Della Decima Sinfonia (in realtà undicesima se si considera anche Das Lied von der Erde, sinfonia con voci mascherata nel titolo ma a tutti gli effetti tale) Mahler arrivò a completare, a Dobbiaco nell’estate del 1910, l’ultima che poté dedicare alla composizione (morirà a Vienna meno di un anno dopo, la sera del 18 maggio 1911), solo il primo dei cinque movimenti di cui doveva essere formata. Degli altri movimenti (ma non si può escludere che anche il primo potesse essere sottoposto a una revisione) ci restano abbozzi più meno estesi, corredati da annotazioni a loro volta più o meno definite. Sappiamo così che all’Andante-Adagio iniziale in fa diesis maggiore doveva seguire uno Scherzo in fa diesis minore (con conclusione in maggiore) in modo da costituire il blocco della prima parte; indi, come seconda parte, una sorta di breve intermezzo intitolato dantescamente “”Purgatorio””, in si bemolle minore, uno Scherzo in mi minore di carattere contrastante e un Finale, che inizia in re minore e si conclude ciclicamente in fa diesis maggiore, con funzione di riepilogo. Sulla base di questi abbozzi il musicologo inglese Deryck Cooke (1919-1976) ha potuto tentare una ricostruzione della partitura designata con opportuno understatement come performing version (ossia versione per l’esecuzione): questo lavoro, fatto conoscere la prima volta a Londra il 13 agosto 1964, senza pretendere di stabilire nulla di definitivo o di assoluto, per la sua serietà e attendibilità ha avuto una discreta fortuna e si è conquistato col tempo un posto di rilievo nelle esecuzioni concertistiche e perfino nelle incisioni discografiche. Ciò non toglie che ancora oggi si usi per lo più eseguire solo il movimento portato a termine dall’autore: la cui prima presentazione pubblica ebbe luogo all’Opera di Vienna il 14 ottobre 1924 sotto la direzione di Franz Schalk, seguita da una ricostruzione del terzo tempo curata da Ernst Krenek.
La Decima Sinfonia vive nel clima ctonio del tardo stile mahleriano ma, pur avendo numerosi punti di contatto con la Nona (che si concludeva con un grande Adagio: e di lì sembra ripartire l’Andante-Adagio della Decima), se ne differenzia per l’atteggiamento di fondo. Se la Nona, e prima di questa il Lied von der Erde, costituivano uno smaterializzato congedo dal mondo e dalla vita nel segno della rinuncia e della rassegnazione, la Decima rappresenta un nuovo inizio, un rimontare alle origini con alte spalle l’esperienza, trasformata in regno de! silenzio, del dolore e della morte. Dopo un’agonia lenta e dolce-amara, essa si scuote dallo stato letargico pur nella condizione di un’evidente prostrazione, fisica e psichica: le cui cause erano però di natura più esistenziale e autobiografica che non compositiva o poetica. Si suole mettere in relazione lo stato d’animo in cui Mahler la compose con la violenta crisi scoppiata proprio in quei tempo nei rapporti con la moglie Alma. E infatti di questo periodo l’esplosione della passione di Alma per il giovane architetto (ventisettenne, quattro anni meno di lei, ventitré meno di Mahler) Walter Gropius, che portò a una relazione clandestina di cui il marito venne in circostanze drammatiche (una lettera intercettata) la conoscenza. Non si arrivò alla separazione, ma la crisi lasciò tracce profonde nella psiche già malata di Mahler e si riverberò nelle disperate invocazioni ad Alma (Almschi, nel vezzeggiativo) di cui il manoscritto della Decima è costellato. Accanto al sinistro, funebre colpo di tamburo con sordina che chiude il secondo Scherzo (nel cui frontespizio già è annotato in modo misterioso “”Der Teufel tanzt es mit mir””, ossia “”Il diavolo lo danza con me””) si legge per esempio: “”Tu sola sai che cosa significa. Ahimè, ahimè, ahimè! Addio, mia cetra [Saitenspiel]. Addio…””. E alla fine del “”Purgatorio””: “”Pietà!! Dio, Dio, perché mi hai abbandonato? Sia fatta la tua volontà!””. E ancora, nel corso degli abbozzi dell’ultimo movimento: “”Almschi! Per te vivere! Per te morire!””.
Per quanto sia sempre arduo (croce e delizia dei commentatori) dare un senso a espressioni di questo tipo in rapporto alla musica di Mahler, tanto più nel caso di un’opera lacunosa e a tratti frammentaria come questa, è lecito affermare che il flusso della coscienza compositiva ne prescindesse nella logica interna della creazione. Per quanto possa influenzarla, non sempre il “”programma interiore”” è realizzato dalla musica in modo diretto, tanto meno univoco: si tratta semmai di leggerlo in trasparenza, come premessa o presupposto di un corso linguistico, formale, stilistico che segue leggi proprie. Da questo punto di vista la Decima Sinfonia non è un’opera di crisi, ma un’opera che cerca di rifondare un ordine costruttivo al di là degli estremi limiti della disgregazione e del silenzio a cui la musica di Mahler era pervenuta. Naturalmente si tratta di un ordine che, tenendo conto di questi risultati, non ha più nulla a che fare con quello tradizionale o storico, ma che sperimenta una nuova logica di associazioni e di elaborazioni in un discorso, per quanto interiorizzato, aperto e libero, seguendo un percorso individuale senza più far riferimento a schemi precostituiti. Essi, la forma sonata, lo scherzo, il rondò, la stessa variazione, sono spettri vaganti su uno sfondo indistinto, che non incombono più neppure come una presenza inquietante. Ma è da queste ombre che Mahler trae la linfa vitale che gli consente non soltanto di scendere nel regno delle Madri ma di individuare anche un nuovo territorio espressivo di trasfigurazione. La tecnica costruttiva, particolarmente complessa, si basa sulla variazione continua degli elementi contenuti nell’idea introduttiva, un vasto recitativo delle viole sole in pianissimo (Andante), ritmicamente a poco a poco sempre più statico, ma pregno di molteplici implicazioni melodiche e armoniche. Da esso si originano (Adagio) un primo gruppo tematico di intensa cantabilità e un secondo di carattere più mosso e instabile, quasi sfuggente. Dopo questa prima presentazione degli elementi fondamentali ritorna, variato, il recitativo delle viole, e riappaiono il primo e il secondo gruppo tematico, trasformati e molto ampliati. Lo sviluppo, ancora introdotto dal recitativo delle viole, non approda a un crescendo di tensione (al tempo iniziale Andante è ormai subentrato definitivamente l’Adagio), ma crea una situazione sospesa, stagnante, di sogno, via via sempre più rarefatta. Improvvisamente, come risvegliandosi da un letargo, a questa visionaria contemplazione seguono una serie apocalittica di accordi in fortissimo e un breve corale degli ottoni, un’irruzione che imprime una svolta decisiva al pezzo e spalanca la densa ripresa dei due gruppi tematici, nel segno però di una catena di dissonanze di lacerante, asperrima violenza. La catastrofe annunciata si placa e si distende nell’epilogo, un dilatato, progressivo spegnersi lentamente nel silenzio e nella notte, in cui galleggiano frammenti e varianti dei due gruppi tematici, ormai ridotti a larve fantomatiche del nulla nella alterna dissolvenza di pieni e di vuoti.
Secondo Quirino Principe “”il primo tempo della Decima accoglie la tendenza a una riflessione filosofica sulla musica, e ne risulta un senso di isolamento dal mondo esterno””.
Nella Decima Sinfonia Mahler approdò a confini che erano dentro e fuori la storia del suo tempo, superando la tragedia stessa che contempla il dolore dell’uomo, la sua sventura e la sua morte, senza afflizione e disperazione, poiché tutte le cose presenti sulla scena del mondo hanno la stessa importanza, esistono in tutto e per tutto per quello che sono. Questo raggiungimento di una coscienza che potremmo definire pretragica è chiarito da queste parole del filosofo Karl Jaspers: “”La coscienza tragica richiede la storicità. L’eterno corso e ricorso della vita non è che lo sfondo. L’essenziale è irripetibile e in continuo moto progressivo. Impegna a una decisione e non ritorna più. Ma la coscienza pretragica non cede solo il campo a quella tragica. Forse quello che ci sembrava solo una fase preparatoria riesce ad affermarsi come una validità indipendente di contro alla visione tragica della vita. Questa viene a mancare, nonostante ogni sensibilità alla sventura, là dove riesce a formarsi un’interpretazione armonica del mondo e una realtà vitale ad essa conforme […]. Tutto il male, ogni sventura e miseria non sono che disturbi passeggeri, la cui esistenza non è imposta da alcuna necessità. Non c’è l’orrore del mondo, il rifiuto e la giustificazione del mondo, non c’è accusa contro l’essere o la divinità, ma tutt’al più un blando compianto. Non c’è più lo strazio della disperazione, ma un sopportare e un morire pacato. Non ci sono grovigli inestricabili, oscuri sconvolgimenti, ma tutto, in fondo, è luminoso e bello, è vero.
L’atroce e il terrificante sono noti e sentiti non meno che nelle civiltà illuminate dalla coscienza tragica. Ma l’atmosfera vitale resta serena, non insorgono nè lotta nè sfida. Una profonda coscienza storica unisce tali civiltà al fondo primordiale di tutte le cose, ma esse non cercano alcun movimento nella storia, bensì solo la perenne restaurazione dell’eterna realtà che è perfettamente giusta e buona. Dove inizia la coscienza tragica, è andato perduto qualcosa di straordinario, una sicurezza priva di tragicità e una sublime umanità naturale, la gioia di sentirsi a casa propria dentro il mondo e una ricchezza d’intuizioni concrete”. Da questi principi, il torso della Decima di Mahler, ultima opera con i tratti distintivi di un’opera ultima, è permeato nella sua “incompiuta compiutezza”.
Il giornale del nuovo, n. 9, marzo-aprile 2003, Stagione 2002-2003