Non solo lei, Leonora. Ma tutti i personaggi vivono in una condizione di plastica monumentalità, adatta ad accogliere il contenuto morale che la musica di Beethoven vi innesta. Così è stato per le regie della tradizione romantica, per quelle politicizzate del dopo Auschwitz, per le “pessimiste” degli ultimi anni. Solo Strehler ha meditato sulle ragioni puramente teatrali dell’opera
Fidelio, l’unica opera teatrale di Beethoven, è anche un’opera del tutto sui generis. Formalmente appartiene al genere del Singspiel, alterna cioè parti recitate in prosa a parti cantate; ma, a differenza per esempio del Flauto magico di Mozart, le parti parlate non hanno alcuna rilevanza nella trama e nei suoi sviluppi, rimangono per così dire esterne al dramma, puramente esornative: e dunque non configurano affatto lo spessore di uno spettacolo misto di musica e prosa. Stilisticamente si ricollega alla tradizione della pièce à sauvetage francese degli anni della rivoluzione, in cui i rappresentanti delle forze del bene trionfavano dopo aver subito ingiuste persecuzioni e dopo romanzesche peripezie; ma in Fidelio assistiamo a una situazione bloccata all’interno di una prigione oscura, le peripezie romanzesche di contorno sono del tutto assenti e la vicenda si articola in una successione di eventi staccati, che dalla dimensione iniziale di un idillio borghese (Marcellina e Jaquino, Rocco, la presentazione di Leonora/Fidelio) sfocia senza mediazione nell’atmosfera fosca di una tragedia dell’oppressione, trovando alla fine la salvezza da uno stato di estremo pericolo grazie a un provvidenziale intervento esterno, da intendersi oltretutto non come semplice colpo di scena teatrale ma come affermazione di valori etici universali (gli squilli di tromba fuori scena che interrompono l’azione al suo acme e annunciano l’arrivo del liberatore). Solo il quadro finale, nel quale il ministro Don Fernando afferma i valori della giustizia e della ragione lanciando un messaggio di pace e fratellanza, esplicita i nodi della vicenda, per così dire li drammatizza, compiendo un gesto finalmente di teatralissimo effetto nello scioglimento delle catene di Florestano (non più metaforico, ma reale) da parte dell’eroina femminile Leonora, tornata simbolo dell’amore coniugale dopo aver smesso i panni maschili posticci di Fidelio. La gioiosa celebrazione finale assurge al rango di trionfale incarnazione dei principi del bene e della felicità, sia pure in una prospettiva tanto onnicomprensiva da apparire apertamente utopica.
Opera di stampo essenzialmente oratoriale, contestuale al suo messaggio, psicologicamente univoca (caratteri plasticamente definiti, sbalzati, a tutto tondo) e fatta di dissolvenze incrociate più che di azioni linearmente sviluppate, Fidelio vive sulla scena di una robusta, massiccia concretezza monumentale, specchio, più che di una drammaturgia autonoma, di una tensione e distensione propriamente, interamente musicali, sinfoniche. Rappresentarlo è perciò al tempo stesso apparentemente facile e difficile: facile perché la scena-contenitore prescrive già di per se stessa gli atti e i gesti che in essa debbono aver luogo, senza lasciare troppi margini all’invenzione (per di più, si tratta spesso di atti e gesti statici, in sé compiuti e per così dire pregni di contenuto: tanto nei duetti quanto nelle arie). Difficile perché il contenitore rischia di rimanere un involucro vuoto ove non sia riempito dalla musica, non trovi un corrispettivo di questa, non sia quindi all’altezza della sostanza etico-utopica che la pervade: e questa, per riuscire comprensibile, deve continuamente riverberarsi, per così dire invadere e animare la scena. In altri termini, la temperatura espressiva imposta dalla musica è determinante anche per la realizzazione scenica: e si tratta veramente di una questione di clima, di atmosfera, più che di continue corrispondenze convenzionalmente teatrali.
Fidelio non è un’opera di regia, ma semmai di scenografia: di una scenografia nella quale sia già contenuta un’idea registica. Per tutto l’Ottocento l’immagine scenografica di riferimento fu costituita dai disegni e dalle incisioni delle Carceri di Giovan Battista Piranesi, che con la loro mescolanza di realistico, capriccioso e grottesco individuavano un gusto barocco-illuministico, al tempo stesso d’invenzione e di concretezza storica, adatto, con numerose varianti, a contrassegnare le prigioni, reali e metaforiche, del Fidelio. Seguì un’epoca, agli inizi del Novecento, nella quale la tendenza al razionalismo geometrico investì tutto il teatro musicale di sperimentazioni le più diverse, d’avanguardia, puntando anche a individuare nell’opera una dimensione atemporale, astratta e simbolica, di puri valori luministici e atmosferici. Il messaggio in essa contenuto veniva così reso universale, come una lotta di ideali tra principi opposti, buona per tutte le epoche e tutte le stagioni: la lotta tra il bene e il male. Gustav Mahler, che già nel 1895 ad Amburgo aveva inaugurato l’abitudine di inserire l’ouverture Leonora n. 3 tra il primo e il secondo quadro del secondo atto, affidò al grande Alfred Roller il compito di presentare l’opera a Vienna nel 1904 come un inno di liberazione: protagonisti nella loro visione non erano Leonora e Florestano, ma i prigionieri anonimi e oppressi, che dalla disperazione di un destino senza futuro a poco a poco prendevano coscienza della loro funzione rigeneratrice di arbitri della giustizia e dell’umanità.
Per molto tempo Fidelio è apparso essenzialmente come un messaggio di speranza e di fede nell’uomo, rispondente a ideali che erano nati con la rivoluzione francese ed erano poi stati fatti propri dal romanticismo. Ma come mettere in scena Fidelio dopo Auschwitz? Questa domanda ha pesato come un macigno sulle interpretazioni soprattutto di area tedesca degli ultimi cinquant’anni. Registi impegnati ideologicamente come Götz Friedrich, Harry Kupfer, Johannes Schaaf e altri più o meno epigoni hanno puntato il dito con fermezza su una identificazione storica nella quale l’allegorica vicenda beeethoveniana diventava decisa presa di posizione e di protesta contro le aberrazioni di un passato più o meno recente, all’insegna di una denuncia politica. Si è così venuta a creare una vera e propria tradizione di lettura politica dell’opera, attualizzata nella contrapposizione tra un regime di oppressione nazifascista, evidenziato anche nelle camicie nere militari immancabilmente indossate da Pizarro e dai suoi sgherri, e una massa di proletari vittime dell’oppressione, rappresentati come prigionieri dei lager: sorte di cui anche Florestano, capo dell’opposizione, era partecipe. Lo scioglimento finale suonava così non come vittoria generica del bene sul male, bensì come affermazione di una fede politica esplicitamente affermata: sorta di trionfo delle magnifiche sorti e progressive in una visione ottimistica della storia, rivelata e spiegata al popolo. Su questa strada Nikolaus Lehnhoff andò ancora oltre: sostituì i dialoghi parlati con un testo scritto per l’occasione dal poeta contemporaneo Hans Magnus Enzensberger e fatto leggere da un narratore posto in un palco, che forniva una guida e un commento alla vicenda, prima di prendere posto sulla scena nel finale diventando il ministro apportatore di libertà.
La versione di Achim Freyer all’Opera di Francoforte nel 1976 introdusse una variante destinata ad avere un certo successo: una visione che potremmo definire pessimistica, scettica e negativa dell’assunto dell’opera. Per Freyer, tutta la vicenda di Fidelio non era che un’illusione, un sogno di emancipazione destinato amaramente a scontrarsi con la dura realtà delle contraddizioni sociali e dell’uniformità di un mondo nel quale tutti, oppressi e oppressori, non sono altro che dei numeri senza individualità: l’intervento salvifico del ministro non significa altro che la restaurazione dell’antico regime. Ancora più radicale in questa direzione l’interpretazione di Jürgen Flimm all’Opera di Zurigo nel 1992: un allestimento ambientato in una discarica desolata e squallida, nella quale non filtra neppure la luce dell’illusione, ma tutto è dominato da un senso apocalittico della morte e della distruzione. Leonora e Florestano non manifestano alcuna gioia nel ritrovarsi, guardano come spettri nel vuoto senza toccarsi: nell’ordine fittizio ristabilito, senza fede né speranza, i prigionieri sono assenti, come inebetiti; solo Jaquino esulta: ora potrà sposare Marcellina. E tutta l’opera sembra passata invano, solo per coronare un piccolo, misero sogno borghese.
Giorgio Strehler, con le scene di Ezio Frigerio, dette a Firenze nel 1969 una regia memorabile di Fidelio: memorabile perché metteva tra parentesi l’assunto programmatico, contenutistico dell’opera, di qualunque tendenza ne fosse l’interpretazione, e giocava da grande teatrante con i meccanismi della scena, trasferendo sul piano visivo il passaggio dai modi espressivi del Singspiel all’apoteosi finale, che era dunque il risultato di una crescita drammaturgica interna, per così dire teatralmente esplicitata in piena armonia con l’evolversi della musica. Strehler mostrava di credere, e giustamente, nelle ragioni dialettiche sottese, e le rendeva comprensibili nel dipanarsi dell’azione: che per lui era un arco dalle tenebre alla luce, ma senza sovrastrutture imposte o sottolineate. Nella storia quasi bisecolare delle interpretazioni del Fidelio, dal realismo al simbolismo, dalla ricostruzione storica all’attualizzazione, dalla denuncia politica al distanziamento brechtiano, dalla sacralizzazione alla secolarizzazione, il lato meno indagato e sviscerato pare essere stato proprio quello delle immanenti qualità teatrali, che proprio dalla frammentazione di un’unità teatrale convenzionale trae la sua ragion d’essere: non meno utopica del messaggio ideale che l’accompagna.