Nello spirito del tempo

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Compositore e pianista. Figlio di un «musicista, fu un fanciullo prodigio». Così, ad apertura di pagina, in totale mancanza di testi di riferimento specifici, i dizionari ci presentano la figura di Johann Nepomuk Hummel, nato a Pressburg (l’odierna Bratislava) il 14 novembre 1778 e morto a Weimar il 17 ottobre 1837. Ma chi era costui? Vissuto tra il pieno classicismo e il primo romanticismo, il suo destino fu quello di accompagnare da protagonista la storia della musica del suo tempo prima di cadere nel dimenticatoio, al pari di tanti altri personaggi di spicco dell’epoca, come Dussek, Cramer, Steibelt, Field, Moscheles, Ferdinand Ries, Kalkbrenner e Czerny.

Destino inevitabile? Forse sì, dato che della loro epoca così ricca di talenti di grido, che di essa resero possibile il fiorire e il diffondersi, a noi rimangono solo le cime, che hanno spazzato via pianure e altopiani: Haydn, Mozart e Beethoven, dunque, la triade perfetta che tra i classici sembra racchiudere ed esaurire tutto il nostro bisogno di conoscenza e di memoria, se non di repertorio. Poi semmai Schubert, che pure in vita non ebbe neppure lontanamente la fama che arrise a Hummel. Di questi come degli altri non restano che i fantasmi e le briciole, accompagnate dal sospetto che riesumare la loro musica di comprimari sia vana speranza, oltre che fatica sprecata.

Non è esagerato definire Hummel uno dei protagonisti della musica del suo tempo. Lo certifica prima di tutto la sua biografia. A Vienna, dove la famiglia si era trasferita nel 1785 e dove il padre, eminente musicista appunto, avrebbe assunto la carica di direttore musicale del Theater auf der Wieden, il teatro gestito da Emanuel Schikaneder, fu notato da Mozart, che per due anni gli diede lezioni private di pianoforte e lo ospitò, facendolo esordire nel 1787 in un concerto da lui stesso diretto: non aveva ancora compiuto dieci anni. E’ possibile che Mozart rivedesse in lui la propria sorte di fanciullo prodigio e volesse preservarlo, prendendolo sotto la sua ala protettiva, dai rischi e dalle disillusioni che quella carriera comportava. Lo accomunava al salisburghese un altro particolare di non poco conto, quello di essere figlio di un musicista (violinista anche lui) ambizioso e spregiudicato, incline a sfruttare – naturalmente a fin di bene – le doti precoci e prominenti del ragazzo, per avviarlo da subito al concertismo. Così il piccolo Hummel, accompagnato dal padre, intraprese nel dicembre 1788 un giro di concerti e di istruzione che sarebbe durato quattro anni. «C’era un gran freddo e molta neve», troviamo scritto nei diari di Hummel padre; freddo e neve che non potevano certo fermare due ardimentosi viaggiatori del Settecento alla ricerca di apparizioni, commendatizie, amicizie, lezioni. Dopo aver risalito l’intera Europa in tappe sfiancanti a caccia degli amatori di musica, gli Hummel si stabilirono dapprima a Edimburgo e poi a Londra (1791); qui il ragazzo fu ascoltato e apprezzato da Muzio Clementi, che si offrì di istruirlo: segno che le sue qualità andavano oltre quelle di un semplice fenomeno da salotto e sale da concerto. A Londra Hummel quattordicenne fu impegnato in un concerto di abbonamento sotto la direzione del famoso impresario Salomon, alle prese con un concerto non specificato di Mozart e una sua sonata.

Ritornato a Vienna nel 1793, Hummel ebbe come maestri Albrechtsberger e Salieri, ossia quanto di meglio la piazza potesse offrire. Intanto continuava a dare concerti e cominciava regolarmente a comporre: a Vienna era considerato uno dei migliori pianisti in circolazione, soprattutto quale eccezionale improvvisatore. Si perfezionò anche con Haydn, ormai anziano e famoso, che lo fece conoscere con straordinario successo a Londra, ormai non più nelle vesti di fanciullo prodigio, ma di provetto professionista della tastiera; e fu grazie alla raccomandazione di quest’ultimo che nel 1804 ottenne il posto di Konzertmeister e direttore musicale a Eisenstadt, presso corte del principe Nikolaus Esterhàzy (Haydn stesso i rimasto titolare del ruolo di Kapellmeister, e lo manterrà ad honorem fino alla morte nel 1809). Qui ebbe modo di prodursi in molta musica sacra (Messe, Te Deum, mottetti) e teatrale a richiesta, non disdegnando rò la sua vera vocazione, che era quella di comporre a maniera viennese soprattutto danze e pezzi mistici, con una speciale predilezione per la musica da camera: genere nel quale i suoi lavori, che magnificamente incarnavano lo spirito del tempo, andavano letteralmente a ruba. A tal punto che i suoi ombrosi datori di lavoro a Eisenstadt lo giudicarono troppo incline a una mondanità buona per tutti gli usi e, dopo averlo avvertito con una minaccia di licenziamento rientrata nel 1808, lo allontanarono definitivamente alla corte nel maggio 1811. Hummel non si perse animo né soffrì troppo del caso: i tempi delle corti principesche alla Esterhàzy stavano per finire e ben altre sirene si offrivano al suo temperamento di brillante uomo di mondo e di ricercato intrattenitore.

Ritornato a Vienna, visse da ricco signore dando concerti e lezioni private, sempre carissime (ciò non gli impedì in seguito di avere tra i suoi allievi nomi di valore come Sigismund Thalberg, Ferdinand Hiller e Adolph Henselt), e partecipando attivamente alla vita della capitale, nella quale si era fissato di sfondare come autore di teatro. Curiosamente, il matrimonio con la cantante Elisabeth Röckel, anziché favorirne un’ambizione non suffragata dal talento, lo dissuase dall’incaponirsi, spingendolo interamente alla carriera pubblica di pianista. Cosa che realizzò con straordinario successo, conquistando una reputazione internazionale, consacrata da una tournée lunga ed estenuante in Germania nel 1816. Qui commise l’errore di accettare il posto di Hofkapellmeister a Stoccarda, dimettendosi nel 1818 per contrasti con la direzione (se come autore non aveva grandi qualità, la sua idea di teatro era troppo avanzata); passò così alla corte granducale di Weimar, trovando in essa la più ampia disponibilità a coltivare i propri interessi, che guardavano ora a liberi arrangiamenti per pianoforte per gli editori stranieri e a pezzi pianistici con cui arricchire il repertorio nei suoi spostamenti (nel suo contratto di maestro di cappella a Weimar aveva ottenuto di poter disporre di tre mesi di libertà per i suoi concerti). A Weimar, dove sarebbe rimasto fino alla morte, Hummel dissodò il terreno e gettò i semi che avrebbero dato i frutti copiosi che sappiamo con Franz Liszt.

A Hummel non mancarono i riconoscimenti dei contemporanei. Fu, grazie alla musica, un uomo ricco e potente, conosciuto e apprezzato, rispettato dai musicisti. Cavalcò il successo con entusiasmo, senza esserne travolto. Seppe anzi capire che il mondo stava cambiando, e cercò di adeguarvisi con una certa fierezza e abilità. La sua posizione nella vita musicale viennese fu oscurata dalla presenza emergente di Beethoven, che Hummel ammirava profondamente ma che stentava a seguire nelle sue traiettorie celesti, e con il quale ebbe rapporti personali difficili. Lo avvicinava a Schubert, sia pure in circostanze psicologiche molto diverse, questa specie di attrazione-repulsione per il Titano, che volle tuttavia visitare nel 1827 sul letto di morte e ai cui funerali, proprio accanto a Schubert, tenne i cordoni della bara durante il trasporto. Non aveva il formato per costituire un’alternativa a Beethoven, ma proprio il fatto che Schubert intendesse dedicare a lui le sue ultime tre monumentali sonate per pianoforte (uscite invece postume nel 1839 con la dedica a Schumann) ci dimostra che Hummel era una presenza musicale autorevole e importante.

Di che tipo, però? Hummel incarna una concezione della musica (parlare di poetica sarebbe forse eccessivo) leggera ed elegante, raffinata e preziosa, risolta in superficie e refrattaria alla pensosità profonda. La sua carriera ebbe inizio nel segno della personalità artistica di Mozart, di cui continuò in un rapporto diretto il pianismo (ampliato nella musica da camera), gettando un ponte tra Mozart da un lato e Chopin e Liszt dall’altro. Con lui la tecnica si fa più ardua e virtuosistica, soprattutto nel campo degli abbellimenti: scale per terze e per seste, salti d’ottava e glissandi, arpeggi, accordi di grande estensione. Le melodie vengono di preferenza esposte con una ricchezza di ornamentazione che, per quanto esemplata sull’arte belcantistica, rinuncia all’espressione patetica, all’accento commovente. Il tutto finalizzato all’estrema grazia dell’apparire, del risultare bello e piacevole, efficacemente incisivo, musicalmente appropriato: oggi si direbbe musically correct. La sua enorme e rapidissima produzione (solo per pianoforte 21 volumi, tra cui moltissime danze, specialmente valzer, e 7 concerti) rispondeva sostanzialmente alle esigenze e al gusto del momento, assecondandolo in tutte le sue trasformazioni: dalla purezza classica degli inizi alle colorazioni Biedermeier che caratterizzano i suoi prodotti più popolari, inclini alla «teatralizzazione» e destinati idealmente a un pubblico non aristocratico ma pagante, fino alle premonizioni romantiche dell’età matura. L’attenzione costante all’aspetto realizzativo dell’opera (Hummel fu anche autore di un ambizioso metodo teorico-pratico uscito nel 1828 e intitolato Anweisung zum Pianofortespiel, ossia Guida allo studio del pianoforte, dai primi principi elementari alla formazione più completa) mette in luce una qualità artigianale di altissimo piano, non suffragata sempre da un pari spessore di sostanza o tensione spirituale: lo studio del pianoforte vi è visto più come ornamento sociale che come impegno culturale. Hummel fu anche il primo, o uno dei primi, che tentassero una completa analisi razionale della diteggiatura pianistica, sistemata in dieci «partimenti» e diffusamente esemplificata.

Nel 1815 Hummel, il violinista Joseph Mayseder e il chitarrista Mauro Giuliani lanciarono a Vienna una stagione di concerti da camera, che dal prezzo dell’abbonamento vennero poi detti Dukaten-Concerte. I tre eseguivano alcuni pezzi a solo e si univano per delle variazioni su un qualche tema molto popolare e talvolta invitavano a collaborare cantanti o altri strumentisti. Nel 1816 Hummel presentò il suo Settimino op. 74 per pianoforte, flauto, oboe, corno, viola, violoncello e contrabbasso. Fu, scrive Piero Rattalino nella sua Storia del pianoforte, «un trionfo inaudito. La scrittura spiccatamente virtuosistica di tutti gli strumenti lanciava l’idea di una musica da camera non più come collaborazione, come creazione di una personalità collettiva, ma come competizione, come confronto di talenti». Si ebbe una vera e propria esplosione di pezzi di questo genere: lo stesso Hummel replicò il colpo con il Gran Settimino Militare op. 114, con tanto di tromba.

Ma fu soprattutto nei Quintetti, prodotti in generosa quantità, che la sua vena ispirata e brillante toccò il vertice dell’inventiva, garantendo al tempo stesso vivacità, grazia e un certo qual gusto piccante che ben si attagliava al mercato dei dilettanti in espansione all’inizio dell’Ottocento e quindi a un pubblico nuovo. Che, se non era quello del futuro, rappresentava adeguatamente la platea per la quale Hummel componeva.

Amadeus a. XV, n. 8 (165), Agosto 2003

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