Luigi Dallapiccola la voce di un maestro

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Nell’immenso vuoto lasciato dalla scomparsa di Luigi Dallapiccola, in molti vedemmo nella sua musica anzitutto una consolazione, qualcosa che rimaneva a ricordare perennemente la figura dell’uomo e del maestro, prima ancora che l’oggettiva testimonianza di una presenza artistica fra le più compiute e coerenti nel panorama musicale del nostro secolo. Medicate dal tempo le ferite, riassorbiti i ricordi e le impressioni personali, virata la boa del primo anniversario che dà la misura dello scorrere del tempo – dieci anni sono ormai trascorsi da quando egli ci ha lasciato -, la voce di Dallapiccola torna a risuonare per intero e intatta nelle sue partiture, come se si trattasse di un nuovo inizio, della riscoperta e della riconquista di una nuova dimensione e ricchezza della sua musica, pura e oggettiva. Vengono alla mente le acerbe, profetiche parole di Arnold Schoenberg: la vera vita di una artista comincia solo dopo la sua morte, quando la consapevolezza che un itinerario creativo si è definitivamente concluso lo colloca sul piano delle cose assolute e immodificabili. In altri termini, lo consegna alla storia.

Lui, Dallapiccola, che in ogni atto anche insignificante tendeva a raggiungere la misura di eternità e di verità che all’uomo è concessa, non temeva il giudizio della storia. Del resto, in essa era già vissuto, partecipando agli eventi umani e artistici della sua epoca, quando la fedeltà a scelte difficili ma irrinunciabili lo aveva condotto inevitabilmente alla solitudine e all’isolamento, all’equivoco di una musica ritenuta ostica e cerebrale mentre era soltanto pensata e sofferta, profonda e appassionata. Mai Dallapiccola avrebbe potuto sottrarsi al suo destino, dare voce e forma all’ansia di ricerca e di espressione che lo animava, per dire fino in fondo ciò che aveva da dire. E alle sue condizioni. Siccome la vocazione alla musica si era mostrata subito fortissima, e come musicista aveva deciso di diventare un compositore, accettare il proprio destino aveva significato anzitutto vivere concretamente la situazione con-temporanea della cultura, dell’arte e della musica, interrogandosi sull’evoluzione dei linguaggi e delle forme. Nel momento decisivo dei primi orientamenti, scegliere la dodecafonia era stato un atto di pura deduzione logica, un traguardo a cui lo spingevano esperienze non soltanto musicali (le possibilità di una nuova dialettica delle articolazioni del linguaggio balenavano già nell’attento lettore di Proust e di Joyce) e intuizioni non ancora coscienti. Un atto, un traguardo che solo in un secondo tempo si sarebbero trasfigurati nella determinazione definitiva e chiarificata di tutta la sua vita, al punto da racchiudere circolarmente l’arco della sua intera produzione.

Molto è stato detto e scritto della adesione di Dallapiccola alla dodecafonia, e della sua devozione per il mondo della Seconda scuola viennese, per i suoi maestri Schoenberg, Berg e Webern. Le ragioni di questa adesione, gli sforzi puntigliosi per riconoscere i principi attraverso cui essa si realizzò, Dallapiccola li ha spiegati in più occasioni, ma mai con tale pregnanza e chiarezza come nello scritto Sulla strada della dodecafonia (1950). Vi si legge infatti: “”Da molto tempo il sistema tonale dava segni di essere inadeguato a quanto i musicisti avevano urgenza di esprimere: possiamo risalire a Wagner, a Debussy, per trovare grandi Maestri che evadono dalle regole codificate per poter realizzare il loro mondo poetico. Questo movimento di disgregazione del mondo tonale si è fatto sempre più rapido ed ecco sorgere, l’uno dopo l’altro, il politonalismo, l’atonalismo, le scale più diverse, i quarti e i sesti di tono, fino ad arrivare alla dodecafonia che, attualmente, è la soluzione più completa del “”metodo di comporre””. In quanto offre delle basi su cui costruire. Personalmente ho adottato tale metodo perché è il solo che, a tutt’oggi, mi permetta di esprimere quanto sento di dover esprimere””.

Il fatto che la dodecafonia costituisse anzitutto una lingua-base, dotata di sostanza e stabilità, sulle cui leggi innestare la propria personale visione della musica, lo accomunava singolarmente più a Webern (per cui Schoenberg, il fondatore della dodecafonia, era il punto di partenza di una musica tutta protesa verso l’avvenire) che non a Schoenberg stesso, il quale nella dodecafonia come punto di arrivo di un processo nato con la disgregazione e l’esaurimento del sistema tonale identificava un baluardo asceticamente eretto su quell’abisso di vuoto e di disperazione rappresentato dall’esperienza espressionista: esperienza che a Dallapiccola, come a Webern appunto (ma non invece a Berg), fu estranea. Ma se la dodecafonia era la garanzia di valori stabili su cui operare, essa era anche uno “stato d’animo”, un “modo di essere”, dunque un veicolo di libertà per una scelta individuale, dettata dalla fantasia e dalla personalità che crea mossa da una ricerca inesauribile perché infinita; per Dallapiccola è altresì, più concretamente, “”soltanto un mezzo per aiutare il compositore a realizzare l’“unità” del discorso musicale. Se qualcuno dice che la “serie” “garantisce” tale unità, sbaglia di grosso, in quanto in arte nessun artificio tecnico ha mai garantito nulla e I””‘unità”” dell’opera sarà, allo stesso modo che la melodia, il ritmo, l’armonia, un fatto interiore”. Considerazione decisiva, con cui Dallapiccola gettava, a chi sapeva coglierla, una luce all’interno di lui stesso come uomo e come compositore.

La formazione culturale di Dallapiccola, che così profondamente avrebbe inciso anche sulla sua già predisposta natura umana, era avvenuta su due direttrici complementari: a una solida educazione umanistica, radicata nell’infanzia e alimentata nell’ambito familiare (il padre professore di greco e di latino e preside di liceo), poi proseguita per tutta la vita con tenace e intransigente convinzione (ma meglio sarebbe dire, con passione), si era unita col tempo, nel nome della musica, l’attrazione per la cultura e l’arte tedesca, manifestatasi nel periodo dell’adolescenza passato a Graz (1917/18), e di cui il rapporto col teatro musicale di Mozart, Weber soprattutto Wagner costituiva il perno: e l’una e l’altra calate in un’inquietudine fertile e vigile, dovute forse al fatto di essere nato in una città di frontiera (Pisino d’Istria, nel 1904), nel miscuglio di stirpi e di culture che facevano ancora capo all’Impero austro-ungarico. Certo, in quella mentalità inquieta, questo tardivo figlio della civiltà mitteleuropea ormai al tramonto finì per trovare la molla decisiva per non disperdere, pur fra differenti interessi, la lucida coscienza della propria missione di compositore, proseguendo un cammino ideale che aveva avuto un illustre precedente nella figura di Ferruccio Busoni, che Dallapiccola considerava una sorta di nume tutelare, al cui esempio appoggiarsi nei momenti dell’angoscia e del dubbio.

Dubbio interiore, s’intende, non certo originato dalle difficoltà esteriori, che pure furono tante, quando nel 1922 Dallapiccola, trasferitosi a Firenze per continuare gli studi di pianoforte, vi trovò come compositore soprattutto incomprensione e ostilità, e dovette a lungo sopportare l’amarezza dello scherno (vien da credere che il proverbiale spirito fiorentino fosse a quell’epoca in gran ribasso, se si pensa che il motto preferito nei suoi confronti fu per molto tempo legato al gioco di parole dodecafonia-cafone); ma Firenze, cui Dallapiccola rimase attaccato per tutta la vita (e non solo, credo, per le sue pietre e il suo paesaggio, per la ricchezza della lingua e le lapidi dantesche che ne costellano le strade, come amava dire), si rivelò in seguito il luogo ideale per raccogliersi nel lavoro, e il centro da cui Dallapiccola, con l’insegnamento e la viva presenza della sua personalità, avrebbe irradiato un modello di civiltà e di comportamento. Se Firenze divenne in quegli anni quasi una capitale della musica europea, rinverdendo le sue gloriose tradizioni, molto è dovuto alla sua opera e alla sua mediazione.

Conseguito nel 1924 il diploma di pianoforte, Dallapiccola poté dedicarsi più da vicino alla composizione, cui dette senza dubbio grande impulso l’aver udito il 1° aprile di quello stesso anno, a Firenze, il Pierrot lunaire di Schoenberg sotto la direzione dell’autore. Nonostante quella folgorazione, che cadeva su un terreno ancora immaturo ma il cui sigillo si sarebbe impresso in modo indelebile nella sua personalità, le prime opere di Dallapiccola, seguendo alla lontana la moda allora imperante in Italia, partivano dal tentativo di recuperare, in un diatorismo volutamente esasperato, la grande tradizione madrigalistica del Cinque-Seicento (Gesualdo e Monteverdi), piegandola ad una moderna ed espressiva vocalità: e nello stesso tempo miravano a proseguire nella esplorazione, già avviata dai musicisti della precedente generazione, della musica strumentale italiana pre-ottocentesca, e a riaffermare il valore del romanticismo tedesco innestato nell’era classica. Mentre, d’altra parte, già si avviava la conquista dell’impegno umano e civile come contenuto dell’opera, culminante, dopo la prima prova teatrale (Volo di notte, 1937-39), nei capolavori della sua prima maturità, Canti di prigionia (1938-41) e Il prigioniero (1944-48): punti cruciali anche sulla strada della progressiva adozione della tecnica dodecafonica.

Se dovessimo indicare il centro ispiratore della musica di Dallapiccola, non avremmo dubbi: esso è nella funzione del canto come filo rosso, anzitutto interiore, della composizione. E non soltanto per mere considerazioni statistiche, i due terzi della sua produzione contemplando la partecipazione della parola cantata, quanto perché, per Dallapiccola, la musica è canto, e non potrebbe essere altrimenti. Solo che tale canto non si presenta nella forma in cui siamo abituati tradizionalmente a intenderlo, ma sottoposto a un processo di elaborazione che lo rende ora concentrato, ora diluito, ora ridotto all’essenza o dilatato, a seconda del modo in cui i valori prima melodici e poi strutturali nascono e si dispongono, come in un messaggio cifrato, nella serie dodecafonica. A volte accade che la serie già di per sè non sia altro se non nostalgia del canto, che affonda le radici in una specie di romanticismo represso e quasi ghiacciato dalla coscienza razionale della impossibilità di espanderlo, fors’anche di goderlo come tale: eppure, sempre, quel ghiaccio risplende, “”super nivem dealbatur””.

Onde, in consequenziale coincidenza, occorre ribadirlo, la scelta della tecnica dodecafonica e dello stile seriale: sia che li si intenda, secondo la bella immagine di Piero Santi, “”regno della costruzione, dalla quale unicamente può liberarsi l’immagine poetica””, sia, più semplicemente, come Dallapiccola stesso voleva, rifiuto dell’improvvisazione, dell’istinto, persino del dono dell’ispirazione, da lui posseduto come da pochi altri, per accedere a una nuova dialettica dell’articolazione, basata sulla continua trasformazione dei suoni nel divenire musicale. Un nuovo tipo di espressione, appunto, cementato in unità.

Così, se la sostanza della musica di Dallapiccola si concretizza nel canto, nel canto come essenza della musica (la musica è melodica, aveva detto Busoni), la nuova dialettica dell’articolazione seriale funziona da solvente, toccando vertici di virtuosismo puro, ma sempre nella dimensione umanistica di un artigiano della musica, padrone dei suoi strumenti di lavoro e di tutta la parabola creativa dell’opera. Tanto è vero che anche il marcato senso costruttivo, l’ideale architettonico, evidente nei simboli, nei numeri, nei rapporti, nelle simmetrie di cui sempre più col tempo le partiture dallapiccoliane si compiacciono, non rappresentano una schiavitù, o la caduta nel formalismo di una vuota accademia, ma restano un “”mezzo”” che, attraverso la tecnica, serve a puntualizzare lo stile, a imprimere nell’opera il marchio dell’individualità. Spesso la musica di Dallapiccola ricorda una salita per un pendio oscurato da nuvole, che all’improvviso si apre e si illumina: ora, sono queste illuminazioni (il momento in cui tutto dell’opera diventa chiaro, passato presente e futuro) le stelle che accompagnano e indirizzano la via di Dallapiccola, in quella guisa che nel tracciato della sua opera più complessa, e ambiziosa, Ulisse (1960-68), si rende addirittura emblematico.

Dello stile dallapiccoliano, così individualizzato da apparire inconfondibile, la principale peculiarità risiede nell’amore – furioso fino all’inverosimile, prima di placarsi e distendersi nella solidità della forma – per il suono. Un suono inteso non già alla stregua di fenomeno acustico, o idolo materico (la strumentazione per quanto possa essere raffinata, è anch’essa un mezzo, e tende semmai a configurarsi come una orchestrazione assoluta), ma nel senso di una tangibile testimonianza di fede nei valori universali che solo alla musica, e dunque ai suoni, è dato oggettivamente rivelare. In questo senso, pur urgendo in lui il dovere morale e artistico di essere contemporaneo, il suo tendere all’espressione del soprannaturale significa, nel segno impresso dall’individuo come valore eterno, la vittoria sulla storia, la proiezione nel futuro: perché il futuro non sta nel linguaggio, nella materia, ma nello spirito, nell’uomo.

Di qui infine, accanto al rifiuto sdegnoso di farsi cantore della negatività (come il circolo arroccato a Darmstadt predicava, quasi ultima mèta alla musica consacrata), la scomoda e spesso incompresa spiritualità di Dallapiccola, la sua religiosità così poco ortodossa, il suo misticismo (l’illuminazione di Ulisse): tutti idealmente sorgenti dalla serena certezza, come da un cordone ombellicale indistruttibile, della verità delle parole di Schiller intonate dal musicista che egli più amò, Beethoven, nel finale della Nona Sinfonia: “”Brüder überm Sternenzelt / Muss ein lieber Vater wohnen”” (Fratelli, sopra la volta delle stelle deve abitare un caro padre)…

Gioia e luce sono i connotati ultimi della musica di Dallapiccola: musica come espressione e comunicazione di un mondo superiore, sereno e pacificato, liberato dai dubbi e dalle angosce dell’esistenza. Forse solo oggi, ascoltando la sua musica con oggettivo distacco dalle implicazioni dei ricordi, possiamo capire sino in fondo quanto Dallapiccola, dietro quella sua scorza dura, fosse felice e grato di aver puntato lo sguardo così in alto. Non solo per se stesso, ma anche per noi tutti. La composizione a cui attendeva prima di morire, e il cui abbozzo rimase incompiuto sul suo pianoforte la sera del 18 febbraio 1975, si basava su una antica preghiera, le cui prime parole sono: “”O lux, quam non videt alla lux””. C’è una verità, anche negli abbozzi incompiuti.

Piano Time, a. IV, n. 35 Febbraio 1986

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