Una questione d’attualità
A proposito di direttori, orchestre, sale musicali
Perchè le orchestre sinfoniche più prestigiose sono straniere e sono invece quasi tutti italiani i direttori chiamati a guidarle? La domanda è solo apparentemente ingenua e la contraddizione non è casuale. Per rispondere è necessario rifarsi alla nostra particolare tradizione e a tutta la complessa situazione musicale italiana.
Capita spesso di domandarsi – e di sentirsi domandare – perché l’Italia, che pur vanta una grande tradizione musicale, non abbia oggi orchestre sinfoniche in grado di competere con i maggiori complessi stranieri, europei e americani (o anche giapponesi). La domanda è solo apparentemente ingenua. A renderla anzi ancora più appropriata e attuale vi è pói la constatazione che alcuni dei direttori d’orchestra chiamati a guidare stabilmente proprio le più importanti orchestre sinfoniche del mondo sono per l’appunto italiani. Non ci sarebbe bisogno di fare i nomi, se il confronto non fosse davvero tanto schiacciante da apparire quasi paradossale. Dunque: Claudio Abbado è direttore stabile dei Berliner Philharmoniker e direttore musicale dell’Opera di Vienna, con la cui orchestra, i Wiener Philharmoniker, ha un rapporto privilegiato anche nell’attività sinfonica; Riccardo Muti è a capo dell’orchestra di Philadelphia e può vantare sia con i Berliner sia con i Wiener una lunga consuetudine, rispecchiata fra l’altro anche nei dischi; lo stesso si può dire di Carlo Maria Giulini, che in un recente passato ha avuto incarichi stabili anche presso le più prestigiose orchestre americane, da Chicago a Los Angeles. Giuseppe Sinopoli lavora stabilmente con la Philharmonia di Londra ed è stato da poco nominato direttore della Staatskapelle di Dresda, orchestra che ha ancor più gloriose tradizioni; al pari dell’orchestra blasonatissima del Concertgebouw di Amsterdam, affidata nelle mani del più giovane Riccardo Chailly. Aldo Ceccato, da poco tornato in patria, alla Rai di Torino, dopo una lunga permanenza all’estero, fra l’altro dopo aver lavorato con la Filarmonica di Amburgo, è stato recentemente nominato direttore artistico e stabile dell’Orchestra Nazionale di Spagna. Gianluigi Gelmetti è approdato invece di recente in Germania, presso l’orchestra del Süd deutscher Rundfunk, la radio di Stoccarda, come di rettore musicale generale. E il fatto che tutti questi mu sicisti siano stati scelti direttamente dalle orchestre per i loro meriti acquisiti per così dire sul campo, a dimostrazione cioè delle loro qualità in un ben preciso e ampio repertorio sinfonico, classico, romantico e moderno, dà all’interrogativo iniziale un ulteriore spunto: come mai i nostri più grandi direttori, così apprezzati all’estero, non fanno qualcosa per migliorare la situazione delle nostre orchestre, riservando a esse più tempo di quello che abitualmente dedicano loro (quando ne dedicano) nell’attività sinfonica?
Cominciamo col dire che il divario esistente fra la situazione italiana e quella degli altri Paesi ha una spiegazione anzitutto storica. In Italia, a partire dall’Ottocento, la musica si è identificata quasi esclusivamente col melodramma. La mancanza di una tradizione sinfonica, evidente anche nel repertorio, ossia nella letteratura musicale e nelle opere dei compositori – tutti i nostri maggiori musicisti sono stati quasi esclusivamente autori di teatro -, ha fatto sì che non si ponessero le premesse per la fondazione e la crescita di complessi adatti specialmente all’esecuzione della musica sinfonica. Tutte le grandi orchestre straniere, comprese quelle americane, sono nate e si sono affermate per la diffusione di questo repertorio, di provenienza principalmente tedesca: la grande musica che da Haydn giunge fino a Brahms è stata il punto di partenza e insieme di arrivo per stabilire un tessuto organico nell vita di queste orchestre, che si è poi via via esteso ari che alla produzione moderna. E tutte hanno alle spalle una consuetudine con questo repertorio da almeno un secolo, se non di più.
Ciò comporta di conseguenza che ognuna di esse ha avuto sin dall’inizio un luogo specialmente adatto pe esercitare questa attività: ossia sale da concerto destinate specificamente all’esecuzione della musica sinfonica. La fama di orchestre come i Berliner o i Wiener, il Concertgebouw o la Staatskapelle di Dresda, è direttamente legata alle loro sale, che ne hanno in larga misura determinato la qualità, affinandone non solo la disciplina e l’autocontrollo ma anche la forza e la bellezza del suono. Non è affatto esagerato dire che le qualità di un’orchestra dipendono dalla sala in cui avvengono le prove e le esecuzioni: la meravigliosa identità dei Wiener o quella di tutt’altro tipo dell’orchestra del Concertgebouw si spiega solo con le caratteristiche delle rispettive sedi stabili, il Musikverein di Vienna e l’edificio dei concerti di Amsterdam; e, nel caso dei Berliner, il passaggio dalla vecchia sede della Philharmonie a quella nuova, progettata avveniristicamente dall’architetto Scharoun, ha portato a un’evoluzione molto interessante, in larga misura patrocinata dal genio artistico-industriale di Karajan, della fisionomia della stupenda orchestra. La stessa brillantezza e lucentezza di suono delle orchestre americane, qualità che le pongono ai vertici dell’esperienza musicale odierna, provengono dalle caratteristiche acustiche delle rispettive sale.
In Italia, la mancanza di una tradizione sinfonica ha impedito la costruzione di sale da concerto adeguate e sempre più perfezionate. La prima orchestra italiana nata con ambizioni sinfoniche fu quella stabile fiorentina, creata da Vittorio Gui nel 1928. Con l’inaugurazione del festival del Maggio Musicale Fiorentino nel 1933 quest’orchestra fu diretta per anni da tutti i più grandi direttori italiani e stranieri, e raggiunse un livello artistico del tutto inconsueto per quei tempi. Probabilmente, se Toscanini non avesse abbandonato l’Italia nel pieno della sua maturità artistica, l’orchestra della Scala, che era e rimane una delle migliori orchestre del mondo nell’opera, avrebbe raggiunto livelli ragguardevoli anche nel repertorio sinfonico, e sarebbe probabilmente diventata un modello di efficienza almeno pari a quello ricostruito in America da Toscanini alla Nbc. La stessa orchestra di Santa Cecilia, sia prima che dopo la seconda guerra, poteva vantare un notevole credito presso il mondo musicale, in gran parte legato anche alla sala dell’Augusteo, della cui distruzione la capitale reca ancora le conseguenze. E il fatto che oggi l’unica nostra istituzione sinfonica manchi di un proprio auditorium la dice lunga sulle difficoltà obiettive, inique, con cui si trovano a combattere i tentativi di migliorare lo stato delle nostre orchestre, soprattutto da parte dei nostri musicisti più sensibili. E un lungo discorso a parte lo vorrebbe la situazione, per molti versi scandalosa, in cui versano le orchestre sinfoniche della Rai, che pure hanno avuto un ruolo fondamentale, con l’ausilio dei mezzi di comunicazione, nella diffusione di certo repertorio sinfonico.
Questo lento e difficile processo di emancipazione e di recupero della tradizione da parte delle nostre orchestre non potrà mai compiersi se non si porranno nuove condizioni nella formazione e nella qualificazione dei nostri musicisti. Non solo sale adatte per i concerti, giacché i teatri d’opera non forniscono tutti i requisiti necessari; ma anche un’istruzione musicale e professionale indirizzata a preparare strumentisti con esperienza individuale e collettiva adeguata, e con un senso della disciplina ispirato anche dall’orgoglio di poter giungere a certi risultati. Nei nostri conservatori, per esempio, non esistono quasi mai complessi strumentali e orchestrali capaci di dare agli allievi una prima, solida base in questo campo. Magari da essi escono individualità di primo piano, ma non elementi con la preparazione necessaria per entrare direttamente in orchestra e con la capacità di innalzarne automaticamente il livello. E anche questo è un fattore primario che ci allontana dal resto del mondo.
Esperienze come i corsi di qualificazione professionale promossi dalla scuola di musica di Fiesole, o, su altro piano, la creazione di orchestre filarmoniche sul modello dei grandi complessi europei, come la Filarmonica della Scala, la cui costante crescita è un dato estremamente confortevole, sono punti di partenza molto importanti per modificare questa situazione e farci allineare con le conquiste che altrove sono già da decenni possessi stabili. Eppure si ricorderanno le difficoltà che vennero frapposte alla nascita della Filarmonica della Scala, quando l’allora direttore musicale, Claudio Abbado, lanciò l’idea della sua costituzione. E per la verità alcune di queste opposizioni vennero non solo dai politici, più che mai incapaci di pensare la cultura e la musica in termini di rinnovamento, ma anche da qualche musicista pauroso del nuovo. Ma occorre soprattutto un cambio di mentalità; uno sforzo di tutti per far sì che il Paese del melodramma diventi anche un moderno laboratorio di orchestre, e di orchestre in grado di attirare a sé non solo i migliori strumentisti ma anche i più celebrati direttori d’orchestra, e di poter figurare degnamente anche nel mercato discografico, oggi essenziale per l’affermazione internazionale di un’orchestra. Un primo punto di fondamentale importanza è dato dal sempre maggiore ampliarsi delle esperienze di orchestre giovanili, dalla European Community Youth Orchestra alla Junge Deutsche Philharmonie, dal Gustav Mahler Jugendorchester alla benemerita Orchestra Giovanile Italiana dei corsi fiesolani. Non v’è dubbio che in questo caso anche i nostri direttori torneranno più spesso e più volentieri da noi, per contribuire al miglioramento che essi per primi auspicano. Anche se non dovremmo, in un mondo che sempre più è impegnato a superare le barriere nazionali, lamentarci per la loro presenza che porta alto il nostro nome nel mondo. Dopo tutto, dovrebbe essere anche un motivo di orgoglio che gli Abbado, i Muti e via dicendo occupino oggi posti di tale rilievo, e ci siano invidiati da tutti. Quanto al resto, tutto parte, come sempre, dal fondo, dalla volontà di conquistare senza improvvisazioni una dimensione culturale e artistica degna di un Paese evoluto, di rango internazionale.
Do Maggiore, Aprile 1991