Il Graal dei marginali

I

Potrebbe essere la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. E invece è l’ennesima dimostrazione della schizofrenia che ha invaso e domina la prassi odierna del teatro musicale. Perfino a Bayreuth? Soprattutto a Bayreuth. Dove l’attesissima “Neuinszenierung” del Parsifal, unica novità del festival wagneriano di quest’anno, ha avuto accoglienze esattamente divise a metà, rumorose contestazioni per la messa in scena, fragorose acclamazioni per la parte musicale. Quando questo accade cosa significa? Evidentemente che qualcosa non ha funzionato. E che un’altra volta, soprattutto in Germania, il cosiddetto “teatro di regia” ha consumato un’altra delle sue liturgie. Ma che cosa si intende per “teatro di regia”, fenomeno che dalla Germania si è ormai esteso a tutto il mondo anglosassone e che ha fatto capolino anche in Italia?

Esso parte da due presupposti oggettivi, fondamentali, che occorre tener presenti se si vuol cercare di capire e non accontentarsi di facili condanne (i “guardiani della musica” non esistono più, o sono patetici relitti di un mondo scomparso). Il primo è la provenienza dei registi, reclutati oggi, a differenza di quanto avveniva in passato, non dalla specifica tradizione del teatro musicale ma dai campi più diversi, dalla prosa al cinema, dalla televisione alla performance multimediale: inevitabile che si servano di esperienze e strumenti assai diversi da quelli propri dell’opera lirica (a meno che non si tratti di opera contemporanea). Il secondo è legato al logoramento del repertorio, o meglio alla coscienza, vera o presunta, ma acuta, che a tale logoramento debba corrispondere una nuova interpretazione secondo i mezzi espressivi, creativi e comunicativi, della nostra epoca: donde la cosiddetta “attualizzazione”. La quale procede non realizzando convenzionalmente il testo, la storia, gli ambienti, i costumi, i personaggi e via dicendo ciò che è scritto, bensì creando una rete di associazioni, di parafrasi, di parodie, di divagazioni, di fantasie, quasi sempre magnificamente ottenute usando i mezzi più avanzati e sofisticati della tecnica, che si collocano a lato o sopra il testo, comunque al di fuori di esso. Il concetto insomma è pressappoco questo: Parsifal ha più di centovent’anni di vita, lo avete visto mille volte e sapete che cosa sia (a Bayreuth, poi), dandolo per scontato si tratta dunque non di ripeterlo ma di interpretarlo in ciò che significa per noi oggi in rapporto alla nostra epoca, alla nostra esperienza, alla nostra sensibilità. Siffatte operazioni non sostituiscono l’originale, lo parafrasano, anzi lo trascrivono in abiti moderni, con mezzi attuali (molto usate le proiezioni, ossia le immagini). Il ragionamento, per perverso che appaia, non fa una grinza; presenta però un inconveniente: altera irrimediabilmente, de facto, l’equilibrio interno, primario, tra testo e musica. E ciò produce uno iato, una frattura, una dissociazione: in altri termini, la schizofrenia. Si innesca così il meccanismo di reazione del pubblico, che applaude gli interpreti musicali, garanti della sacralità della tradizione, e inveisce contro il regista, autore della profanazione, se non della provocazione.

Il regista del Parsifal a Bayreuth si chiama Christoph Schlingensief, è giovane e brillante e ha ragionato appunto in questo modo. Non è affatto uno sprovveduto né un criminale, checché abbiano detto o scritto approssimativamente i giornali non tedeschi, anzi è assai noto e attivo in Germania per le sue qualità di performer eclettico, geniale e spiccatamente d’avanguardia: averlo scelto è stato da parte di Wolfgang Wagner, il patriarca del festival (e già responsabile del Parsifal più noioso e convenzionale che la storia di Bayreuth ricordi: paradosso dei nostri giorni), un atto non tanto di coraggio quanto di adeguamento allo “spirito del tempo” (che poi proprio Bayreuth debba adeguarsi allo Zeitgeist, è discorso che ci porterebbe troppo lontano).

Schlingensief si è chiesto che cosa significhi per noi oggi il mondo del Graal e ha dato una risposta drastica: è il mondo degli emarginati, dei cultori di un rito primitivo in un’isola remota dell’umanità devastata dalla civiltà moderna, che partorisce superfetazioni mostruose e orribili allucinazioni. Oplà, la conseguenza: è il mondo degli extracomunitari, dei neri e dei diversi. È il mondo della contaminazione, e della decomposizione fisica e fisiologica. È l’ultima frontiera dopo la catastrofe ecologica e nucleare e prima della apocalissi. È lo scontro primitivo delle culture e delle razze, dal quale non c’è conciliazione o salvezza: sorta di oscura rappresentazione tra l’horror e il supertecnologico di intere, rovinose storie di uomini e di civiltà senza futuro. La variazione sul tema, costellata di simboli, richiami e proiezioni sovrapposte al lacerante conato di dare un senso ultimo, o meglio ultimativo, alla storia, provoca fatica e nervosismo ma è condotta con luciferina coerenza e abilità. Certo, c’è aperto conflitto con la musica, ed è proprio questo che il regista vuole, ma c’è al tempo stesso, seppur solo intravista in modo impervio, una nuova, terribile evidenza della musica stessa che così risuona in questo contesto: veramente, ineluttabilmente attuale. L’audacia simbolica della decomposizione di un coniglio proiettata sulla scena mentre si svolge la redenzione finale di Parsifal assume altrettanto il valore di un suggello che, invitandoci a non credere alla chiusa consolante e conciliante, ci immette di colpo nell’orbita di un dubbio che s’interroga sul significato stesso della redenzione: non soltanto moralmente, ma anche storicamente. Ecco Parsifal, con tutto il suo fardello di utopie, per noi oggi; non troppo distante infine da Wagner.

Pierre Boulez raccoglie questa sfida quasi disperata con l’entusiasmo di un idealista e lo scetticismo di un razionalista. La sua direzione, musicalmente impeccabile, è non meno spietata, analitica, rigorosa, tesa con acutezza a mettere in evidenza, con scavo interno (e interiore), la lucidità e la trasparenza della partitura. È un Parsifal, il suo, al tempo stesso coinvolgente emotivamente e chiaro intellettualmente, nobile e virile, mai retorico; e naturalmente affilatissimo (ma tanto più equilibrato di una volta: quanto si è ammorbidito senza rammollirsi, Boulez) nel rendere percepibili quasi fisicamente la modernità e la visionarietà, ma anche la tragicità, della concezione musicale.

Difficile pensare a una lettura più in sintonia con le tesi di Schlingensief: ancora una volta, Parsifal tradotto nella nostra dimensione. Inutile allora, passando alla compagnia di canto, rimpiangere le grandi voci di una volta, che non ci sono più, e climi irrimediabilmente lontani dalle temperature accese dei tempi che furono. Il rito si officia con altri sacerdoti, toccati dall’eresia. E i cantanti non ne sono più i protagonisti, bensì solo dei concelebranti umili e interdetti. Endrick Wottrich è un Parsifal poco eroico e squillante, ma si sforza di rendere credibile il ruolo di “diverso” che gli è assegnato. I rappresentanti del Graal hanno perso la loro aura mitica: Robert Holl, Gurnemanz, rivive e racconta vicende di cui sembra aver perso la memoria e l’immediatezza, mentre Alexander Marco-Buhrmester è un Amfortas piagato non da peccati ancestrali ma da colpe ben più prosaiche (l’Aids, ovviamente), e come tale si lamenta. John Wegner è un Klingsor primitivo e dedito a riti tribali: il giardino delle fanciulle-fiore è popolato di forze fantomatiche e non particolarmente seduttive. Solo la Kundry di Michelle De Young, unica attiva presenza femminile in un mondo indifferenziato di diseredati, non è un automa vagante e segue un percorso di conoscenza che la porta ad astrarsi dall’incombente rovina: interessante la rivalutazione di questo elemento sacrificale, materno e femminile, nel contesto del dramma. Tutti i cantanti hanno voci ben educate e seriamente coltivate, ma per così dire di formato ridotto, ridimensionato.

Tanto basta però perché il pubblico di Bayreuth li accomuni al trionfo decretato a Boulez e li collochi dalla parte dei salvati.

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