Così si vendica l’aristocratico Celibidache

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Anche Monaco, dunque, avrà da ora in avanti il suo Beaubourg, e per di più ad alta tecnologia tedesca. Ma che cosa significa, al di là del fatto in sé, certamente importante e tale da modificare la stessa realtà culturale della capitale bavarese, la creazione di un centro musicale e artistico come «Gasteig»? Se lo domandano, con considerazioni spesso opposte, gli stessi monacensi. Che uso fare di questo meraviglioso e sofisticato strumento, sorto non per caso dirimpetto al museo della scienza e accanto alla vecchia sala del «Deutsches Museum», sede finora dell’attività sinfonica e destinata a essere rimpiazzata dal-la ben altrimenti attrezzata, nuova sala della «Philharmonie?»

Solo indirettamente, forse, «Gasteig» costituisce la risposta tedesca – e in una città contraddittoriamente cosmopolita e nazionalista come Monaco – al parigino Beaubourg. «Gasteig» infatti non aspira ad essere un centro di ricerca e di diffusione dell’arte moderna e delle tendenze contemporanee come il Beaubourg, ma semmai una roccaforte organizzata per rilanciare, sia pure in prospettiva attuale, le tradizioni e i valori più tipici della cultura tedesca e bavarese in particolare. La piccola sala intitolata a Carl Orff ne è quasi l’emblema; e la solennità senz’altro rituale della cerimonia d’inaugurazione, così come la scelta degli autori per il concerto di battesimo (da Schütz a Strauss passando per Bruckner, Wagner e Pfitzner) ne è la riprova lampante.

Non stupisce perciò che l’accento anche velatamente polemico sia caduto piuttosto sul motivo della rivalità con Berlino, soprattutto riguardo alla miracolosa perfezione di una sala da concerti capace di rivaleggiare, se non superare, la mitica sede della Filarmonica di Karajan. Da ora in avanti, si leggeva sui giornali di Monaco, dicendo «Philharmonie» si dovrà comunque intendere la sede dei «nostri» Filarmonici.

Semplice orgoglio campanilistico? Non esattamente. L’immagine che attraverso «Gasteig» si vuol dare, sposando tradizioni culturali e avvenirismo tecnologico, è, come si è detto, inequivocabile: e di questa conservazione per il Duemila Monaco ambisce ad essere il portavalori. Del resto, non si spendono tanti miliardi soltanto per un’immagine priva di sostanza.

E allora, «Gasteig» è anche, anzi soprattutto, una vittoria di Sergiu Celibidache, capo carismatico dei Münchner Philharmoniker, l’orchestra cui la «Philharmonie» è istituzionalmente consacrata. Celibidache si è conquistato una posizione eminente a Monaco non soltanto con l’eccellenza delle sue esecuzioni ma anche con dichiarazioni polemiche, tutt’altro che contigenti: un suo slogan assai pungente – «Karajan è come la Coca-Cola: piace alle masse» – ha fatto epoca, a Monaco. E non per nulla Monaco è l’unica grande città tedesca in cui Karajan, in questi ultimi dieci anni, non ha mai diretto, neppure in tournée. Non si dimentichi che Celibidache avrebbe dovuto essere il successore di Furtwängler alla Filarmonica di Berlino; poi, dopo un breve interregno, gli fu invece preferito Karajan. Quell’affronto, Celibidache non l’ha mai dimenticato; e la sfarzosa vetrina di «Gasteig» significa anche la celebrazione di una sottile vendetta personale.

Ma c’è di più. Celibidache è oggi il più intransigente conservatore dei valori «assoluti» della grande musica sinfonica tedesca e delle sue tradizioni più pure: non dirige l’opera, non incide dischi, non oltrepassa, nei suoi programmi, il primo Novecento; detesta Mahler, rifiuta Schönberg. Egli è, in altri termini, un guardiano della storia che chiude la porta alla crisi dell’era moderna. Rispetto a Wolfgang Sawallisch, il suo grande dirimpettaio che governa le sorti della Staatsoper e che è egli stesso un cultore della tradizione, queste scelte assumono, in Celibidache, una chiara connotazione ideologica: egli invita a meditare sulla grandezza dei classici, con impressionante intensità espressiva, e sulla tragica impotenza dell’arte moderna, che quella grandezza può solo celebrare con riti solenni ed esclusivi. Per questo il pubblico di Monaco, che sovente critica Sawallisch per la sua gestione più «democratica», adora senza riserve l’aristocratico Celibidache.

Accanto a me, durante il concerto inaugurale, sedeva un anziano signore, molto distinto e dall’aria autorevole: durante l’Adagio di Bruckner, teso da Celibidache con insostenibile carica emotiva, non ha potuto trattenere le lacrime, e nulla ha fatto per dissimularle. In quel pianto m’è parso di scorgere ben più di una pur lecita commozione musicale: il rimpianto di un mondo perduto, di una grandezza sparita, forse le indotte memorie dei miti radiosi della dominante Germania. Che ciò avvenisse nella cornice lunare e spaziale di «Gasteig», acuiva il dramma di questa immedesimazione. Potrebbe essere un insegnamento anche per noi: non avremo mai un «Gasteig» (o un Beaubourg, o un Barbican) finché non avremo recuperato il significato e le ragioni della nostra presenza nella storia.

Il Giornale della Musica, n. 1, dicembre 1985

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