Peter Pears quasi un’esperienza esistenziale, che commuove nell’immedesimazione con la musica di Britten e testimonia valori che vanno anche oltre la creazione artistica.
La composizione di diciassette lavori teatrali non impedì a Britten di continuare a scrivere musica di altro genere. In questa serie di dischi gli esempi potrebbero essere parecchi, e tutti degni d’attenzione, giacché mai Britten scende sotto il livello della consapevole cura artigianale nel magistero compositivo: e ciò basterebbe a collocarlo accanto ai classici. Ma se dovessi scegliere, consiglierei di ascoltare le sue Suites per violoncello op. 72 e op. 80 e la Sonata per violoncello e pianoforte op. 65 suonate da Mstislav Rostropovič con Britten in veste di accompagnatore (le incisioni sono rispettivamente del 1968 e 1961): da questa musica senza aggettivi e senza indicazioni aggiunte (proprio nello spirito di ciò che era stata la musica di Bach, musica e basta) si esce come rinfrancati, con l’animo lieto e con la certezza che la modernità non significa solo lacerazione e disperazione.
Britten, The Prince of the Pagodas op. 57; Orchestra of the Royal Opera House, dir Britten, Decca London 421 855-2 (2 cd); Curlew River, ten Pears, English Opera Group (1 cd); Cello Suites 1 & 2; Sonata in c for Cello and Piano op. 65; vlc Rostropoviˇc, pf Britten, Decca London 421 859-2 (1 cd).
Il giornale della musica, n. 46, gennaio 1990