Mehta l’indiano

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Ci sono direttori che costruiscono la propria carriera lentamente, passo dopo passo, con l’applicazione e con lo studio, e direttori che s’impongono di colpo, quasi a prima vista, in forza dell’evidenza perentoria del talento. Zubin Mehta appartiene interamente a questa seconda specie. Anzi, non si potrebbe dare esempio più istruttivo di tale fenomeno. A Mehta la natura ha dato in dono tutto; e non soltanto per quanto riguarda musicalità, orecchio, memoria, capacità espressiva, bellezza, eleganza ed efficacia di gesto. La simpatia e l’umanità sono doti in lui altrettanto naturali; e forse anche più importanti quando si tratti di determinare le ragioni del suo successo tanto folgorante quanto incondizionato presso le orchestre e i pubblici di tutto il mondo, ieri come oggi. Perché queste qualità sono rare anche negli artisti più grandi.
Da questo punto di vista Firenze, il suo teatro, è stato per anni, e continua ad essere, un osservatorio privilegiato dell’attività di Mehta. E non soltanto perché egli vi ricopre la carica di direttore ospite principale. Questo titolo è tutt’altro che accademico e va ben oltre la presenza, se non continuativa certo regolare, di Mehta direttore di concerti e di opere al Maggio Musicale (quest’anno, per esempio, addirittura due opere – Il trovatore e Don Giovanni – e un concerto). Il legame che si è venuto a creare con Firenze è la conseguenza di una reciproca attrazione e comprensione sulla base di valori umani non meno che artistici, alle cui radici stanno il calore e l’entusiasmo di cui Mehta fu circondato fin dalle sue prime apparizioni a Firenze (era allora un giovane direttore alle prime armi) e che vennero ribaditi in un lungo periodo di esperienze esaltanti (la Tetralogia di Wagner soprattutto) e di «crescita» in comune. Firenze fu un trampolino di lancio per Mehta. Ma quel che più conta nel nostro caso – in un mondo sempre più avaro di gratitudine e di sentimenti – è che Mehta, anche dopo essere diventato un artista conteso dai teatri e dalle orchestre di tutto il mondo, non abbia dimenticato quell’apertura di credito nei suoi confronti in anni per lui decisivi e l’abbia saputa ricompensare con generosità e affetto sempre più grandi e disinteressati. E chiunque conosca Mehta sa che questo lato del suo carattere lo rende addirittura irresistibile. Mehta l’indiano. Mehta il viennese. Mehta l’europeo. Mehta l’americano. Sono queste le tappe di una carriera che ha collocato Zubin Mehta ai vertici fra i direttori del nostro tempo. Nato a Bombay nel 1936, formato alla musica dal padre violinista e direttore d’orchestra (ancora oggi Zubin ama ripetere che come direttore suo padre è molto più bravo di lui), fedele alle tradizioni e alla religione dei padri con dedizione assoluta (e ciò ha segnato la sua vita fin dagli inizi, nel rispetto dei valori spirituali e dell’impegno civile), Mchta si è perfezionato a Vienna nella scuola prestigiosa di Hans Swarowsky, avendo come compagno di studi Claudio Abbado.
Di quegli anni di apprendistato (ché tali erano soprattutto per lui, catapultato nel centro della tradizione musicale europea a lui fino ad allora sconosciuta), Mehta serba ricordi meravigliosi: come di chi si trovi di fronte a un mondo nuovo, nel cuore della musica e dei suoi massimi autori, a contatto con le più grandi figure di interpreti, stregato prima di tutto da Karajan, il suo idolo di allora. Il grande Swarowsky ricorda di non aver mai avuto un allievo così prepotentemente dotato e ricettivo, esuberante e spontaneo, come Mehta. Gli mancava una certa cultura; ma bastarono quei pochi anni di Vienna a colmare la lacuna e a fare di Mehta un direttore eletto del repertorio classico e romantico e di quello «viennese» in particolare.
Con Claudio Abbado, divenuto nel frattempo suo grande amico, Mehta partecipò nel 1963 al concorso internazionale Mitropoulos di New York. Vinse Abbado, e Mehta arrivò secondo: ma Abbado per primo riconobbe che il premio sarebbe dovuto andare al suo collega. Amicizia a parte, era anche quello un segno della considerazione e della simpatia di cui Mehta era circondato: invidie e gelosie non sembravano proprio possibili nei suoi confronti. Al modo solare, franco e disinibito con cui quell’indiano di straordinario fascino affrontava la musica e le orchestre, non era possibile non aderire, impossibile non entusiasmarsi al suo carisma. Così, già nel 1960 Mehta fu assunto come direttore associato dell’Orchestra Filarmonica di Los Angeles, un complesso di cui presto divenne direttore principale e che con lui si sarebbe fatto conoscere in tutto il mondo. Era l’inizio dell’avventura americana, che tuttora prosegue con un’altra grande orchestra, quella di New York. Intanto, tra l’Europa e l’America, un altro punto fermo di particolare significato e impegno si era venuto stabilendo nell’attività per mantenere in vita e migliorare l’Orchestra Filarmonica di Israele, un’istituzione che a Mehta deve molto anche come immagine internazionale. Ed è una presenza simbolica, di cui tutti, oggi più che mai, abbiamo bisogno.
Mehta è un direttore istintivo. Nel senso che tutto da lui appare risolto con immediatezza e naturalezza.
La capacità di realizzare e comunicare con il gesto – un gesto chiaro e incisivo, per quanto personalissimo ed estremamente elegante – le sue intenzioni all’orchestra è una virtù che Mehta possiede in altissimo grado, per innata predisposizione. Anche nelle partiture più intricate, ogni passaggio, ogni frase, ogni collegamento con l’insieme, si presenta nel modo più spontaneo e semplice. Con lui tutto appare facile. Alle orchestre dà sicurezza; anche se chiede più collaborazione che sottomissione. Alle prove non parla molto, e non ama spiegare con discorsi ciò che desidera ottenere; semmai preferisce sdrammatizzare con una battuta di spirito una difficoltà concreta, e capire subito dopo come vada affrontata. E allora è sufficiente cambiare un attacco, modificare il tempo o aggiungere una suddivisione per superare l’ostacolo. La sua intuizione ha del prodigioso: lui capisce sempre un attimo prima degli altri come stanno le cose. Ma poi mette la sua esperienza a disposizione di tutti, per facilitarne il compito. Soprattutto non è tipo da darsi delle arie per la sua bravura.
Col tempo, Mehta ha affinato quella che da sempre è stata una sua qualità speciale: la sensibilità per il suono. Nella quale molta parte ha la sua estrazione violinistica, la sua predisposizione per il canto e per il fraseggio arioso, per così dire di ampie arcate. Anche in ciò si rivela l’inclinazione ad affrontare la musica come fatto prima di tutto espressivo, vivo e palpitante, rivolto alla comunicazione e alla suggestione diretta.
Da alcuni ciò è considerato un limite, una sorta di rinuncia all’approfondimento strutturale e alle «problematiche», i miti della nostra epoca. Ma so già come Mehta risponderebbe a queste obiezioni: la musica è soprattutto gioia di vivere, e come tale va affrontata, portando in superficie anche gli aspetti più oscuri, più inquietanti, più irrisolti o enigmatici per dare ad essi, liberandoli, un valore. L’arte, tutta l’arte, non serve a negare, ma solo ad affermare e a testimoniare la molteplicità dell’esistenza, in tutte le sue sfaccettature. Ma sempre con un segno positivo, esplicitamente luminoso, quanto più possibile brillante ed estroverso. Ecco il segreto di Mehta: un uomo semplice, un lavoratore instancabile, un musicista completo, un interprete capace di entusiasmarsi e di entusiasmare.

Mantova Musica, n. 13 a. IV, Gennaio – Aprile 1990

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