Dvořák o della serenità

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Con la Philadelphia Orchestra il direttore affronta pagine che esegue raramente. Una lettura approfondita che si abbandona alla cantabilità di una musica gioiosamente limpida, emblema di un’epoca senza crisi

Sawallisch e Dvořák. Un binomio insolito. È lo stesso direttore a riconoscerlo in un passo della sua autobiografia recentemente pubblicata anche in italiano, quando afferma che di fronte alle sue proposte per mettere in programma nei concerti autori non tedeschi (come Šostakovič, Prokof’ev o appunto Dvořák) quasi mai ha trovato risposte non si dice entusiastiche, ma almeno possibiliste: come se da lui – e più in generale da un direttore di scuola e tradizione tedesca – ci si aspettasse sempre un certo repertorio, e non altro. La collaborazione con l’Orchestra di Filadelfia e il nuovo contratto in esclusiva con la Emi hanno invece reso possibile, in concerto e in disco, la realizzazione delle tre ultime Sinfonie di Dvořák, a cui seguirà quest’anno l’integrale delle Danze slave (ma non, come Sawallisch sperava, quella delle Sinfonie, che la Emi giudica poco convenienti; e poi si dice che il mercato discografico non ha il suo peso e le sue misure).

Il risultato è a dir poco sorprendente, a ulteriore dimostrazione che in musica, se esistono i luoghi comuni, non contano gli schemi fissi. Sorprendente ed entusiasmante, più ancora che nella celeberrima Nona (o Quinta che dir si voglia) “dal Nuovo Mondo”, nella Settima in re minore e nell’Ottava in sol maggiore, che risalgono rispettivamente al 1885 e al 1890. Sinfonie, queste ultime, di non frequentissima esecuzione; anche se l’Ottava, che Dvořák stesso considerava uno dei suoi lavori più riusciti (mai avrebbe osato sperare che la Nona raggiungesse una popolarità così vasta), non è mai uscita dal repertorio sinfonico.

Sawallisch le affronta con piglio brillante, ma senza sottovalutare l’originalità dell’impianto formale. Che, per dirla con una formula, innesta su una robusta tessitura armonica e ritmica la vena melodica della musica popolare boema, col suo copiosissimo materiale tematico. Il pericolo insito nell’esecuzione di queste Sinfonie è quello di sbilanciare l’equilibrio molto particolare tra il carattere della costruzione architettonica e l’empito lirico degli slanci melodici, che nella loro evidenza espressiva tendono a balzare in primo piano e a divenire quasi valori a sé stanti: ancor più aiutati dall’abbagliante luccichio della strumentazione.

Quel tanto di ingenuo, di immediato, di superficiale (nel senso che sembra scorrere e brillare su una superficie levigata apparentemente priva di profondità) che costituisce un elemento di presa diretta e di fascino speciale sull’ascoltatore, per Sawallisch sembra essere piuttosto il lato più esposto di una espressione sinfonica tumultuosa e fremente, in cui vibrano per così dire sovrapposti strati di diversa entità e densità. Non solo il direttore ne fa percepire la compresenza, lavorando sulle parti interne del discorso e sottolineando l’intreccio contrappuntistico, ma riesce anche a graduare i diversi piani sonori in una concertazione di rara misura e sottigliezza. L’abitudine a concepire organicamente la forma musicale, dipanandone le fila al fine di far risaltare l’unità dell’arco completo, è qui messa al servizio di un autore talvolta accusato di mancanza di spessore nell’elaborazione degli sviluppi tematici. E basta ascoltare il modo in cui Sawallisch conferisce logicità e coerenza al processo ciclico della Sinfonia in mi minore, con l’intensificazione dei ritorni del tema iniziale dell’Allegro molto, per rendersi conto della solidità e della profonda originalità di una concezione formale sovente offuscata dall’esteriore preminenza della più estroversa cantabilità popolareggiante. In altri termini, Sawallisch si interroga anche su ciò che sta sotto alla esuberante comunicativa di un mondo espressivo originariamente spontaneo; rivelandone puramente l’aspetto colto, raffinato, sapientemente consapevole della sua trasformazione. Più che un’alternativa alla tradizione tedesca, Dvořák appare così un continuatore di quella scuola, con una nota marcatamente personale e un colore idiomatico particolare, fortemente nazionale.

Tutto questo da Sawallisch ce lo saremmo potuto aspettare. Ma ciò che colpisce ancora di più è la sua capacità di abbandonarsi al canto, di palpitare seguendo le effusioni della musica, di esaltarsi al cospetto di una musica gioiosamente serena, luminosa ed elegante. L’arte del “rubato” viene introdotta con finissima calibratura, flessibilità e naturalezza. Tanto da far apparire insuperabile, quasi ai vertici del sublime, il movimento di valzer del terzo tempo dell’Ottava: un vero emblema di quella integrazione linguistica fra stili e tradizioni diverse, tra Vienna e Praga, lietamente raggiunta dalla musica dell’Ottocento in un autore miracolosamente immune dalle angosce della crisi.

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