Conosco Wolfgang Sawallisch da almeno dieci anni. Debbo a lui molte delle esperienze più importanti della mia vita nella musica, che si legano ai ricordi dei miei studi a Monaco, alle continue frequentazioni di quel teatro, a tante sue esecuzioni del repertorio operistico tedesco, di cui Sawallisch è interprete fra i sommi. Ma proprio perché tutto ciò appartiene a una sfera privata, non avevo mai pensato di farne il pretesto per una intervista. Solo che ultimamente, discutendo a lungo con lui in vista di uno studio sulla Tetralogia di Wagner, per cui Sawallisch mi aveva promesso un contributo, mi sono accorto che le sue idee sulla musica e sulla figura del direttore d’orchestra, le sue esperienze e i suoi ricordi, concorrevano a delineare un ritratto d’uomo e d’artista meritevole d’esser conosciuto e divulgato. Perché Sawallisch non è soltanto un grande musicista, ma anche un Kulturmensch nel significato pieno, forse ai nostri tempi di nuovo raro e dolorosamente inattuale, della più pura e illustre tradizione tedesca. Sono grato alla rivista «Musica», fra i cui meriti figura anche quello di aver nobilitato il genere oggi assai decaduto del «colloquio con l’artista», di avermi fornito l’occasione più adatta per questo ritratto.
Sawallisch è nato a Monaco nel 1923, e Monaco non è solo la sua città ma l’ambiente naturale della sua attività. Dal 1971 è Generalmusikdirektor dell’Opera di Stato bavarese, che sotto di lui ha rinverdito i fasti di un passato glorioso legato ai nomi ormai leggendari di Knappertsbusch e Krauss; e nell’82 assumerà la carica di Operndirektor , ossia insieme di sovrintendente, direttore artistico e direttore stabile dell’Orchestra. Ma Sawallisch è assai conosciuto e stimato anche in Italia, che ama come una seconda patria e dove svolge da anni intensa attività, sia in tournée con le sue orchestre (fra cui prima la Filarmonica di Amburgo, poi l’orchestra della Suisse Romande e i Wiener Svmphoniker), sia come direttore ospite: alla Scala, fra il ’65 e il ’75, ha diretto quasi ogni anno nuove produzioni di opere tedesche (Mozart, Strauss e soprattutto Wagner); con l’orchestra della RAI di Roma ha effettuato registrazioni memorabili, fra cui il ciclo beethoveniano del 1970 (per il secondo centenario della nascita di Beethoven) e il Ring integrale del ’68; con l’orchestra romana di Santa Cecilia i suoi rapporti sono tuttora strettissimi. Sawallisch è oggi uno degli ultimi eredi della grande arte direttoriale tedesca, da cui proviene per via diretta, e un interprete eletto, per naturale affinità, del repertorio classico e romantico. Di questa civiltà oggi in gran parte perduta e forse, come egli stesso dice in un passo dell’intervista, definitivamente chiusa, rimane un testimone coerentemente fedele ed amoroso. Ciò costituisce il fascino e la verità delle sue esecuzioni.
Lei incarna oggi uno degli ultimi modelli della figura un tempo gloriosa e sommamente venerata del Kapellmeister. Si sente un Kapellmeister?
Per me, Kapellmeister è tutt’altro che una diminuzione, è anzi un nome molto onorifico, perché significa essere a capo di un’orchestra, di un coro, di un teatro, avere con essi uno stretto rapporto e lavorare continuativamente con quelli e in questo. Questo tipo di attività, che io svolgo all’Opera di Stato di Monaco da molti anni, è naturalmente assai diversa da quella del direttore ospite, e richiede non soltanto la forte dose di responsabilità del capo di un’azienda, un’azienda che nel mio caso produce arte, ma anche una grande disponibilità di forze e di energie, e talvolta anche maggiori compromessi, per il bene stesso e la vita regolare del teatro. Ciò naturalmente non deve mai significare rinuncia a perseguire la qualità massima nei risultati, anzi; ma per giungere allo scopo ci sono strade diverse, e la mia è una strada tranquilla, pratica, meditàta, riflessiva, aliena dalle prese di posizione clamorose, forse anche per la mia natura…
Una natura che l’ha portata a scegliere la musica con un atteggiamento ben preciso…
Ho scelto la musica fin da bambino e già da allora con un orientamento preciso, che si è rafforzato con lo studio e nel lavoro. Per me la musica è anzitutto una professione, un dovere che sento verso me stesso e che cerco di esercitare con la massima intensità in ogni circostanza, con un’acribia e una ricerca della verità che definirei scientifiche. Naturalmente si tratta di una professione artistica, in cui sono molto importanti il talento e le caratteristiche individuali, che nascono dalle sensazioni e dalle emozioni della prima infanzia e poi si sviluppano, approfondendosi, su questa prima base; ma il senso del dovere e della responsabilità di fronte alla musica è stato la mia guida fin da giovane e ho cercato di essergli sempre fedele anche dopo, quando l’aver raggiunto una posizione, un certo nome, quel che si chiama il successo, mi ha messo di fronte a esigenze nuove. Per me è molto importante vivere per una professione, e farne la ragione della propria vita: viverla con serietà e insieme con gioia.
La figura del direttore d’orchestra ha assunto in quest’ultimo secolo un rilievo molto spiccato, fino a prendere, soprattutto nelle giovani generazioni e anche grazie ai mezzi di comunicazione di massa, la forma del divo, del dominatore di folle, che prima era appannaggio dei virtuosi del pianoforte e del violino.
L’importanza del direttore d’orchestra è nata nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto con la musica romantica. Il primo a richiedere espressamente questa nuova figura fu Richard Wagner, e i primi direttori d’orchestra «moderni» furono Hans von Bülow (che inventò l’abitudine di dirigere a memoria) e Hans Richter, ossia coloro che collaborarono alla nascita delle sue grandi creazioni.
Il direttore d’orchestra è diventato sempre più necessario via via che la musica si faceva più complicata, non bastando più, come prima, il primo violino o il maestro al cembalo per guidare l’insieme. Si rese necessario un direttore che coordinasse gli intrecci delle diverse voci e la molteplicità degli strumenti e orientasse la partitura in una certa direzione. Per vanità o esibizionismo, si passò poi a considerare il podio come mezzo di virtuosismo o vetrina per esaltare la propria personalità: ma questo non è un fenomeno solo di oggi, se già nell’Ottocento ci fu chi, per dirigere la Marcia funebre dell’Eroica, pensò bene di calzare guanti neri! Comunque, il grande seguito che la figura del direttore d’orchestra ha avuto e ha nel nostro secolo, e la necessità stessa di questa professione, derivano dal fatto che le partiture sono diventate sempre più complicate; dopo Wagner, sono venuti Richard Strauss, la scuola di Vienna, la dodecafonia, con intrecci ancor più complessi e difficili da sbrogliare; ed oggi, nella musica contemporanea, il direttore deve improvvisarsi anche poliziotto e vigile, servirsi del cronometro e di altri comandi per guidare l’esecuzione di una partitura. Per me il direttore è semplicemente e propriamente un musicista che nella esatta conoscenza della partitura, primo compito a cui è chiamato, e con l’aiuto dei musicisti che gli stanno d’intorno, cerca di raggiungere la più alta misura di qualità da ciò che in queste partiture più o meno complicate è prescritto. E soltanto se riesce a cooperare con tutti questi musicisti e a risvegliare in essi l’entusiasmo e la gioia di suonare insieme, a dare ordine e a far comprendere un concetto musicale, a convincerli dell’esattezza o almeno della coerenza delle sue scelte, soltanto allora credo che il direttore acquisti senso e importanza come tramite fra il compositore e il pubblico, e dia alla sua funzione il valore della vera fedeltà alla musica. Perché compito del musicista è servire la musica, non mettere la musica al servizio di sé, allo scopo di generare l’isterismo delle masse o di appagare aspirazioni esibizionistiche di qualsivoglia natura.
Anche riguardo all’interpretazione si assiste oggi a un fatto curioso, a una moda: sovente si ricerca il nuovo per il nuovo, il sensazionale, lo stravagante, il diverso. E sembra che anche il pubblico richieda all’interprete sensazioni nuove, più che il rispetto della partitura.
Voglio raccontarle un piccolo aneddoto che risale al mio debutto a Filadelfia, con quella magnifica orchestra, quindici, anzi diciassette anni fa. Alla prima prova, si doveva fare l’Eroica, mi trovai di fronte un’orchestra smisurata: 6 trombe, 8 corni, 4 flauti, 4 oboi, insomma tutto raddoppiato. Chiesi meravigliato che cosa ci stessero a fare tutti quei suonatori, e mi fu risposto che in America Beethoven si usava eseguire così, con una grande orchestra. Ribattei che a me bastava quel che Beethoven ha indicato in partitura, 2 flauti, 2 oboi, 2 trombe, 3 corni…
Già, il terzo l’ha introdotto Beethoven… Appunto. Dovetti fare molte correzioni per riportare le parti alla lezione originale, e fui molto osteggiato dall’orchestra (non so se c’entravano anche motivi di occupazione o di pagamento degli orchestrali). La stampa mi criticò aspramente, rimproverandomi che non avevo rispettato la tradizione americana di eseguire Beethoven e che non avevo la mi-nima idea di come si dovesse suonare l’Eroica.
In un’intervista, risposi che a me non interessava affatto la tradizione americana di eseguire Beethoven ma solo la partitura di Beethoven. Non credo che capissero la differenza. Ma per ritornare alla sua domanda: penso che quanto lei afferma sia il frutto di una tendenza che nella nostra epoca è particolarmente acuta, ma non nuova né specifica. Anzi, credo che sia sempre stato così. Quando qualcosa è molto ben conosciuta, allora si cerca il nuovo, un modo diverso di interpretare e di vedere la musica. Questa tendenza non mi meraviglia, anche se oggi, per esempio nell’uso che la musica leggera o di intrattenimento fa della musica cosiddetta classica, si giunge ad eccessi che stravolgono la natura stessa della sostanza musicale. L’importante è che il materiale di base, la realtà musicale, quel che è scritto della partitura, rimanga vivo e inalterato. La base del nostro repertorio sinfonico è la musica classica e romantica, una musica che è stata composta in un’epoca differente dalla nostra: in questo campo, a patto di rispettare la sostanza di quel che ha lasciato scritto l’autore, ogni tentativo d’interpretazione è legittimo se mira a portare a conoscenza e a dare il valore e il significato dell’opera. Tutto ciò fa parte dell’evoluzione del concetto stesso di interpretazione. Sembra un paradosso, ma anche la prassi degli strumenti antichi, il ritorno agli strumenti originali, la ricerca filologica di come suonassero allora queste musiche, appartengono alla stessa tendenza, solo di segno opposto. Ritengo però che la tendenza in entrambe le direzioni, la ricerca del nuovo da una parte e il ritorno dell’antico dall’altra, sia esistita sempre e sempre esisterà.
Quali sono le qualità principali che deve avere un direttore d’orchestra, un interprete?
Per me, come ho già cercato di dire, un profondo rispetto per la lettera e lo spirito originali della partitura che si deve interpretare: la capacità di trasmettere all’orchestra, col gesto e con la mente, la visione personale e soggettiva dell’opera; la facoltà di comunicare attraverso l’orchestra anche al pubblico questa concezione personale.
In che misura un artista è oggi condizionato dall’industria musicale, dai viaggi, dai dischi, dall’immagine pubblica e dalle pubbliche relazioni? Non sente il peso di una vita rigidamente organizzata, prestabilita da anni, che non lascia margine alla fantasia, all’improvvisazione? Vedo sul suo tavolo un calendario che arriva fino al 1990, e la cosa un po’ mi riempie d’invidia, un po’ sgomenta…
Se la cosa la può consolare, i miei impegni arrivano per ora solo all’85… Scherzi a parte, credo che la professione del direttore d’orchestra, a differenza di quella dei cantanti e degli strumentisti che, salvo poche fortunate eccezioni (come Kempff o Rubinstein) subiscono inevitabilmente il processo del tempo, il logorio delle loro forze fisiche, non solo abbia un raggio più ampio, che copre tutta la vita di cui uno dispone, ma raggiunga il vertice solo con la tarda maturità, verso i sessanta o settant’anni. Lei sa che questo stile interpretativo maturo può portare a risultati molto interessanti, gli esempi non mancano. Saper resistere ai condizionamenti dell’industria musicale è oggi molto difficile, ma fa parte dei compiti dell’artista nella nostra epoca. Per me, faccio un esempio, il disco è una cosa che passa lasciandomi sempre insoddisfatto. Nel momento in cui il disco è finito, io sono un altro, e anche la mia interpretazione è un’altra. Lo stesso può non accadere per un cantante o uno strumentista, perché quello può essere veramente il punto più alto della sua interpretazione, il momento in cui tecnicamente o fisicamente raggiunge il massimo, e non potrà mai più fare meglio. Lei capisce, vero? Per il direttore è diverso, non ha questi limiti imposti dalla natura. Ed è perciò più difficile, molto piiù difficile. Programmare per anni la propria attività, consento con lei, è un condizionamento, necessario però per migliorarsi: una pena, se vuole, legata all’odierna incidenza dei mezzi di comunicazione di massa.
Che limitano dunque la libertà…
Si, limitano la libertà, ma aiutano anche a scegliere per andare avanti. In ogni parte della vita si ha una determinata simpatia o affinità per un’epoca, uno stile, un compositore, una singola opera. Ma anche l’amore per l’opera cambia, e con esso l’atteggiamento di fronte alla musica. Io per esempio per anni ho nutrito una vera adorazione per la Quinta Sinfonia di Prokofiev, che consideravo un capolavoro ed eseguivo sovente. Poi una volta udii ad Amburgo un’esecuzione della Cleveland Orchestra diretta da Georg Szell, un’esecuzione più che perfetta, veramente fenomenale. Ebbene, quella sera ho perso ogni piacere per quest’opera, ho capito che non era possibile fare meglio, e non l’ho mai più diretta. Questo accadeva almeno quindici o vent’anni fa. Il direttore ha la possibilità di organizzarsi, di progettarsi, di scegliere, non deve diventare schiavo del successo o della propria professione. Per questo io riservo ogni anno quattro settimane al riposo e non prendo per quel periodo nessun impegno. Cerco di concentrarmi su me stesso, di riflettere, di realizzare così la mia fantasia e la mia libertà, di esercitare il mio senso di responsabilità, per portarlo poi anche nel mio lavoro.
Per queste ragioni lei ha inciso relativamente pochi dischi, soprattutto in questi ultimi anni.
Proprio così, anche se ultimamente è uscito Intermezzo di Strauss e ho appena finito di registrare Arabella. Quanto alle vecchie incisioni, non mi riconosco molto nei dischi che ho inciso in studio, oggi la mia interpretazione sarebbe diversa e probabilmente migliore. Preferisco invece le mie registrazioni dal vivo, per esempio quelle di Wagner a Bayreuth, perché esse rendono la realtà vitale di quel momento e di quella esecuzione, col pubblico e tutto il resto. Sono molto favorevole alle incisioni dal vivo, e penso che in futuro ne realizzeremo anche qui a Monaco.
Nel 1982 lei diventerà Operndirektor dell’Opera di Stato di Monaco, ossia, oltre che direttore musicale e stabile dell’orchestra, anche sovrintendente. Quali sono i suoi progetti?
Il mio primo progetto è di rafforzare in ambito internazionale il riconoscimento e le tradizioni del nostro teatro, allo stesso tempo mantenendo il carattere speciale, la nota particolare e distintiva di questo teatro. Vorrei che si potesse tornare a dire: questa è l’Opera di Monaco. Dopo la guerra, ai tempi di Knappertsbusch e Krauss, che ho vissuto di persona, Monaco aveva un segno specifico, una sua Stimmung, un suo repertorio fondato sull’opera tedesca, una sua compagnia stabile di altissimo livello. Oggi le condizioni sono molto diverse, è difficile legare direttori e cantanti a un solo teatro, anche il pubblico è cambiato, ma ritengo che un teatro come il nostro non possa tradire le sue tradizioni.
Non mancheranno naturalmente le grandi produzioni, il repertorio sarà ampliato, continueremo ad ospitare i maggiori cantanti e direttori, come è sempre stato fatto, ma non bisogna dimenticare che il nostro è un teatro stabile e non stagionale, che deve unire la massima qualità artistica a una ben precisa funzione di continuità e di stabilità anche nelle compagnie. Solo ridando all’Opera di Monaco la sua identità sarà possibile estenderne il prestigio a livello internazionale. E solo allora sarà possibile pensare ad esportare le nostre migliori produzioni altrove, in Germania e all’estero, e favorire gli scambi con gli altri teatri, come accadeva a Vienna all’epoca di Karajan. Quest’ultimo progetto mi sta molto a cuore, e in questo senso sono già stati avviati contatti anche con la Scala di Milano e il Maggio Musicale Fiorentino.
Monaco è la città dove Lei è nato e ha compiuto gli studi. Cosa ricorda con più piacere della sua giovinezza?
Ricordo con molto piacere il periodo immediatamente prima della guerra. A sedici anni, ossia nel ’39, facevo parte di un gruppo di giovani che si occupava di compiti culturali e specialmente musicali alla radio bavarese, che allora era ancora un’emittente del Terzo Reich. Avevamo optato per una specie di servizio sociale anziché strettamente militare, ed eravamo stati scelti dopo un severo esame. Suonavamo, cantavamo in coro (fu così che conobbi a fondo la letteratura polifonica del Cinque e del Seicento), facevamo vita in comune e molte incisioni. Per me fu un’esperienza fantastica, in tutti i sensi. Fu lì che conobbi mia moglie.
Lei ha studiato privatamente, non in Conservatorio.
Esatto. Ho cominciato a studiare il pianoforte a cinque anni, per diventare un concertista. In Conservatorio ho solo finito i miei studi. Lavoravo già ma mi mancavano i pezzi di carta; così, appena finita la guerra, mi iscrissi per tre mesi alla Hochschule di Monaco, che allora era ancora distrutta, e presi i miei diplomi.
Intanto però aveva già deciso di fare il direttore d’orchestra. Con la complicità di Hänsel und Gretel, mi pare…
Sì. I miei avevano un abbonamento al Nationaltheater di Monaco, e a undici anni fui portato a sentire Hänsel und Gretel. Era la prima opera che vedevo, e quella sera nacque non soltanto la passione per la direzione, ma anche l’amore per il teatro, che non mi ha mai più abbandonato.
Hänsel und Gretel è stata la prima vera opera che ho diretto, ad Augsburg nel ’47, dopo molte operette.
Quali sono i suoi ricordi dei grandi del passato, Toscanini, Walter, Furtwängler, Knappertsbusch…
Conosco Toscanini e Walter soltanto dai dischi. Di Furtwängler invece ho sentito molti concerti dal vivo con la Filarmonica di Berlino, a Monaco, ma non l’ho purtroppo mai conosciuto di persona. Ricordo che quando fui invitato a dirigere per la prima volta la Filarmonica di Berlino, nel ’53, mi riferirono che Furtwängler aveva espresso il desiderio di conoscermi. A quel tempo era però già malato, e non fu possibile combinare una visita. Dopo la sua morte, fui invitato a dirigere la cerimonia funebre in suo onore, una cosa che mi commosse molto.
Knappertsbusch invece l’ha conosciuto personalmente, e bene…
L’incontro e la collaborazione con Knappertsbusch a Bayreuth sono state una delle più belle esperienze della mia vita, benché ricordi con altrettanto piacere i miei contatti con altri direttori più anziani di me e a cui mi sentivo legato da una profonda affinità, come Pierre Monteux, Sir John Barbirolli, Ernest Ansermet. Knappertsbusch era una personalità straordinaria, un uomo sensibilissimo e delicatissimo oltre che un grandissimo artista. Il suo proverbiale carattere difficile e duro nasceva,dal fatto che era criticissimo e rigorosissimo verso se stesso, e questo lo portava a schermarsi dietro un fare burbero e scontroso, talvolta sarcastico. Ricordo con commozione un episodio avvenuto in occasione del mio debutto a Bayreuth con l’Olandese volante, nel ’59. Sapevo che alla prova generale avrebbe assistito Knappertsbusch, al cui nome era legata una memorabile produzione dell’Olandese in quel teatro: ricordavo ancora i suoi tempi pastosi, le sue sonorità incredibili, e si può dunque immaginare quale fosse il mio stato d’animo. Deve sapere che all’interno del teatro di Bayreuth Knappertsbusch aveva una stanza sua personale, che si trovava subito all’uscita della fossa d’orchestra, a metà di una scala: uscendo dal golfo mistico, bisognava per forza passare di li. Finita la prova, scattai via come un lampo: l’idea di un incontro e di un confronto in quel momento mi atterriva. Fatti pochi passi, alzai la testa: Knappertsbusch era lì ad attendermi, davanti alla porta della sua stanza, grande e infinitamente lungo com’era. Io, piccolo piccolo, rimasi inchiodato un gradino sotto di lui, senza poter andare né avanti né indietro. Ricordo che pensai: «E adesso, apriti cielo!» Knappertsbusch mi guardò fisso, e senza dire niente mi prese fra le braccia; poi, battendomi sulla spalla, disse semplicemente: «Bravo». E se ne andò. Quella semplice parola, che non avevo mai udito uscire dalle sue labbra, fu per me una lode sensazionale e inattesa; da quel momento posso dire che diventammo veramente molto amici, nonostante la differenza di età che separava un giovane Kapellmeister come me da un artista della sua grandezza, che veneravo incondizionatamente. Fino alla sua morte fummo molto legati, ci incontrammo sovente, collaborammo insieme a Bayreuth e altrove, lui accettò di dirigere la mia orchestra ad Amburgo, discutemmo di musica e di interpretazione con grande intensità. Quello è stato uno dei periodi più belli della mia vita, un periodo veramente importante per me.
Lei è considerato un interprete ideale della musica del secolo scorso, un guardiano della grande tradizione classica e romantica, e per questo la si accusa di essere un conservatore, perfino nemico della musica contemporanea. Se lei va a rivedere i programmi dei miei concerti di venti o trenta anni fa si accorgerà che ho diretto un numero enorme di prime esecuzioni assolute di musiche contemporanee, in Germania e fuori. Subito dopo la fine della guerra mi sono buttato con fuoco nello studio delle partiture di musicisti che il Terzo Reich aveva messo al bando e che nella mia giovinezza non avevo potuto conoscere, parlo di Strawinsky, Bartók, Hindemith, Berg, Schönberg, Webern e così via; ho cercato di entrare in contatto diretto con questi musicisti, alcuni dei quali erano ancora viventi, e ho diretto le loro opere sovente e con piacere. Oggi questi musicisti sono diventati dei classici moderni. Allora si diceva che Sawallisch era un protagonista della musica contemporanea, oggi si dice che è un conservatore. Lei sa meglio di me che queste sono etichette stupide che non mi interessano. Dico soltanto, a titolo di parere personale, che negli ultimi quindici anni la musica contemporanea ha imboccato strade che oggi sono già state in gran parte abbandonate, che esistono molte tendenze e anche assai diverse fra loro (basti pensare a quello che è oggi la musica contemporanea nell’Europa dell’ovest e in quella dell’est), ma che la strada non è stata ancora trovata. Io sono un direttore, non un compositore: il mio compito è eseguire la musica.
Non ho difficoltà ad ammettere che una parte della musica d’oggi, quella musica che riduce i suoni a rumori, strepito, esplosioni dinamiche di pure frequenze, e che esalta il disordine e il caso, non mi dice nulla, non mi dà niente, disturba i miei orecchi. E la musica di tutti i giorni, un’espressione della nostra epoca, mentre l’arte per me, ma credo anche per la maggioranza del pubblico, è qualcosa che va oltre l’esperienza di tutti i giorni, qualcosa di spirtuale, un’immagine compiuta, che nasce già con l’impronta del classico. Essa deve costituire un’esperienza eccezionale e fuori del comune, rappresentare e realizzare un mondo di idee e di sentimenti attraverso la forma e il linguaggio. O almeno deve darmi e dirmi qualcosa; e per far questo, sia ben chiaro, non occorre affatto che sia espressa in do maggiore o in fa minore.
Infatti questo linguaggio tradizionale è morto.
Senza dubbio. Quel che noi chiamiamo la nostra musica occidentale ha avuto quattrocento anni di vita e ha rappresentato una grande epoca nello sviluppo dell’umanità e dell’arte, che in musica è stata resa possibile dall’identità di un linguaggio, più o meno ampliato.
Bisogna avere il coraggio di riconoscere che l’epoca dei grandi avvenimenti spirituali e interiori è finita, è finita una civiltà, e noi ci troviamo in un’età di passaggio, l’età della tecnica, dei computers, dell’elettronica…
Lei è contento di vivere in quest’epoca?
Assolutamente no. Nessuno può scegliere l’e-poca in cui vivere, questo è ovvio: io cerco di vivere in essa, di capirla, e dunque anche di capire gli odierni indirizzi della musica con-temporanea. Senza però forzare i limiti della mia comprensione. Rispetto l’opera altrui, perché capisco che oggi i compiti di un compositore sono davvero terribili. Mi conforta vedere che l’interessamento dei giovani per la musica è in continua ascesa, e assai più partecipe e aperto di quello di una volta, anche per la musica di quello che noi impropria-mente chiamiamo il passato.
Lei ha mai composto?
Sì, durante la guerra, quando ero prigioniero in un campo di concentramento inglese a Tuturano, presso Bari. Vi rimasi sei mesi, dall’aprile all’ottobre del ‘45. Passavo le mie giornate componendo, alcuni Quartetti per archi, ,an Concerto per pianoforte, una Fantasia, e perfino una Sinfonia, che baldanzosamente intitolai «Prima Sinfonia».
Grazie al cielo, rimase anche l’ultima. Non avevo alcun talento per comporre. I miei modelli erano allora Beethoven, Brahms, Bruckner. Da allora non ho mai più composto.
Da molti anni lei torna con regolarità a diri gere in Italia. Questo suo amore per l’Italia è dovuto a quella «Sehnsucht nach Italien», che è sentimento germanico se mai ve ne fu oppure nasce da ragioni più professionali?
La nostalgia non soltanto per il paese ma anche per i suoi abitanti esiste ed è forte, ma si lega alla gioia per me sempre grande di fare musica con le orchestre e i musicisti italiani, e per il meraviglioso pubblico italiano. Credo che colui che in Italia sceglie la musica come professione la eserciti poi con particolare amore e comprensione, e che certe qualità, come la fantasia, l’intelligenza e soprattutto la naturale disposizione al canto, facciano dei musicisti italiani dei collaboratori ideali. Queste qualità mi colpirono già trent’anni fa quando venni per la prima volta in Italia e mi affascinano ancora oggi, anche se la situazione organizzativa delle istituzioni musicali in Italia, come purtroppo anche altrove, è col tempo cambiata. Considero le mie presenze alla Scala come direttore d’opera e a Roma con le orchestre di Santa Cecilia e della RAI (quest’ultima è stata fino a dieci anni fa un’orchestra davvero superba) fra le esperienze più alte e proficue della mia vita. Sono passati ormai molti anni, ma spero che i miei impegni a Monaco mi permettano di continuare a tornare a Roma e anche alla Scala, dove con Siciliani abbiamo avviato interessanti progetti…
Il suo rapporto con la Scala fu bruscamente troncato sei anni fa per le note vicende del Ring , che lei si rifiutò di portare a termine per dissensi con il regista Ronconi. Ciò fa sorgere spontanea la domanda circa il suo pensiero sul problema della regia musicale, oggi così spiacevolmente invadente: o meglio sulla tirannia esercitata dai registi nel mondo dell’opera.
Rifiutai di portare a termine il Ring perché non condividevo l’impostazione e le scelte registiche di Ronconi, come non condivido quelle realizzazioni registiche che vanno contro la musica, impedendole di trovare sulla scena il suo spazio e il suo respiro vitale. Detto questo, voglio aggiungere che non vorrei essere un regista oggi. Il musicista ha pur sempre la partitura con cui fare i conti, e cioè una realtà che si può interpretare in modi di-versi ma non mutare nella sostanza. Per il regista è diverso, il contatto con l’opera d’arte è meno immediato, ci possono essere molte strade di realizzarla. Oggi queste strade seguono indirizzi sociologici, politici, storici, soprattutto per Wagner, e questa è diventata una moda generalizzata, uno specchio del gusto del nostro tempo inquieto e insoddisfatto. Si abbattono i modelli, si tengono per banali o invecchiate le indicazioni dell’autore, sovente si cerca il nuovo per il nuovo, si sovrappongono idee astratte alla verità dell’opera. Ogni epoca ha la sua visione della «verità», nessuna idea è preventivamente da scartare, quel che conta è il modo in cui è realizzata. Nell’opera bisogna fare i conti con la musica, ma quale regista conosce oggi la musica ed è in grado di capirne il ruolo? Ben pochi. Una scuola in questo campo non esiste più, mancano le grandi personalità. Penso che questa moda, di cui siamo tutti corresponsabili, artisti, pubblico e critica, rischi di portare alla distruzione del teatro. Per parte mia, come musicista chiedo che la regia aiuti la musica ad agire sulla scena, a trovare il suo spazio e la sua comunicazione; come direttore artistico e musicale, ma questo a Monaco potrò cercare di ottenerlo solo dall’82, un più stretto controllo sulla scelta dei registi e un accordo preventivo fra tutti i realizzatori dello spettacolo. Ognuno deve prendersi le sue responsabilità colui che ingaggia l’artista come l’artista che accetta l’ingaggio. Ma temo che non avrò vita facile, proprio per le ragioni che ho detto prima.
Oltre che come direttore d’orchestra, lei svolge una intensa e apprezzabile attività come pianista nella musica da camera e nei recitals di Lieder. Che cosa significa per lei questa attività, e in che misura giova al direttore?
Questa attività ha per me un’importanza che definirei esistenziale. Per esprimersi il direttore ha bisogno della collaborazione di una grande massa di persone, un’orchestra, un coro e così via: sono loro che realizzano le sue intenzioni. Come accompagnatore, posto che uno abbia le qualità tecniche per farlo, sia cioè un buon pianista, si lavora direttamente con il cantante, si ha la possibilità di realizzare la musica insieme, per così dire a quattr’occhi e in prima persona. Lavorando, come ho la fortuna di fare io, con artisti straordinari come Fischer-Dieskau, Peter Schreier, Hermann Prey, si impara non soltanto l’arte e la tecnica del canto – in un certo senso si impara a cantare – ma anche quali sono i problemi del cantante e dell’accompagnamento di un cantante, e naturalmente tutto ciò aiuta molto quando si è sul podio. Lo stesso vale per la musica da camera, che amo e faccio moltissimo: fare musica in tre, quattro o cinque musicisti legati da medesimi scopi, lavorare su un pezzo e giungere a realizzarlo direttamente, senza la mediazione di forze esterne, è un’esperienza che considero la più vicina al cuore della musica.
Lei parla di Fischer-Dieskau, ed è detto tutto. Ma esiste una crisi di cantanti fra le giovani generazioni?
Sulla base delle mie esperienze, posso risponderle tranquillamente di no. Il punto è un altro: quel che sovente manca è un periodo di normale formazione, una crescita graduale e controllata, la scelta oculata del repertorio. Oggi per un cantante è molto più facile rimanere stritolato nei meccanismi dell’industria musicale, e andare così allo sbaraglio. I tempi accorciati – lei sa che col Concorde in tre ore si va da Parigi a New York – e la rapidità della nostra vita consumano presto e male, se non si presta attenzione. La voce è un organismo molto prezioso e complicato, e bisogna saperlo usare con prudenza. Il miracolo della voce di Fischer-Dieskau, ancora oggi dopo quarant’anni di carriera, è anche il miracolo della sua intelligenza, oltre che di una assoluta conoscenza del suo organo: occorre sapersi amministrare con grande prudenza, anche nella vita personale.
Un’artista della sua esperienza potrebbe dare molto ai giovani direttori d’orchestra con l’insegnamento. Ha mai pensato di farlo?
Ho insegnato molto tempo fa alla Hochschule di Colonia, per quattro anni. Credo che l’insegnamento in questa forma non mi si addica.
Ma si può insegnare la direzione d’orchestra? E la cosiddetta tecnica?
Non lo so. Non credo molto ai corsi di direzione d’orchestra in cui si insegna la cosiddetta tecnica, anche perché la tecnica deve nascere dalla musica e servire a realizzare nel modo più semplice e adatto, sempre personale, quello che la musica suggerisce. E’ molto più importante e proficuo, per esempio, assistere alle prove di un concerto o di un’opera, vedere come si lavora nella realtà con un cantante, un’orchestra, un insieme di persone, e cercar di capire come si giunge a un certo risultato, e perché, oppure viceversa quello che non va, gli errori che uno fa. Anche gli errori sono una buona scuola. Io stesso ho imparato a dirigere assistendo alle prove e alle esecuzioni dei grandi, come Krauss, Knappertsbusch, Furtwängler, Klemperer, e soprattutto studiando e dirigendo. Se uno ha qualcosa da dire, trovare il mezzo per trasmetterlo viene da sé.
Qual è il suo metodo di studio? Al pianoforte?
No, mai al pianoforte, solo attraverso la lettura, con gli occhi. Cerco di concentrarmi al massimo e anzitutto di sentire dentro di me come suonano le armonie, gli intrecci polifonici, la funzione della linea del canto. Leggendo la partitura cerco di sentire la musica attraverso il mio orecchio interiore. Il ritmo viene dopo, è una lettura di tipo lineare che articola e scioglie il processo compositivo, si realizza in gran parte quando provo cor l’orchestra. In quel momento è assolutamente necessario che io sappia con esattezza e senta dentro di me come deve suonare la musica, quali combinazioni sonore si producono e quale è l’esatto equilibrio delle parti. Il gesto con cui realizzo questa percezione interiori viene quando sono di fronte all’orchestra, non me ne preoccupo mai prima. Il gesto pii efficace, e anche il più bello, è quello più sem plice; per renderlo tale sovente si deve cambiare, si può sempre migliorare. E migliorare significa ancora una volta renderlo più sem plice e naturale, più aderente alla musica Questo è il mio metodo di studio, fin da quando ho cominciato questa professione.
Musica, n. 21, a. 5, Giugno 1981