L’enigma Rossini

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A differenza di Verdi e di Puccini, i «grandi» del melodramma italiano, Gioachino Rossini ha da alcuni anni una sede e un festival che si occupano quasi esclusivamente della sua opera, fornendo esecuzioni di esemplare livello con direttori, registi e cantanti scelti, avvalorate dall’uso di «edizioni critiche» tendenti a ripristinare, delle singole opere, la lezione originale: ossia testi il più possibile corrispondenti alle reali intenzioni dell’autore. Che questi testi fossero stati corrotti nella prassi esecutiva ottocentesca, con tagli interpolazione, interventi sia sulla parte vocale che su quella strumentale, è fatto noto a chiunque si sia occupato, anche da semplice ascoltatore, della storia dell’opera dell’Ottocento: il fenomeno non riguarda soltanto Rossini, ma certo il caso di Rossini è uno di quelli più complessi e delicati. Il Festival Rossini di Pesaro, e la Fondazione che cura gli studi musicologici e le ricerche critiche a stretto contatto di gomito con la verifica esecutiva, hanno avuto il merito di porre l’attenzione su questo problema, e di consolidare una tendenza sempre più, e giustamente, pronunciata.

E’ accaduto così che quest’anno si verificasse un vero e proprio colpo grosso, con la riscoperta di un’opera tanto mitica quanto sconosciuta: quel Viaggio a Reims composto da Rossini nel 1825 per celebrare l’incoronazione a re di Francia di Carlo X e da allora mai più eseguito, ultima delle sue opere italiane e terz’ultima della sua produzione. La storia di questo lavoro è abbastanza curiosa. Accolta con straordinario favore dall’eletto uditorio ammesso ai festeggiamenti regali, l’opera fu poi trasfusa per una buona metà in una nuova partitura di carattere e stile affatto diversi, quella del Conte Ory: e non era certo la prima volta che qualcosa del genere accadeva. Ma il fatto è significativo, e merita qualche riflessione.

Preliminarmente, occorre ricostruire per sommi capi la carriera di Rossini operista. Per molti, ancora oggi, Rossini è soprattutto l’autore del Barbiere di Siviglia, della Cenerentola, dell’Italiana in Algeri: ossia di opere comiche, appartenenti al genere buffo. E appare, ai più, compositore brillante, estroverso, arguto, spiritoso, addirittura un gaudente e un buontempone. In realtà, Rossini fu anche, se non soprattutto, un grande compositore di opere serie, appartenenti al genere tragico: opere che, se ebbero meno fortuna presso i posteri, furono ampiamente conosciute ed apprezzate dai contemporanei e contribuirono a diffonderne la fama su piano internazionale. Che si pensasse di chiamare Rossini a Parigi per cucinare il piatto forte dei festeggiamenti musicali in onore di Carlo X, appare dunque del tutto normale: Rossini era l’astro nel firmamento della musica europea, il compositore più duttile e fantasioso, più versatile ed eclettico che mai si fosse dato dai tempi di Mozart. Quell’incarico toccava di diritto a lui.

Eppure, meno di cinque anni dopo quell’unanime riconoscimento, riadattato in chiave insieme scherzosa e tragica il Viaggio a Reims nel Conte Ory (beffa sublime a coloro che lo avevano preso sul serio come poeta cesareo), conquistata definitivamente la capitale con un monumentale capolavoro quale Guglielmo Tell, Rossini si ritirò dalle scene e tacque, come operista, per sempre. Non perché lo cogliesse la morte (sarebbe vissuto ancora a lungo, fino al 1868), ma per scelta propria: come quegli atleti o campioni che, appena raggiunta la vetta delle loro aspirazioni, ringraziano e si ritirano.

Rossini aveva dunque raggiunto la vetta delle sue aspirazioni? O il motivo del grande ritiro era un altro? L’enigma, ché di un vero enigma si tratta, non è sciolto. Proviamo a riassumere alcune ipotesi.

La prima è anche la più elementare. Rossini si ritira perché appagato dai suoi successi, dalla sua fama, dalla sua posizione. In parte anche perché stanco dopo anni di lotte e di battaglie, di frenetica attività, di sempre più difficili equilibri all’interno della complessa macchina produttiva del teatro. Altri talenti premono alle porte, altri ideali e altre aspirazioni si fanno strada, il gusto del pubblico va cambiando: Rossini, nel suo splendido isolamento, non ha più bisogno di mettersi in riga. Si limita ad assistere e a contemplare il mondo che cambia, con aristocratico senso di superiorità.

Ma c’è anche un’altra ipotesi, più sottile. Rossini, dopo il Guglielmo Tell – l’opera che assomma i caratteri più completi della sua poetica musicale, al di là del genere buffo e di quello semiserio –, entra in crisi. Il limite a cui ha spinto l’opera confina ormai con territori sconosciuti, forse addirittura con una nuova concezione di teatro musicale, oltre le convenzioni e le tradizioni dei generi storicamente costituiti. Compiere questo passo avrebbe significato rimettere in discussione tutto, non tanto se stesso, quanto la propria immagine; non compierlo, voleva dire tradire se stesso. Il silenzio appare la via d’uscita da un dilemma pressoché insolubile.

Una rinunzia dolorosa, senza dubbio. Giacché Rossini era consapevole di avere ancora molto da dire, di poter aprire ancora molte strade. Ma in quale direzione? Rossini aveva tentato, in modo tanto più efficace quanto meno esibito, di trovare una sintesi tra stili compositivi di diversa natura, e all’apparenza inconciliabili: da un lato le convenzioni e le tradizioni dell’opera italiana, fondata sul belcanto e sulla fissità di moduli drammaturgici saldamente definiti, dall’altro le nuove conquiste dell’elaborazione tematico-armonica del sinfonismo classico di area tedesca. Non a caso il modello di Rossini era stato Mozart, richiamato in vita per l’ultima volta nel Conte Ory. In altri termini, Rossini era convinto che la strada da percorrere fosse quella di un teatro irrobustito nel tessuto sinfonico e funzionale a un tipo di dramma più flessibile, aperto e continuo, nel quale il canto, senza perdere le sue prerogative melodiche ed espressive, divenisse veicolo d’un’emozione puramente musicale. Sotto questo aspetto Rossini ci appare influenzato, se non addirittura tormentato, dalle nuove, seducenti istanze romantiche.

Quale spazio avrebbe avuto Rossini per condurre in porto questa esigenza? Poco, o nessuno, in Italia, se si pensa allo stato della musica al momento del grande ritiro; in Francia, Guglielmo Tell rappresentava l’estremo limite oggettivamente consentito. E fuori di questi territori, non si davano a Rossini altre alternative.

La nevrosi nella quale precipitò Rossini dopo la dolorosa decisione di tacere (un silenzio protrattosi quarant’anni, e appena interrotto da lavori tanto sublimi quanto evidentemente schizofrenici) è un sintomo della dissociazione fra coscienza di sè e incapacità (o impossiiblità, che è lo stesso) di agire. L’estraneità di Rossini alle faccende del mondo, artistico e non, che lo circondava, il manifestarsi di piccole manie e di sgradevolezze senz’altro accentuate ad arte, mascherano – ma neppure tanto – la tragica situazione di un grande artista esclusosi volontariamente dal suo tempo perchè troppo in anticipo e troppo rapido nel bruciarne le tappe. Le vicende del melodramma italiano fino alla metà del secolo, nononstante alcune chiare eccezioni, dimostrano che Rossini aveva visto giusto e più avanti degli altri, suo malgrado. Colui che aveva fatto di barbieri, cenerentole e turchi oggetti di un raffinato divertimento dell’intelligenza  e della sensibilità, colui che aveva cantato con accento severo le tragiche passioni di eroi ed eroine dell’antichità, aveva finito per diventare vittima del suo stesso gioco protato alle estreme conseguenze: una vittima del suo genio, forse, così inquieto e dubbioso da non appagarsi mai, ma soprattutto della consapevolezza di appartenere a un rango che non consente compromessi, quando si tratti di scrutare nel fondo del’anima e  dell’arte.

Nuova Civiltà, ottobre-novembre 1984

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